22/06/17

Il nomos della tecnica, il tramonto della politica


Il tema dell’avanzata inarrestabile della tecnica appassiona molti. Tra loro, filosofi di grande cultura, come Umberto Galimberti, con il suo denso Psiche e Techne. Da ultimo è sceso in campo il grande vecchio della filosofia italiana, Emanuele Severino. All’alba dei suoi 88 anni, il pensatore bresciano ha pubblicato Il tramonto della politica, dal pretenzioso sottotitolo (ma al grande esperto di Parmenide si può concedere) Considerazioni sul futuro del mondo.
Nessun dubbio sull’importanza decisiva di tematizzare il rapporto tra tecnica e politica; ciò che colpisce è la tesi centrale di Severino, ovvero che “la politica tramonta perché, quando non si rassegna alla propria dipendenza dal capitalismo, si illude di poter guidare il capitalismo, ossia ciò che è destinato al tramonto.”
Nel libro, l’autore riprende e sviluppa temi a lui cari come il rapporto tra politica, tecnica e filosofia e propone una chiave di lettura della volontà di abbandono della verità tipica del tempo presente. In questo processo di relativizzazione generale il capitalismo, per trionfare sui propri nemici, dopo aver emarginato la politica, deve sfruttare a fondo le potenzialità della tecnica, divenuta sempre più forte, una serva che si sta trasformando in padrona, svuotando il capitalismo stesso del suo scopo e conducendolo quindi alla morte. Quello che oggi ci pare uno scontro epocale, sostiene Severino, è soltanto l’espressione di una battaglia di retroguardia, tra le diverse “verità” che intendono piegare il mondo alla loro visione, tutte destinate a essere sconfitte dall’avvento della tecnica, che potrà compiersi pienamente solo quando quest’ultima potrà “godere del sostegno della filosofia e raggiungere il proprio scopo: realizzare tutto quanto è possibile.”
Premesso che la politica non si illude affatto di guidare il capitalismo, ma ne è l’interessata servitrice anche contro la volontà popolare, due tesi sembrano davvero sconcertanti: la prima è che sia in corso uno scontro tra pretese veritative contrapposte. Spiace contraddire un pensatore di prim’ordine, ma non è così. Il capitalismo, nella sua forma globalitaria e tecnoscientifica ha spazzato via, al grido “non c’è alternativa”, ogni visione del mondo ad esso non riducibile. E’ oggi l’unico giocatore in campo in una partita evidentemente truccata. Lo stesso Severino ebbe modo, nel corso di oltre mezzo secolo di speculazione filosofica, di criticare aspramente capitalismo e comunismo (anche il fascismo, peraltro) considerati entrambi fonti dell’heideggeriana “vita inautentica”, espressioni del dominio della tecnica. Gli fa velo, nella circostanza, un retro pensiero nichilista riassunto in una sua frase assai citata, dalla Follia dell’angelo: “si tratta di capire che la costruzione e la distruzione hanno la stessa anima”.
Questo è un punto di divergenza insanabile, e bene fece il solido tomista Cornelio Fabro a decretare l’inconciliabilità con il cristianesimo delle idee dell’allora giovane docente dell’Università Cattolica. La seconda tesi cui occorre ribellarsi è che la tecnica sia il vettore attraverso il quale il capitalismo verrà svuotato e sconfitto. Idea intellettualistica e, come dire, teoretica, danzante sulle nuvole, figlia di un approccio che non tiene conto dei rapporti di forza, ovvero di quella che Machiavelli definì la realtà effettuale. Il capitalismo è il meccanismo dell’ideologia liberale destinato a determinare e dominare i rapporti di produzione e, attraverso quelli, l’intera vita del mondo. E’ dunque struttura, in senso marxiano, mentre la tecnica è, ancora, sovrastruttura, strumento della dominazione degli uomini da parte del Signore.
Altra cosa, ma Severino tace sul punto, è il transumanesimo, ossia l’ideologia prima nascosta ed oggi emergente, distillata nei pensatoi delle oligarchie economiche e finanziarie, la corrente metaculturale che sostiene un accelerato sviluppo scientifico e tecnologico volto alla trasformazione della specie umana attraverso le nuove scienze, informatica, genetica, cibernetica, neuroscienze. Tutte insieme, sono oggi chiamate tecnoscienze, poiché riuniscono in sé la scienza, che è sapienza, la tecnica e la tecnologia, ossia l’uso e la pratica applicazione delle conoscenze e delle abilità acquisite.
Le tecnoscienze paiono a noi la concretizzazione del Golem, figura mitica e concetto ricorrente della tradizione ebraica, l’essere di argilla a cui viene data la vita attraverso riti esoterici da parte dei più sapienti rabbini. Il significato letterale è embrione, massa grezza. Secondo tradizione il golem è un potente essere antropomorfo di materia inerte. Come un robot, il golem esegue gli ordini del suo creatore, ma è privo di pensiero e di emozione, in quanto non possiede anima. Per dargli vita, sulla fronte gli viene scritta la parola emet, verità; per distruggerlo, viene cancellata la prima lettera, ma met significa morte.
Il Signore oggi intronizzato è il tecnocapitalismo, ovvero il capitalismo che controlla e domina, possiede la tecnologia e ne decide gli esiti, una forza inesorabile che avanza e distrugge ciò che trova sul proprio cammino, in nome di un epocale cambio di paradigma esistenziale ed antropologico. Golem, non a caso, in ebraico moderno significa anche robot. La tecnica è l’alleata più potente del capitalismo, non certo la sua nemica, ed un cambiamento potrà avvenire – lo scenario è il più sconvolgente – solo allorché la tecnica, soprattutto attraverso la cibernetica, potrà replicare se stessa, decidere da sé obiettivi, addirittura darsi dei fini senza o contro il controllo umano. La strada, da un punto di vista pratico, è aperta, ma modi e tempi sono ancora del tutto sconosciuti.
Qui si inserisce la terza obiezione al pensiero di Severino, allorché egli sembra sperare in un’alleanza tra tecnica e filosofia. Se, come egli afferma, tutte le verità sono sconfitte dalla tecnica, unico scopo possibile è realizzare “tecnicamente” tutto quanto è fattibile, con il sostegno della filosofia. E’ possibile che chi scrive abbia frainteso o preso un grossolano abbaglio (interpretare il pensiero dei pensatori è sempre arduo…), ma ci sembra che Severino, gran conoscitore della filosofia greca, proponga nientemeno che la definitiva fuoruscita dalla tradizione del pensiero occidentale.
I greci fondarono la civiltà di cui siamo figli degeneri sul concetto di limite, sulla prudenza (phrònesis) e sul principio di non contraddizione. A Platone ed Aristotele siamo debitori quasi di tutto, in particolare dell’idea di bene e di male. Una filosofia che si alleasse con la tecnica commetterebbe due tragici errori: da un lato, la tecnica è “pensiero che non pensa”, non ha altro scopo che funzionare, come ha ben capito Galimberti. La sua dimensione è del tutto estranea al giudizio, ai fini, alla direzione, che è il senso del pensiero speculativo. Non ha bisogno della “mosca cocchiera”, avanza da sola.  Filosofo, “amico della sapienza” è colui che ragiona su ciò che vede e fornisce un giudizio. Tecnico è colui che prende atto dei progressi della scienza, e utilizza le leggi fisiche da essa scoperte per usi pratici (tecnologia).
In questo senso, la filosofia altro non diverrebbe che la copertura “colta” per realizzare la legge di Gabor. Dennis Gabor, eminente fisico ungherese, teorizzò che tutto ciò che si può realizzare “tecnicamente”, si farà, e tutte le possibili combinazioni saranno tentate. La scienza, purtroppo, ha titolo per ragionare in tal senso, figlia e nipote di Prometeo e di Adamo che si ribella a Dio, cioè al limite da lui posto, ma la filosofia è la coscienza critica, l’occhio vigile e morale dell’uomo che, uscito dalla caverna di Platone, vede la luce ma teme l’accecamento.
L’altro errore, ben gradito al dominio capitalista, corollario dell’altro, è quello di accettare un ruolo subalterno. Il Signore paga la ricerca, oggi soprattutto nell’ambito dell’elettronica, della genetica, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, prescrive l’invenzione continua di nuove applicazioni. La filosofia, rassegnata a non partecipare al grande gioco, si limiterebbe ad applaudire e fornire la copertura teorica all’avanzata amorale della Tecnica. Doctores tiene la Iglesia, dottori ha la Chiesa, afferma un detto castigliano, a significare che un impianto di giustificazioni a posteriori è sempre pronto, anche e soprattutto per le nefandezze.
Ad una retta filosofia, liberata anche dal sogno husserliano di diventare scienza, va al contrario il compito di essere, a suo modo, “katechon”, ciò che frena, impedisce, sottopone a giudizio che può essere negativo, e lascia quindi la Tecnica – cioè i suoi padroni- soli con le loro immense responsabilità. Un eventuale sopravvento della tecnica sul capitalismo, peraltro, sarebbe un evento ancora peggiore del male.  Ha invece ragione Severino a constatare l’inevitabilità del passaggio, in larga parte compiuto, dalla gestione politica a quella tecnoscientifica dei processi politici.
Egli ne sembra tuttavia soddisfatto, segnalando l’incontro della volontà tecnica e di quella filosofica. Sembra, in verità, la giustapposizione antiumana di due volontà di potenza che si fondono, ed a scomparire è la ragione filosofica, che si libera dello sguardo morale. Anzi, sottolinea che questa sarebbe “la coerenza estrema dell’Occidente”, che realizza una sorta di pax technica in un superstato tecnico, che, peraltro, avrebbe comunque un governo (o governance) e dei dominatori. Vecchia regola è che chi paga i suonatori decide la musica, per cui nessun potere è tecnico, ma è sempre politico, nel senso che determina rapporti di forza nella vita concreta della polis e degli uomini che la compongono.  Insomma, da Severino ci arriva una sorta di assenso ad un destino, quello del dominio tecnoscientifico, che non è affatto pax, se non nel senso della fine del pensiero e del giudizio critico, un deserto dell’Unico che Diego Fusaro chiama “eterofobia dei globalitari”, cioè dei Signori del denaro. Sono i loro i padroni, banditori, ispiratori, mandanti e finanziatori delle tecnoscienze, cui sono interessati per un unico motivo, la capacità di dominio sull’uomo e sul mondo, oltre ogni limite, che è lo scopo, o meglio, la hybris, la tracotanza orgogliosa, la selvaggia volontà di potenza di cui il capitalismo assoluto unico e finale è portatore.
La riflessione deve quindi esplorare un campo spesso trascurato dai filosofi, ovvero il grande inganno del potere globalitario che riduce tutto a tecnica, a procedura, a pilota automatico, avendo proclamato la propria eternità sistemica e negato la possibilità di alternative. Un totalitarismo singolare, le cui sbarre non sono meno ferree per il fatto di risultare poco visibili. La ragione tecnica, o la riduzione di tutto a tecnica, è, a nostro avviso, il grande espediente di potere responsabile del tramonto della politica, e la dubbia pax technica di cui parla Severino deve essere smascherata come strumento essenziale della dittatura del tecnocapitalismo. Capitalismo basato sul possesso e l’orientamento della tecnica: i nomi, infine, significano qualcosa.
E’ utile partire dalle definizioni universalmente accettate: la tecnica è l’insieme delle regole pratiche da applicare nell’esercizio di un’attività intellettuale o manuale; il procedimento specifico seguito nell’esecuzione di un lavoro o di un’opera; l’utilizzazione della scienza a fini di immediata utilità; ogni applicazione pratica di una scienza, poiché l’attività umana tende a creare congegni, inventare macchine per sottomettere le forze naturali all’uomo e soddisfare le sue esigenze pratiche.  Da tutto quanto esposto, si inferisce che la tecnica è un mezzo. Poiché i mezzi servono a scopi, il rapporto invertito tra i meccanismi e gli obiettivi è una finzione, una menzogna ad uso di chi, appunto, domina e determina i fini. L’abbiamo definito il Signore, ed è la cupola finanziaria ed industriale che ha privatizzato scienza e ricerca in vista delle pratiche applicazioni di loro interesse.
L’astuzia del Signore che, rammentiamolo, possiede tutto, è quella di aver costruito un vero e proprio “nomos della tecnica”, ossia un senso comune accettato, una falsa, ma creduta legge di natura che situa i mezzi, le modalità, le tecniche, al di sopra di ogni altro principio, destituendo, o meglio celando i fini.  La parola greca nomos designa la prima misurazione, da cui derivano tutti gli altri criteri di misura; ha poi assunto il significato di norma a fondamento, che “intesa nel suo significato originario è quella che meglio si presta a rendere l’idea del processo fondamentale di unificazione di ordinamento, localizzazione”. (Carl Schmitt).
La tecnica è impersonale, ma niente affatto neutrale. Non è un principio da mettere ai voti, né può essere oggetto di dissenso: non si può dissentire dalla sfericità della terra o dall’equazione d’onda di Maxwell. Il trucco magico è far coincidere il sapere tecnico con il pensare tecnico, che è una contraddizione in termini. Pensiamo all’informatica: ci è stato insegnato che per conseguire un certo risultato, poniamo entrare in un programma di calcolo si fa così, si segue un determinato percorso scandito da quei gesti e solo da quelli, poiché, in caso contrario, non funziona, ci respinge. E’ la concretizzazione del “si” di Heidegger: si fa, si dice, si deve. Ma, spiega il pensatore di Messkirch, questa è la notte del mondo, e ciò che massimamente si deve pensare è che non si pensa. Al Signore va bene così: la tecnica è un cruscotto fabbricato per suo conto, pieno di comandi e di un quadro di strumenti. Strumenti, appunto, da azionare in determinate circostanze per scopi precisi, predeterminati dal libretto di istruzioni.
Ai vari livelli corrispondono differenti profili di accesso: la grande maggioranza può solo pigiare i pulsanti della tastiera, che si offrirà generosamente di suggerire in anticipo le parole da digitare. Qualcuno potrà azionare comandi più sofisticati, solo pochissimi dovranno conoscere quello che c’è dentro, il funzionamento del manufatto, soprattutto sapere perché esiste.  Alla tecnica manca qualsiasi eticità (la sittlichkeit di Hegel) ed è del tutto estranea a qualsiasi orizzonte di trascendenza, o semplicemente di alterità. Essa “è”, sta, incombe, e ogni domanda o obiezione non è solo sconsigliata, ma risulta superflua e indegna di risposta. Ne poniamo una: chi ha scritto il libretto delle istruzioni?
Soprattutto, chi lo ha commissionato, perché, qual è la ratio sottostante? Il beniamino della tecnica non è solo l’uomo senza qualità alla Musil, ma il Peter Pan che rifiuta di diventare adulto, un giocherellone a vita, connesso, sempre sorpreso dalle novità della moda, affascinato come a cinque anni di età dalla nuova macchinina. La tecnica prevede miliardi di operatori intercambiabili, capaci di digitare pulsanti e padroneggiare una tastiera, migranti del virtuale in cerca di accesso ai database, una plebe afflitta dal desiderio compulsivo, che si accontenta delle FAQ (Frequently Asked Questions, le domande più frequenti a cui sono predisposte in rete risposte omnibus). Un’umanità che confonde la mappa con il territorio e che non squarcia mai il velo di Maya. Ciò che conta è che la tecnica esista, ci sia, e poiché c’è, è buona e giusta, reale e razionale, scimmia di Hegel.
L’impersonalità della tecnica è passiva, il contrario esatto di quella impersonalità attiva prescritta da Evola che è la fortezza morale del ribelle e dell’uomo differenziato, colui che non agisce in vista di scopi pratici e non persegue il successo pubblico. Tocqueville intuì il “potere immenso e tutelare” di un mondo ridotto a procedure, meccanismi e false libertà, impegnato a mantenere i sudditi nello stadio dell’immaturità permanente, affinché restino nella dimensione del gioco infantile (puer ludens, non homo ludens!) e “non pensino che a divertirsi”. Attraverso la tecnica, il Signore tecnocapitalista ha portato a compimento il suo capolavoro, realizzando l’uomo senza dissenso, senza interiorità, senza profondità, senza Dio, senza padri e senza valori che non siano descrivibili in algoritmi, compressi in software tutti uguali, con etichetta del prezzo in denaro, gradita la carta di credito.
Antonio Gramsci, un pensatore che i padroni del mondo hanno studiato assai bene, parlò della riduzione degli uomini a gorilla ammaestrati (Quaderni dal carcere VII), che hanno accettato ed introiettato le regole tecniche come uniche e vincolanti, anzi come sola libertà possibile. L’esito ovvio è “libertà è schiavitù”, nella neolingua di Orwell. Per questo, rimaniamo stupefatti dallo sguardo benevolo di Severino nei confronti della tecnica, sino all’offerta implicita di un’alleanza in cui la filosofia dovrebbe fornire l’impianto teorico di sostegno. La tecnica, cioè il Signore, non ne ha affatto bisogno, e comunque è solo un’illusione da logomachia accademica pensare di battere il capitalismo per sussunzione da parte di Techne. E’ vero il contrario, tanto che possiamo affermare che la Tecnica è il sistema operativo del Capitalismo globalitario. Oggi e sicuramente domani. Dopodomani, chissà, la macchina potrebbe essere provvista, dall’uomo che l’ha creata, degli strumenti per fare da sola.
Ma sarebbe un giorno ancora peggiore di quelli che stiamo vivendo, con buona pace dei filosofi che prendono abbagli nel corso dei loro estenuanti giochi linguistici. Il nomos della tecnica, annunciato dal tramonto della politica, non ha bisogno di improbabili previsori: la nottola di Minerva, lo ha insegnato Hegel, inizia il suo volo sul far della sera. La filosofia, come ogni conoscenza umana, comprende una condizione storico esistenziale solo dopo che si è prodotta. Non ha facoltà predittive o precognitive. Può solo immaginare: umano, troppo umano, transumano: la fine, probabilmente meritata, della nostra specie.
Autore: Roberto Pecchioli
Fonte: Ereticamente

08/06/17

La vita semplice di René Guénon nel ricordo di Najm Oud-din Bammate


(...) L’impressione che ho ricavato da tutti questi nostri dibattiti è che Guénon si sarebbe sentito molto imbarazzato, credo, per tutta questa attenzione rivolta alla sua vita e ai suoi incontri. Non dico che si sarebbe arrabbiato – non era nel suo stile - ma avrebbe avuto una sensazione di disagio, come davanti a una situazione strana, sconcertante. Malgrado tutto dirò qualcosa sull’uomo che era Guénon, per come ho avuto la fortuna di conoscerlo, per due motivi. Il primo, perché ci sono molti lettori che si lasciano non dico scoraggiare, ma sì impressionare da un certo tono che sembra loro dottrinale, dogmatico, e perciò si fanno un’idea totalmente sbagliata dell’uomo. L’altra ragione, forse diametralmente opposta, è che si è venuto a creare uno spirito di cappella guénoniano, una specie di devozione, di idolatria della persona presso alcuni che lo presentano come una sorta di messia, di verità incarnata; come la voce dell’intellettualità pura, e non vogliono sentire ragioni. In questo caso  la disapprovazione di Guénon sarebbe stata ancora maggiore. Non si considerava affatto un maestro spirituale – nel senso di un guru - e non voleva esserlo. Riteneva che il suo status tradizionale fosse tutt’altro e aveva un atteggiamento quasi divertito nei confronti di coloro che lo trattavano come un intellettuale puro. Vedo ancora il suo sorriso il giorno che avendo ricevuto un testo, per altro molto bello, sui nomi divini nell’Islam e in Dionigi l’Aeropagita, inviatogli da un mio amico, commentava: “E’ troppo intellettuale per me!”.
A volte aveva una maniera molto confidenziale, diretta e quasi ironica di parlare della quale nulla traspariva nei suoi scritti. Altra sua caratteristica era quella di attribuire una grande importanza all’adempimento dei riti exoterici. Un giorno cercherò di  spiegare quale sia il posto che occupa l’Islam nell’opera di Guénon, ma è certo che l’importanza che gli attribuiva, forse anche la sua stessa “conversione”, dipendevano dal fatto che lo considerasse  la via per il compimento dei tempi, dell’ultima fase del Kali-yuga, nel quale riteneva si imponesse l’osservanza delle forme exoteriche, mentre invece considerava inutile la distinzione tra esoterismo ed exoterismo all’interno di una Tradizione. Nella pratica e nella condotta rituale della sua vita quotidiana (poiché non poteva concepire una vita quotidiana che non fosse rituale), era mussulmano, perché l’Islam era la forma dell’ultima ricapitolazione. Diceva sempre che il legalismo mussulmano così come si esprime nel suo exoterismo, è di per se solo insufficiente, ma metteva anche in guardia dalle tentazioni del misticismo, i deliqui degli stati d’animo e le effusioni della soggettività. L’adempimento di una vita rituale era una disciplina tradizionale. Da parte sua, Guénon osservava i riti: le cinque preghiere mussulmane, le invocazioni, i digiuni; e l’immagine che dava di se stesso nel quartiere periferico del Cairo dove abitava quando l’ho incontrato (a questo proposito, Chacornac colloca le mie visite nel 1944-45, mentre invece i miei incontri con Guénon sono posteriori di qualche anno avendo avuto inizio nel 1947), era quella di un uomo di grande semplicità, che non si atteggiava né a maestro spirituale, né a interprete ufficiale di una religione o di una dottrina. C’era nella sua esistenza come una dicotomia che corrispondeva precisamente alla rifrazione della via tradizionale secondo l’Islam in exoterismo ed esoterismo… Da una parte si trattava per lui, “di dire ciò che è” e a questo riguardo era inflessibile: per suo tramite parlava la Verità impersonale in tutto il suo rigore. Dall’altra, nella condotta della sua esistenza, prima di ogni rituale, scandito dall’adempimento degli obblighi exoterici del dogma mussulmano, stava l’uomo pieno di pudore metafisico che vedeva nei suoi nemici, anche nei più accaniti, una scintilla che lo spingeva a comprendere e a perdonare. Quel Guénon, i suoi scritti non lo mostravano, appartenendo a un altro ambito, quello dell’assoluto; si è invece creata una specie di idolatria che lo vuole totalmente intellettuale, metafisico e astratto. Egli è essenzialmente nel voto pronunciato, in questa shahâdah interiore che ha realizzato, in questa invocazione ad Allah che ha ripetuto tutti i giorni della sua vita, probabilmente dal 1912, di sicuro dal 1930, che è anche l’ultima parola pronunciata nell’istante della morte. 
Permettetemi, a tale proposito, di leggere alcune righe che avevo scritto a richiesta di Jean Paulhan, sulle mie ultime visite a Guénon:
“Non si tratta, ripeteva Guénon, di essere persuasivo, ancor meno soggiogante, ma semplicemente di “dire ciò che è” senza immischiarvi la propria volontà, le proprie conoscenze, la propria abilità; senza l’intrusione di elementi estranei. Si pensi alla lettura recto tono o alla tradizione buddista che raccomanda ai maestri spirituali di impartire i propri insegnamenti con voce neutra, senza sbalzi di tono; il timbro deve essere uguale fino alla monotonia. Se qualche inflessione venisse a interrompere la piattezza della loquela, l’attenzione del discepolo rischierebbe di esserne sollecitata. Ma il maestro deve vigilare di non proiettare se stesso davanti alle sue parole. Allora, per maggior sicurezza, alcuni avranno cura di parlare nascondendo il viso dietro un ventaglio, in quanto l’adesione è dovuta solo alla verità, mai ai falsi prestigi dell’eloquenza né alle sembianze di una personalità. René Guénon parlava dietro un ventaglio.
Certo, Guénon non ha mai preteso di essere un direttore spirituale e ancor meno un santo. Ma non ho mai avuto l’impressione che avesse cancellato dal suo viso l’espressione del sacro. L’uomo nella sua discrezione era in realtà al di qua o al di là dell’individuale, e questo fin nel dettaglio più banale della vita quotidiana. Ogni residuo psichico o mentale sembrava abolito, restava solo un’anima di una totale trasparenza. Ma niente ascesi, niente estasi; quella purezza era senza fronzoli, spontanea, quasi terra terra. In tutta semplicità, René Guénon era diafano. La sua conversazione era spesso banale, senza effetti di stile. Di fatto, non parlava quasi mai di metafisica. “Dire ciò che è”. I soli ornamenti erano le citazioni alla maniera orientale, di proverbi edificanti o di espressioni religiose, come: “Tutto perirà tranne il volto di Dio”. Per René Guénon, ciò che è, è il volto di Dio. Dire ciò che è, significa descrivere i riflessi di quel Volto nei Veda o nel Tao Te Ching, nella Kabbala o nell’esoterismo mussulmano, nelle mitologie o nei simboli dell’arte cristiana medievale. L’uomo spariva dietro la dottrina tradizionale.
Quando Guénon prendeva in mano la penna, adempiva alla sua funzione; era allora un porta-parola della Tradizione e si mostrava di un rigore assoluto e puntiglioso. Una volta terminata la pagina, la sua grande occupazione  consisteva nel giocare con i bambini e nell’accarezzare i gatti che si accovacciavano vicino alla sua poltrona. La prima impressione che dava nel suo piccolo salotto borghese del Cairo, malgrado la sua veste araba per altro molto semplice, era quella di un professore di Facoltà, filosofo od orientalista. Impressione sconcertante poiché non stimava né gli uni né gli altri. Sul viso allungato, alla spagnola, gli occhi apparivano fuori posto, come se fossero stati aggiunti. Troppo grandi, sembravano di provenienza estranea, venuti da un altro mondo, e giustamente cercavano altrove, come gli occhi di alcuni cavalieri che ne “La Sepoltura del conte di Orgaz” di El Greco, non stanno vicino al feretro ma nella parte superiore del quadro, con gli angeli e il Cristo.
Occorre rimarcare soprattutto la capacità di ascolto di Guénon. Ascoltava il silenzio  con molta maggior attenzione di qualunque altra cosa. Quest’uomo che i suoi lettori consideravano perentorio, aveva l’atteggiamento naturale di colui che interroga. Molti lo seguivano perché offriva loro ragioni per ribellarsi. Ma la critica non era lo scopo ultimo di Guénon; era solo per rispettare la Tradizione e per esporla con chiarezza che gli accadeva accidentalmente di aggredire alcune idee per loro stessa natura effimere.  Il distruttore di idoli era in realtà un uomo rispettoso; il ferro e il granito esplodevano sulla mina del più discreto dei dinamitardi. Il tono che manteneva durante una conversazione, per costatare i danni causati dall’occultismo o i progressi dello scientismo, non era né di rivolta né di indignazione. Non fulminava, ma in tutto il suo atteggiamento c’era come l’imbarazzo di qualcuno che abbia appena assistito a uno spettacolo sconveniente. Mi ricordo la sua espressione il giorno in cui i gatti strapparono un fascio di manoscritti; o il giorno in cui Chacornac era in ritardo per la pubblicazione di un testo. Era esattamente lo stesso stupore amareggiato.
Rispetto, discrezione; quella sua maniera di apparire confuso era una forma di pudore, qualità frequente in Oriente che René Guénon portava al più alto livello fino a farne una sorta di cortesia metafisica. Niente lo esprimeva meglio delle benedizioni che con semplicità disseminava nelle sue conversazioni, con la stessa semplicità che, anche a tavola, dava un valore rituale alla divisione del pane, al gesto per salarlo, all’offerta che vi faceva nel tendervi un piccione grigliato.
Questo l’episodio che sarebbe stato per me l’ultima sua immagine: in piedi, nel giardino, accanto alla moglie, lo sceicco Abd el-Wahid (era il nome arabo di René Guénon) le fa ripetere, dopo averla detta egli stesso, la formula di benedizione e di augurio per il ritorno dell’ospite. Sono ritornato, ma per i funerali. Ed era la stessa semplicità: un cimitero popolare, qualche familiare, e le due piccole figliole che si rincorrono.

(Traduzione dal francese a cura del Corriere metapolitico. Fonte: “René Guénon et l’actualité del pensée traditionelle”, Edition du Baucens, 1977, pp. 45-47)