27/03/11

Valentine de Saint-Point molto futurista, poco femminista


di Claudio Cabona

Se non ora quando? La donna e la sua dignità, il suo ruolo sociale. La posizione da assumere all’interno e nei confronti del sistema Italia. Dibattiti su dibattiti, manifestazioni, mobilitazioni in nome di una rinascita in gonnella, appelli infuocati al popolo rosa. Costruzione di una nuova identità femminile o starnazzo di gallinelle? La donna paragonata all’uomo, divisione fra sessi al centro di battaglie e rivendicazioni che sanciscono nuove superiorità o inferiorità?
“L’Umanità è mediocre. La maggioranza delle donne non è né superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Sono uguali. Meritano entrambe lo stesso disprezzo. Nel suo insieme, l’umanità non è mai stata altro che il terreno di coltura donde sono scaturiti i geni e gli eroi dei due sessi. Ma vi sono nell’umanità, come nella natura, momenti più propizi a questa fioritura... E’ assurdo dividere l’umanità in donne e uomini. Essa è composta solo di femminilità e di mascolinità”.
La femminilità e la mascolinità sono due elementi che separano e caratterizzano i due sessi, ma che in quest’epoca moderna sembrano essersi in parte persi, lasciando spazio ad un indebolimento dell’individuo che è sempre più costruzione e non realtà.
“Un individuo esclusivamente virile non è che un bruto; un individuo esclusivamente femminile non è che una femmina.
Per le collettività, e per i diversi momenti della storia umana, vale ciò che vale per gli individui. Noi viviamo alla fine di uno di questi periodi. Ciò che più manca alle donne, come agli uomini, è la virilità. Ogni donna deve possedere non solo virtù femminili, ma qualità virili, senza le quali non è che una femmina. L’uomo che possiede solo la forza maschia, senza l’intuizione, è un bruto. Ma nella fase di femminilità in cui viviamo, soltanto l’eccesso contrario è salutare: è il bruto che va proposto a modello”.
Il rinnovamento? Una nuova donna non moralizzatrice, ma guerriera, scultrice del proprio futuro. Un cambiamento che passa attraverso una riscoperta del potenziale rivoluzionario della femminilità che non deve essere un artificio creato e voluto dall’uomo, ma una nuova alba. Non bisogna conservare, ma distruggere antiche concezioni.
”Basta le donne di cui i soldati devono temere le braccia come fiori intrecciati sulle ginocchia la mattina della partenza; basta con le donne-infermiere che prolungano all’infinito la debolezza e la vecchiezza, che addomesticano gli uomini per i loro piaceri personali o i loro bisogni materiali!... Basta con la donna piovra del focolare, i cui tentacoli dissanguano gli uomini e anemizzano i bambini; basta con le donne bestialmente innamorate, che svuotano il Desiderio fin della forza di rinnovarsi!. Le donne sono le Erinni, le Amazzoni; le Semiramidi, le Giovanne d’Arco, le Jeanne Hachette; le Giuditte e le Calotte Corday; le Cleopatre e le Messaline; le guerriere che combattono con più ferocia dei maschi, le amanti che incitano, le distruttrici che, spezzando i più deboli, agevolano la selezione attraverso l’orgoglio e la disperazione, la disperazione che dà al cuore tutto il suo rendimento”.
Non può e non deve esservi differenza fra la sensualità di una femmina, il suo essere provocante e la sua inclinazione a diventare madre, pura e cristallina. La demarcazione fra “donna angelo” e “donna lussuriosa” è puramente maschilista e priva di significato. Il passato e il futuro si incrociano nei due grandi ruoli che la donna ricopre all’interno della società: amante e procreatrice di vita. Figure diverse, ma al contempo tasselli di uno stesso mosaico.
“La lussuria è una forza, perché distrugge i deboli ed eccita i forti a spendere le energie, e quindi a rinnovarle. Ogni popolo eroico è sensuale. La donna è per lui la più esaltante dei trofei.
La donna deve essere o madre, o amante. Le vere madri saranno sempre amanti mediocri, e le amanti, madri inadeguate per eccesso. Uguali di fronte alla vita, questi due tipi di donna si completano. La madre che accoglie un bimbo, con il passato fabbrica il futuro; l’amante dispensa il desiderio, che trascina verso il futuro”.
Il sentimento e l’accondiscendenza non possono ergersi a valori centrali della vita. L’energia femminile non solo si manifesta come ostacolo, ma anche luce che illumina strade di conquista dell’umana voglia di esistere.
“La Donna che con le sue lacrime e con lo sfoggio dei sentimenti trattiene l’uomo ai suoi piedi è inferiore alla ragazza che, per vantarsene, spinge il suo uomo a mantenere, pistola in pugno, il suo arrogante dominio sui bassifondi della città; quest’ultima, per lo meno, coltiva un’energia che potrà anche servire a cause migliori”.
Queste parole, non moraliste né tanto meno prettamente femministe, non furono di una persona qualsiasi. Appartennero ad una donna sì, ma unica, che rigettò tutte le definizioni, stracciando etichette e pregiudizi. Il suo verbo, ancora oggi, nonostante la sua visione del mondo sia stata coniata nel 1912, è ancora attuale e può insegnare molto a chi si pone domande sul “mondo rosa” e non solo. Avanguardista, provocatrice e futurista. Lei fu Valentine de Saint-Point (1875-1953), autrice del “Manifesto delle Donne” e della “Lussuria”. Contribuì, come poche intellettuali nella storia, all’emancipazione della donna sia dal punto di vista dei diritti che del pensiero, partecipando anche a vari movimenti di rivendicazione. Odiava le masse, le certezze, i dettami borghesi, amava la libertà di pensiero, l’essere femmina, l’essere futuro. Concludo con l’ultima parte del manifesto, momento più alto della poetica di una delle grandi donne del ‘900. La speranza è che femmine come Valentine esistano ancora oggi, perchè l’Italia ha bisogno di loro, di voi.
”Donne, troppo a lungo sviate dai moralismi e dai pregiudizi, ritornate al vostro sublime istinto, alla violenza, alla crudeltà.
Per la fatale decima del sangue, mentre gli uomini si battono nelle guerre e nelle lotte, fate figli, e di essi, in eroico sacrificio, date al Destino la parte che gli spetta. Non allevateli per voi, cioè per sminuirli, ma nella più vasta libertà, perché il loro rigoglio sia completo.
Invece di ridurre l’uomo alla schiavitù degli squallidi bisogni sentimentali, spingete i vostri figli e i vostri uomini a superare sé stessi. Voi li avete fatti. Voi potete tutto su di loro.
All’umanità dovete degli eroi. Dateglieli”.


http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=6928

26/03/11

Qumran: quanti errori su quei papiri

Qumran: tutto sbagliato, tutto da rifa­re? L’esclamazione bartaliana viene alla mente non appena chiusa l’ulti­ma pagina dell’avvincente Qumran. Le rovine della luna (Edb, pp. 224, euro 21), testo che fin dal sottotitolo mette la pulce nell’orecchio: «Il monastero e gli esseni: u­na certezza o un’ipotesi?». Un libro in cui il giovane – ma accreditato: insegna esegesi a Vienna e Innsbruck – Simone Paganini smonta a suon di prove e documenti prati­camente tutto ciò che sapevamo (o crede­vamo di sapere...) sulla scoperta archeolo­gica più sensazionale del Novecento, so­prattutto per quanto riguarda la storia del cristianesimo. E – proprio perché si tratta di un testo divulgativo, che forse per la prima volta in Italia rende disponibili al grande pubblico i risultati della ricerca scientifica più recente sul celebre sito – le sorprese so­no davvero molte. Tentiamone un catalogo quanto mai essenziale.
A Qumran non abitavano gli esseni. Incredibile, no?
Finora pensavamo che la lo­calità a nord-ovest del Mar Morto, nei cui dintorni – a partire dal 1946 – prima i be­duini e poi gli archeologi hanno scoperto 11 grotte più o meno stipate di antichi manoscritti, fosse un monastero abitato appunto dagli esseni: setta rigorista ebraica che pra­ticava celibato, assoluta purezza rituale, non­violenza, comunione dei beni e povertà. Non è così: scavi recenti (i primi infatti, dal pun­to di vista scientifico, sono da dimenticare...) hanno appurato che l’insediamento aveva piuttosto caratteri dapprima di avamposto militare, quindi di centro per la fabbricazio­ne di vasi per uso sacerdotale, ma anche di produzione agricola e commercio, persino con un certo lusso (vedi le molte monete rin­venute) incompatibile con gli usi esseni.
Qumran non era nel deserto
Un caposaldo della teoria essena consiste nel fatto che (più o meno a partire dal 130 a.C.) la setta – alla quale talvolta è stato acco­munato Giovanni Battista – si era rifugiata nel deserto in polemica con la corrotta clas­se sacerdotale di Gerusalemme, in una sor­ta di eremitaggio esclusivamente maschile di preghiera e copiatura dei testi sacri; e que­sto fino al 68 d.C., allorché i romani distrussero il sito, provocando (per nostra fortuna) l’abbandono delle grotte con i manoscritti. Ma ormai è dimostrato che Qumran era tutt’altro che solitario, anzi stava all’interno di un trafficato reticolo di strade e – pur es­sendo un centro di meno di 100 abitanti – conserva un cimitero di oltre mille tombe; le quali peraltro conservano cadaveri non so­lo maschili, ma pure di donne e bambini.
I papiri non sono stati scritti a Qumran
Un po’ strano, in un monastero dove si co­piavano intensamente libri, trovare soltanto tre calamai in pietra e nemmeno un pezzettino minimo di per­gamena... Eppure è succes­so a Qumran, nonostante vi si siano conservate discrete quantità di altri antichi ma­teriali organici. Finora si pensava che gli oltre mille rotoli del Mar Morto (660 so­no quelli i cui frammenti permettono un’identifica­zione) fossero una sorta di libreria segreta degli esseni, che avevano tra­scritto e sigillato in vasi i loro scritti sacri per conservarli dalla distruzione; e invece non solo i manoscritti appaiono quasi tutti co­piati da mani diverse (uno scrivano per ogni libro?!?), ma il loro contenuto riflette ten­denze culturali e teologiche diverse e persi­no contrastanti: come se provenissero da u­na biblioteca molto aggiornata (per esempio quella del Tempio di Gerusalemme), trasfe­rita in fretta per salvarla dalla distruzione.
Ma gli esseni, poi, sono esistiti davvero?
La cosa curiosa è che, nei manoscritti di Qumran, la parola «esseno»... non esiste pro­prio! Anzi, per la verità non sappiamo nep­pure quale fosse il termine ebraico per definire la setta, visto che le uniche notizie su di essa giunte fino a noi dipendono da Giu­seppe Flavio, dunque dal latino e dal greco. E c’è persino una seria studiosa israeliana secondo la quale gli esseni non sono mai e­sistiti, in quanto sarebbe impensabile che nel giudaismo del tempo di Cristo 4000 per­sone potessero impunemente negare – con la loro castità – il primo precetto biblico: «Crescete e moltiplicatevi».
A Qumran non c’è il testo del Vangelo...
Per i cattolici il frammento qumranico più importante è il famoso 7Q5, nel quale alcuni studiosi hanno identificato un versetto del Vangelo di Marco: fatto di importanza ca­pitale per retrodatare la composizione dei Vangeli, avvicinandola quindi alla morte di Cristo. Secondo Paganini però si tratta di u­na tesi insostenibile: sulle 20 lettere del frammento, solo 7 sono ricostruibili con si­curezza e sulle 1127 combinazioni possibi­li appena il 2% potrebbe avere relazione con Marco. Conclusione: «Sicuramente non ci troviamo davanti a un testo cristiano», ma probabilmente a una genealogia greca. Tut­tavia i rotoli del Mar Morto, composti qua­si tutti prima della nascita di Gesù, restano importantissimi per il cristianesimo in quanto consentono di ricostruire il clima culturale e religioso in cui visse il Nazareno.
...ma nemmeno il complotto del Vaticano
Negli anni Novanta, basandosi sui numero­si «pasticci» combinati dalle équipes di stu­diosi che da un quarantennio avevano il mo­nopolio sui rotoli di Qumran, si diffusero va­ri bestseller d’impostazione «complottista» a sfondo anti-cattolico. La tesi fondamenta­le era: i manoscritti del Mar Morto non ven­gono pubblicati perché rivelano una verità «alternativa» su Cristo e dunque il Vaticano li sta boicottando. Ma la teoria è inconsi­stente poiché – spiega Paganini – «il Vatica­no non ebbe mai in nessun momento a che vedere con l’opera di pubblicazione dei ma­noscritti », che dal 1967 dipende dal gover­no israeliano. Eppure l’ipotesi «alla Dan Brown» resiste nella pubblicistica. Ma la storia dei ritrovamenti di Qum­ran è costellata da numerosi altri im­previsti incredibili, marchiani errori umani, ritardi ingiustificabili, esose contratta­zioni economiche (di numerosi frammenti non si conosce nemmeno l’esistenza perché sono finiti illegalmente in mani private), conflitti per­sonali e guerre vere e proprie tra nazioni... Mol­ti misteri sui rotoli sono dunque destinati a ri­manere tali, in quanto i dati che avrebbero po­tuto fornirci risposte sono irrimediabilmente perduti. Oggi comunque l’ipotesi più accredi­tata è quella che a Qumran abitassero alcune famiglie sacerdotali ebraiche, dedite alla fabbricazione di ceramica rituale «pura», e che proprio costoro avessero aiutato altri sacerdo­ti provenienti da Gerusalemme a nascondere la biblioteca del Tempio nelle grotte dei din­torni, fornendo loro anche le giare adatte per contenere i rotoli. Sarà così? «L’analisi dei ma­noscritti del Mar Morto – ammette Paganini – è appena agli inizi». E dunque...

Avvenire, 22 marzo 2011


23/03/11

Ricordo di Giuseppe Palomba

di Carlo Gambescia

Un economista refrattario

Venticinque anni fa, ad essere precisi il 30 gennaio 1986, moriva Giuseppe Palomba, economista refrattario, dal momento che sarebbe improprio definirlo eretico… Anche perché parliamo di un professore ordinario non di outsider come Gesell e Douglas, soldati «del coraggioso esercito degli eretici », secondo la classica definizione di Keynes a pagina 542 della General Theory ( Utet).
Ma refrattario a che cosa? Alle alte temperature dei luoghi comuni. E per questo incompreso, perfino da economisti aspiranti eretici, come Geminello Alvi. Il quale, una volta, quando ancora spezzavamo il pane insieme, lo bollò come confusionario.
Di regola, gli economisti non leggevano Palomba perché troppo filosofo, mentre i non economisti, non lo capivano, perché troppo matematico. E ancora oggi è così.

Galeotta fu la biblioteca

Chi scrive ha scoperto Palomba per puro caso (quando si dice la serendipità…). Dove? Biblioteca della Fondazione Sturzo, fine anni Ottanta: mentre lavoravamo su altre cose, dal catalogo spuntò, come in una storia di Harry Potter, un suo estratto dalla “Rivista di Politica Economica”, anno 1934, dal titolo demodée: L’eterogeneità sociale e l’economia corporativa”… Dove Palomba estendeva la teoria della circolazione delle élite allo studio della società corporativa. Ponendo fondati dubbi sulla possibilità di creare un’economia corporativa integrale (spunto poi ripreso nel suo Corso di economia politica corporativa , uscito in due volumi nel 1940). Fu un colpo di fulmine. Dovuto alla sua brillante capacità, rara negli economisti, di estendere la riflessione sociologica all’ economia, senza fare a sconti nessuno. E nel 1934 al potere c’era Mussolini…

Biografia in pillole

Qualche notizia biografica. Giuseppe Palomba, nasce in provincia di Caserta (San Nicola La Strada) il 9 maggio del 1908, si laurea giovanissimo in economia a Napoli nel 1929. Studia con big come Corbino Niceforo, Barbagallo e Amoroso, economista allievo di Pareto. Nel 1932 frequenta la London School of Economics. Nel 1935 consegue la libera docenza in Economia politica e si dedica in particolare agli studi di economia matematica. Nel 1939 è in cattedra a Catania. Nel dopoguerra insegna a Napoli (Facoltà di Economia) e negli anni Settanta a Roma (Facoltà di Scienze Politiche). Socio dell’Accademia dei Lincei e di numerose istituzioni internazionali è autore di una ventina di libri. Nei ricordiamo tre, particolarmente lussureggianti: Fisica economica (1970); Morfologia economica (1970); L’espansione capitalistica (1973), tutti pubblicati dalla Utet, e purtroppo esauriti da anni.

Un'economia applicata ai problemi concreti

La galoppata teorica di Palomba non conosce steccati: tre i principali campi d’indagine.
Il primo è quello dei rapporti tra sociologia ed economia. Accurato lettore di Pareto, Leone, Michels, Perroux, Palomba non crede nell’esistenza di un’economia astratta e separata dalle istituzioni sociali. Di qui l’interesse per lo studio dei rapporti tra classi sociali, strutture di potere e teoria economica. Per Palomba è sempre necessario distinguere tra economia politica e politica economica. La prima ha valenza teorica, la seconda pratica. La prima implica l’impiego della spiegazione scientifica, la seconda talvolta l’ uso della forza. E il ruolo dell’economista è di mediare tra i due aspetti, puntando sull’economia applicata ai problemi concreti. Detto altrimenti: sull’economia sociale di mercato. Per capirsi, secondo Palomba non esistono economisti puri (come oggi predica il neoliberismo) né politici puri (come in passato propugnava il fascismo), ma economisti e politici che si sporcano le mani con la politica economica. Ad esempio, per venire all’oggi, elaborando concretamente quel piano industriale di cui tutti parlano a vanvera…

Economia ed entropia

Il secondo filone è quello dell’economia matematica. A giudizio di Palomba, quando si studia l’ economia teorica, va conservata l'analogia tra scienze fisiche ed economiche, estendendola però ai principi einsteiniani di relatività speciale e generale, usando il linguaggio dell’algebra tensoriale e la teoria dei gruppi di trasformazione. Tutta roba molto complicata… Ma quest’ultimo filone rinvia al terzo. Palomba, partendo dal concetto di relatività, giunge a sostenere che i sistemi economici, sono sistemi chiusi, e dunque soggetti a entropia: una crescente “disorganizzazione” che implica, tra le varie ipotesi, anche quella del declino. Tesi poi sostenuta, e con maggiore fortuna, da Georgescu-Roegen.

Una curiosità senza limiti

Lettore onnivoro, Palomba si è confrontato con autori come Evola, Guénon, Spengler, i classici del pensiero islamico e cristiano, Donoso Cortés, Lenin, Marx. Inoltre chiunque abbia assistito alle sue lezioni universitarie o partecipato agli incontri organizzati nella sua casa napoletana di Monte di Dio, come ricorda l’allievo Eugenio Zagari, ne rimpiange le doti umane. E, cosa non secondaria, l’ incontenibile desiderio di interrogarsi e interrogare gli altri. Come prova l’evoluzione del suo pensiero. Che, semplificando al massimo, passa prima per una fase spengleriana, però con inflessioni evoliane-toynbeeiane (anni Quaranta) e poi guénoniana, di avvicinamento e conversione (?) all’Islam (prima metà anni Cinquanta).

Palomba e Guénon

Una chicca. La sua Introduzione all’economica ( Pellerano - Del Gaudio 1950), appena uscita gli valse il plauso di René Guénon: “Ci felicitiamo vivamente con il professor Palomba per il coraggio di cui dà prova reagendo così in pieno ambiente universitario, alle idee moderne e ammesse ufficialmente, e possiamo solo consigliare la lettura del suo libro a tutti quelli che si interessano a questi problemi e conoscono la lingua italiana, poiché ne trarranno grande profitto” (R. Guénon, Recensioni, Edizioni all’Insegna del Veltro 1981).
L’Introduzione è tuttora apprezzata negli ambienti tradizionalisti Perché racchiude una piccola parte dedicata all’economia medievale… Dove Palomba, muovendosi abilmente tra esoterismo ed economia, oppone in modo convincente l’organicità del mondo tradizionale all’individualismo dell’economia borghese.

Economista del dialogo

Si tratta di una fase, complessivamente tradizionalista, che l’economista supera nella seconda metà degli anni Cinquanta, aprendosi alla filosofia cristiana della storia, agostiniana in particolare. Puntando però sul dialogo con la modernità piuttosto che sul conflitto. Tuttavia il suo giudizio sul Sessantotto resta negativo, al punto di scorgere nella reciproca violenza tra giovani e polizia, l’incarnarsi dello spirito stesso dell’Anticristo. Negli anni Settanta si rafforza la sua amicizia con Silvano Panunzio, pensatore cristiano, alla cui rivista "Metapolitica" l’economista accetta di collaborare.
Palomba piuttosto che nella rivolta crede nel dialogo, e con tutti, dal tradizionalista al marxista. Il suo è un personalismo cristiano, dunque non ateo, ma aperto al mondo. Come prova questa dedica: “Umile omaggio di un timido tentativo. Giuseppe Palomba” . Scritta di suo pugno, anno di grazia 1978, su un estratto inviato in dono all’Istituto Gramsci, dove ora è consultabile. Si tratta dei Dialoghi fra un cattolico e un marxista, testo che poi confluirà insieme ad altri simili nella raccolta Tra Marx e Pareto (De Simone 1980). Insomma, un economista da leggere e rileggere. E magari da consigliare a Tremonti. Il quale pur andando notoriamente pazzo per le citazioni colte, quelle che fanno tanto Ministro Illuminato, finora ha snobbato Palomba. C’è però sempre tempo per rimediare.

http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/


Un ulteriore passo verso la barbarie

di Giuseppe Gorlani

L’attacco alla Libia da parte degli U.S.A. e dei suoi scherani segna un ulteriore passo verso la barbarie. Nel disprezzo di qualsiasi legge e del servizio al bene comune, questa ennesima guerra porta l’umanità sempre più vicina all’orlo del baratro.

Il pretesto “umanitario” vale quale ipocrita foglia di fico dietro la quale si celano brame insaziabili e una delirante idiozia. Stiamo assistendo alle più estreme manifestazioni dell’ignoranza; e non certo della semplice ignoranza nozionistica o, peggio, morale ed etica, ma dell’ignoranza principiale, riguardante l’aspirazione a cogliere il valore essenziale della vita.

Sembrerebbe, infatti, che gli individui al potere (almeno la maggior parte) stiano facendo a gara per superarsi gli uni con gli altri in efferatezza e stupidità, comportandosi come se l’uomo contingente fosse eterno, e cioè come se il possesso ad oltranza di questa o quella ricchezza coincidesse col Bene assoluto. Hanno bisogno di primeggiare in strepito, vanità e distruzione, poiché paventano il confronto con l’insignificanza che si portano dentro. Costoro esemplificano una concezione dell’esistenza in totale antitesi a quella sapienziale.

In un articolo intitolato “Minosse”, comparso sul numero di gennaio-febbraio 2011 del Periodico di esegesi platonica “Paideia”, si legge: «Una società decade quando i princìpi più alti vengono declassati e il mondo divino è antropomorfizzato e degradato. In sintesi l’uomo che dovrebbe innalzarsi a Dio, rende Dio a misura d’uomo. È la posizione protagorea: l’uomo è misura di tutte le cose». A maggior chiarimento, andrebbe precisato: l’uomo dimentico della propria realtà ontologica.

Secondo la prospettiva sapienziale, infatti, l’io individuale deve risolversi nel Sé, realizzando preliminarmente armonia con la natura e con i propri simili. Non ricordo quale grande taoista scrisse: «L’uomo del Tao (Dao) non lascia tracce». Per contro, gli uomini che hanno elevato il progresso tecnologico a religione gareggiano a chi lascia le tracce più disastrose e terribili. Perché altrimenti riempirebbero le loro detestabili bombe di uranio impoverito o utilizzerebbero ordigni al fosforo? Sanno benissimo che gli effetti di queste armi sono devastanti e di lunghissima durata, eppure le utilizzano, e ricevono premi Nobel per la pace a motivo delle loro “nobili” azioni o perpetrano nuovi genocidi in nome di quelli patiti. Allo stesso modo i loro numerosi sostenitori si fregiano di titoli altisonanti. Penso al sedicente filosofo Bernard-Henri Lévy, il quale, con solerzia non di certo disinteressata, si affretta a definire l’aggressione in corso: “una guerra giusta”. E penso pure ai numerosi artisti, scienziati, giornalisti e pensatori che prostituiscono le loro abilità intellettuali o artistiche in cambio di fama e denaro.

Chi o che cosa potrà fermare o quanto meno ostacolare il dilagare apocalittico di questa disprezzabile genia? Un risveglio di coscienza nei popoli o l’irradiazione sottile di un’élite intellettuale, spiritualmente orientata, come suggeriva René Guénon? Non saprei, forse una combinazione di entrambi. Credo, tuttavia, che la loro cieca e opprimente smania di potere verrà innanzitutto smascherata dalla Natura, intesa come energia-forza-volontà del Divino. Due segni estremamente chiari, tra i molti, ci si parano dinanzi: la catastrofe di Fukushima e l’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico.

“Meditate gente, meditate”, diceva, mi pare, una canzone dei Canned Heat negli anni ’70. Sì, se vogliamo prepararci alla nostra personale uscita di scena e al rendez-vous planetario con le messi derivanti dalle semine della “civiltà” alla quale apparteniamo, ci converrà meditare profondamente sul significato del nostro esserci e agire in conseguenza. Non si dovrà trattare però di un cambiamento superficiale, bensì radicale; dovremo cioè modificare concretamente il nostro modo di pensare e di vivere, smettendo, per quanto possibile, di sottrarre con sprechi il cibo alle bocche degli affamati e togliendo le dita dai grilletti di tutti i fucili puntati sempre sugli “altri” che, a ben vedere, sono gli specchi in cui si riflette, moltiplicandosi, il volto esecrabile di noi stessi.