25/02/10

Intervista a Carlo Gambescia

Caro Gambescia, innanzitutto grazie per aver accettato l'intervista. Sappiamo che lei di solito non ne concede facilmente e che per noi ha voluto fare un'eccezione. Può spiegarcene la ragione?

Perché caro La Fata la stimo anch’io. Il suo sito è ben fatto e documentato. E merita attenzione. Vede lei, pur avendo una posizione sulla metapolitica diversa dalla mia, si pone sempre in posizione di ascolto e mai di chiusura pregiudiziale. Lei dialoga, altri invece al massimo denigrano. Magari alle spalle. Perciò il piacere è tutto mio.

La ringrazio di nuovo…

Le dirò di più: ho scoperto, e non proprio di recente, che certi presunti intellettuali di destra, quelli che si lavano la bocca due o tre volte al dì, con il termine metapolitica, non conoscono il suo sito… E la cosa, per un verso è un titolo “nobiltà”, suo e mio; per l’altro fa capire che razza di ignoranti “circolino” a destra… E non in senso stradale.

Prima di entrare nel merito del Suo ultimo libro “Metapolitica-L'altro sguardo sul potere” (Edizioni Il Foglio, ottobre 2009), ci premeva chiederle di Giuseppe Palomba. Lei sa che Palomba era intimo amico di Silvano Panunzio e che sul finire degli anni Settanta accettò di collaborare e di scrivere per la nostra rivista “Metapolitica”. Ora si dà il caso che a più di vent'anni dalla sua morte, occorsa nel 1986, di questo studioso eclettico e profondo, non parli più nessuno. Persino sul Web dove solitamente si trova tutto di tutti, si dura fatica a trovarne una qualche notizia. Lei, che a noi risulti, è stato il solo a dedicargli un profilo sul Suo blog (http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com). Come si spiega a Suo giudizio questa damnatio memoriae?

Mi permetta di aggiungere che ho anche riproposto una sua “microstoria” del pensiero politico italiano, uscita per i tipi di Settimo Sigillo. Comunque sia, grazie della “citazione”. Anche perché ignoravo il corposo pendant metapolitico-panunziano di Giuseppe Palomba. Perciò mi complimento “a posteriori” con lei e la rivista, per avere avuto questo insigne e originale pensatore tra i collaboratori.

Si figuri… Ma per tornare al Palomba studioso?

Un grande incompreso. Perfino dagli stessi economisti eterodossi, o presunti tali. Geminello Alvi, una volta, quando ci si frequentava, lo liquidò definendolo un confusionario… Anche se, come poi scoprii, Alvi si esprimeva così perché lo aveva letto superficialmente. Ecco, di regola, gli economisti non leggevano Palomba perché lo ritenevano troppo filosofo, mentre i non economisti, lo leggevano ma non lo capivano, perché lo giudicavano troppo difficile, fermandosi al Palomba paretiano-amorosiano innamorato delle scienze matematiche… Una vera tragedia.

Che importanza ha avuto nella sua formazione l'opera di Palomba?

Io sono arrivato a Palomba indirettamente. Attraverso il tagliente Vilfredo Pareto e il sulfureo Enrico Leone. Alla Biblioteca della Fondazione Sturzo, alla fine degli anni Ottanta, mentre lavoravo su di loro, scoprii un suo studio edito nel 1934 (L’eterogeneità sociale e l’economia corporativa” - “Rivista di Politica Economica”), dove Palomba analizzava Pareto, Leone e la circolazione delle élite all’interno della società corporativa. Rimasi fulminato dalla sua sapiente capacità di applicare la riflessione sociologica all’economia.

Amore a prima vista.

Sì. Diciamo che Palomba è andato oltre Pareto e Amoroso coniugando sociologia, economia (anche matematica) alla filosofia della storia. E qui viene il bello: perché il pensiero filosofico-storico di Palomba passa per varie fasi, e in questo senso è molto ricco e tutto ancora da scoprire: spengleriana (anni Quaranta), guénoniana (anni Cinquanta) e infine agostiniana (anni Sessanta ). Mentre nell’ultima fase, si ha una fusione armonica delle tre fasi precedenti.

Interessante.

Mi piace ricordare - perché spiega l’ispirazione dialogica del suo pensiero - una dedica di suo pugno su un estratto intitolato Dialoghi fra un cattolico e un marxista, anno di grazia 1978, inviato all’Istituto Gramsci, dove ora è consultabile: “Umile omaggio di un timido tentativo. Giuseppe Palomba”. Ecco chi era il Nostro: un intellettuale che si sforzava di parlare con tutti: dai comunisti - come nel caso della dedica - ai guénoniani e al composito mondo del tradizionalismo. Ecco quel che mi ha insegnato.

Veniamo ora al suo libro: Metapolitica-L'altro sguardo sul potere. Come sa la parola “metapolitica” ci sta molto a cuore e confessiamo che il vederla apparire sul frontespizio di un libro, pur se da posizioni diverse, ci fa un certo effetto. A quando risale la sua scoperta di questa parola?

L’ho scoperta quando ho scoperto la Nuova Destra di Marco Tarchi. Diciamo, nella seconda metà degli anni Ottanta. E in certo senso l’ho subito interpretata come una “metasociologia”. Ma su queste cose, se mi passa la “botta” di narcisismo, la invito a leggere il mio nuovo lavoro, scritto a quattro mani con l’amico Nicola Vacca, giornalista e scrittore, A destra per caso (Edizioni Il Foglio), a giorni in libreria, dove parlo anche di queste cose…

Sarà mio piacere leggerlo. Lei, infatti, osserva nel suo libro che la parola “metapolitica” è stata recepita dalla Nuova Destra ma che in quell'ambiente nessuno fino ad oggi si è peritato di farne l'oggetto di uno studio specifico. Quale può esserne la ragione a Suo avviso?

A volte, in certi ambienti culturali, si danno per scontate alcune cose che scontate non sono… Ed evidentemente la “metapolitica” era ed è tra queste. E poi guardi - ma non parlo di Tarchi che è uno studioso eccellente - per molti presunti intellettuali, contrariamente a quel che si crede, studiare è fatica…

Cosa pensa esattamente della Nuova Destra? Personalmente pensa di avere un qualche debito di riconoscenza nei confronti di questa corrente politico-culturale?

Solo il fatto di aver “scoperto” la metapolitica, anche solo come termine, mi sembra un lascito importante e degno di riconoscenza. Sul resto mi permetta di rinviarla a Destra per caso. Però, ripeto, il vero problema resta quello di capire perché un libro sulla metapolitica, l’ho scritto io, a destra per caso, e non chi oggi sia a destra oppure lo sia stato in passato, e non per caso. E che magari ora spera che intorno al mio libro scenda al più presto il silenzio. E me ne accorgo da certe recensioni che tardano ad arrivare. Probabilmente Metapolitica mette certa gente a confronto con la propria cattiva coscienza…

Polemico.

No comment. Anche perché rischierei di dire cose sgradevoli…

Però la sua prossimità alla destra culturale ci sembra un fatto assodato. Ma è anche un fatto assodato che lei è un indipendente, un intellettuale politicamente libero e non schierato. Non le chiederemo perciò per chi vota o per chi voterebbe (anche se lei nel suo blog http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/ una esplicita dichiarazione di voto l'ha fatta di recente e per di più per una formazione politica che certamente non sta a destra), ma piuttosto se si sente, culturalmente parlando, più vicino alle posizioni di un Evola o a quelle di un Don Luigi Sturzo o di un Jacques Maritain. E' una domanda che le facciamo soprattutto a profitto dei nostri lettori e per sentirle dire qualcosa su queste tre grandi figure di intellettuali delle quali, stranamente, non c'è traccia nel suo libro.

Diciamo “prossimità per caso”…
E’ vero dei pensatori da lei ricordati, non ne ho parlato in modo manifesto. Però li ho letti, magari in modo diseguale. Come dire, in ordine discendente: Sturzo, Maritain, Evola. I tre si somigliano - e mi scusi il sociologhese - per l’approccio culturalista: l’uomo, come spesso mi piace ripetere, non è ciò che mangia ma ciò in cui crede. E Sturzo, Maritain, Evola, sarebbero d’accordo. Ovviamente le loro prospettive erano e sono diverse. Quel che non accetto di Evola è il rifiuto della modernità. Che invece in Maritain, pur con accenti diversi soprattutto negli anni Trenta, non è mai stata rifiutata fino all’estremo. Mi riconosco invece in Sturzo, più realista in politica di Maritain, non per niente fondò il Partito Popolare, e meno tradizionalista di Evola. Sturzo, che era sociologo - non dimentichiamolo mai - coniugava realismo sociale e fede cristiana.

In che modo?

Se mi passa la metafora, Sturzo non credeva che in questo mondo si potessero raddrizzare i gobbi: creare l’uomo nuovo. Nell’altro invece sì. Di qui però il suo impegno politico-cristiano per far vivere meglio l’uomo hic et nunc. Ma senza esagerare. Infatti parlava di una “sociologia del soprannaturale” che si manifestava in uomini e cose, attraverso i piccoli gesti del lavoro e dell’aiuto quotidiano nei riguardi delle persone sofferenti. La famosa idea della politica come “servizio”, poi diventata in altre mani furbo luogo comune politichese.
Mentre Maritain, a sua volta, brancolerà tra la speranza messianica di costruire una macchina per raddrizzare i gobbi e la compassione pura e semplice delle dame di carità. Evola infine, dall’alto del suo tappeto volante trans-storico, neppure degnerà di uno sguardo quel “gobbo” dell’uomo moderno…

A questo punto ci perdoni l'impertinenza, ma vogliamo approfittare fino in fondo della sua squisita disponibilità e chiederle se ha mai subito in passato il fascino del nazionalsocialismo tedesco o del fascismo italiano e se ritiene che in queste due forme del politico ci sia stato qualcosa di buono o di valido.

No, mai. Provengo - e direi mantengo - da posizione liberali e cattoliche con forti inflessioni sociali. Posso però dirle, da sociologo, che fascismo e nazionalsocialismo sono due forme di risposta politica ai giganteschi problemi economici prodotti dalla società industriale. Direi che nei due casi siamo davanti a una risposta iper-politica: nel senso della pretesa, poi fallita, di trasformare la società civile in una specie di enorme caserma (politica) collettiva. Il che però non significa che l’approccio iper-economico di certo capitalismo selvaggio non sia ugualmente esecrabile. Come del resto quello del comunismo.

Nel suo libro lei parla diffusamente di Edward Shils e Reinhold Niebuhr.. Vuole spiegarci brevemente in che senso questi due autori abbiano a che fare con la sua visione della metapolitica?

Come lei sa, la mia metapolitica ruota intorno all’individuazione di una serie di costanti sociali e politiche che si ripetono nel divenire storico e sociale, dal conflitto amico-nemico, alla dicotomia governanti-governati, eccetera. Nel mio libro ne individuo undici. Ora, Shils è probabilmente l’unico sociologo che ha affrontato in termini scientifici lo studio della tradizione, come costante sociologico-politica e dunque metapolitica. Shils distingue fra la “tradizionalità” come un “centro” che obiettivamente garantisce la continuità sociale e i molteplici contenuti delle diverse tradizioni, che vanno a “colmarlo”. Contenuti, di vario tipo, sui quali invece di solito si appuntano gli strali valoriali delle critiche ideologiche “tradizionaliste” e “antitradizionaliste”. Critiche che, spesso per partito preso, finiscono per gettare via il bambino, la “tradizionalità con l’acqua sporca, del “tradizionalismo” o dell’“antitradizionalismo”, secondo le rispettive preferenze nei riguardi dei contenuti che dovrebbe andare o meno a innervare il “centro”.
Reinhold Niebuhr, per tornare al discorso dei gobbi, ci spiega invece che un uomo con la gobba in una società con la gobba non si accorgerà mai di essere gobbo. Di qui la necessità, per uscire di metafora, di essere realisti. Ovvero di osservare sempre le questioni sociali dall’esterno: non da gobbi, insomma - e a dirlo è un teologo. Applicando però le reali costanti sociologico-politiche che caratterizzano la metapolitica, così come viene tratteggiata nel mio libro.

Lei ha dedicato a P.A. Sorokin un libro, vuole spiegarci l'attualità di questo studioso?

Mi piace definire Sorokin, magari rischiando di semplificare, una specie di Spengler della sociologia. Parliamo di un sociologo russo, nato nel 1889, dalla cultura enciclopedica, che a seguito della Rivoluzione d’Ottobre da lui, socialrivoluzionario, vissuta penosamente, è costretto prima a prendere la via dell’esilio a Praga, per poi trasferirsi nel 1923 negli Stati Uniti. Qui sprovincializza intellettualmente la sociologia americana, aprendola agli apporti europei. E viene così chiamato a Harvard (1930) per fondare un Dipartimento di Sociologia. E qui scrive The Social and Cultural Dynamics, la sua grande opera (1937-1941), 4 volumi, migliaia di pagine. Dove - per semplificare - dà consistenza statistica e sociologica alle tesi di Spengler sulla natura ciclica delle civiltà, pur interpretandole in chiave meno rigida e culturalmente più ampia. Questa sua critica all’illuminismo materialistico dell’Occidente, americano in particolare, da lui definito “sensismo”, ne causa la progressiva marginalizzazione accademica. La sua “metapolitica”, realista e visionaria al tempo stesso, non piace agli americani. Dagli anni Quaranta fino alla morte, avvenuta nel 1968, Sorokin vive nell’ isolamento intellettuale. Gli Stati Uniti, dopo averlo accolto, lo respingono come un corpo estraneo… Se ci pensa bene è la stessa sorte toccata a un altro grande esiliato russo in America: Aleksandr Solgenitsin.
Nel mio libro, uso la sua preziosa sociologia, per individuare un’altra fondamentale costante metapolitica: quella legata all’incessante dinamica sociale e culturale dell’ordine e del disordine.

Tra gli stili e i modelli teorici del Novecento a quale in particolare si sente più vicino?

Mah… Credo che la tradizione liberale, certo non quella economicista e utilitarista che trasforma uomini e donne in merci, sia un bene da preservare, soprattutto come strumento capace di tutelare il rispetto delle minoranze e di chiunque la pensi “diversamente”. Ma è del pari importante il solidarismo, in particolare nella sua versione cattolica, alla cui origine come ha insegnato Del Noce, c’è l’idea platonico-agostinana dell’uomo come imago dei.

E più in concreto?

Giusto. Come lei ben dice, siamo davanti a “stili di pensiero”: idee. Che vanno poi conciliate con il vincolo di realtà che ci accomuna tutti. Di qui il mio apprezzamento per il realismo politico, e prima ancora sociologico. Che non sempre riesce a convivere bene, anzi spesso collide, con il mio cattolicesimo liberale e sociale.
Non è un bel vivere interiore e professionale… E i miei lettori più fedeli sicuramente se ne sono accorti. Il mio non è assolutamente un pensiero unitario. Ecco, magari, racchiude una tensione verso l’unità. Ma una tensione non è ancora l’unità…

Cosa pensa del Tradizionalismo?

Sarò “sociologicamente” onesto, anche a rischio di apparire antipatico o supponente. Il “tradizionalismo”, nelle sue varie osservanze (anche non cristiane), è un fenomeno sociale che dovrebbe avere natura transitoria (per quanto a lungo possa storicamente durare). Perché intorno ad esso si raccolgono le idee e le pratiche di un gruppo sociale, che va a collocarsi negli interstizi del presente, diciamo storico: in una situazione, come dire, di passaggio o di transizione, tra il passato e il futuro.
In realtà però i “tradizionalisti”, in carne e ossa, finiscono per accettare passivamente questa condizione “transitoria” e vivono perciò come sospesi tra passato e futuro. Probabilmente perché spesso, troppo innamorati di se stessi, diventano incapaci di scegliere tra le due possibilità “direzionali”, di fatto che hanno loro davanti: o regredire trasformandosi in “setta” (che poi spesso è quel che avviene), o progredire, crescendo fino a diventare un “movimento sociale”. E, dunque, trasformarsi - ma non è sempre detto - in un soggetto capace di influire sul mutamento delle istituzioni esistenti.

E della nostra metapolitica e di Silvano Panunzio, lei che idea si è fatta?

Innanzitutto, devo dire che nutro grande rispetto per l’edificazione di quella che definirei una maestosa ricerca del fondamento metapolitico. Ecco sarebbe bello, oltre che necessario - e lo dico con tutta l’umiltà che si deve a un filosofo del valore di Silvano Panunzio - individuare il trait d’union tra la mia visione “sociologizzante”, che comunque non esclude un “piano superiore”, e la visione panunziana. Se mi passa la caduta di stile, sarebbe il top riunire insieme le fondamenta (sociologiche) - e qui penso al mio discorso sulle costanti - e il fondamento (metafisico). Ma, purtroppo, credo non sia una meta perseguibile, almeno in questo mondo, così imperfetto…

Vuol dirci infine cosa pensa della Dottrina Sociale della Chiesa? Che rilevanza ha quest'ultima, ammesso che ne abbia, dal punto di vista della sua metapolitica?

Buona domanda. Il pensiero sociale della Chiesa Cattolica si muove e si è mosso nell’ambito di una visione morale e non politica della nuova questione sociale. Di qui nascono i suoi meriti e i suoi limiti.
I meriti consistono nel porre il problema economico solo nei termini di una riforma religiosa e morale della persona e della società. La Chiesa Cattolica parla alle coscienze. E auspica che l’uomo attuale, invischiato in un sistema economico che poco si occupa di coscienze, riesca da autoriformarsi spiritualmente, percependo di essere sulla strada sbagliata.

E i limiti?

I limiti, curiosamente, consistono proprio in questo affrontare il problema economico da un punto di vista così elevato. Infatti, a causa della distanza tra la realtà e l’ideale, nascono le diverse interpretazioni storiche del pensiero sociale cattolico (dal corporativismo al comunismo cristiano). Spesso respinte, e doverosamente, dalla stessa Chiesa, costretta ogni volta a fornire l’interpretazione autentica della sua dottrina sociale. E di qui altre interpretazioni “laiche” di “interpretazioni”, e così via...

Mi scusi se la interrompo, ma non pensa che la battaglia culturale, oggi soprattutto, non possa prescindere da una dichiarazione di fede esplicita e pubblica?

Concordo. Non si può prescindere da una esplicitazione pubblica. Io non ho mai nascosto la mia fede. Che però - attenzione - non uso, soprattutto quando studio, ricerco e scrivo, come un martello… Del resto, per finire il discorso, non sarà mai possibile chiedere esplicitamente alla Chiesa Cattolica di assumere posizioni economicamente dettagliate, o di mettersi direttamente a capo di un movimento di riforma politico-economica del mondo. La Chiesa parla alle coscienze cristiane e, come sa ogni vero cattolico, non è suo compito occuparsi di concreta modellistica economica. La Chiesa parla al mondo senza essere del mondo. Di qui però, come abbiamo già notato, quel sovrapporsi e mescolarsi di interpretazioni “laiche” spesso parziali e ideologicamente eterogenee.
La Chiesa Cattolica resta la Chiesa Cattolica. E non un centro di studi e di ricerche economiche applicate. E la fede, la vera fede, non può essere che quella dei martiri. Ma in quanti siamo in grado di sopportare il martirio?

Nella mia presentazione al suo libro apparsa sulle pagine della rivista “Metapolitica” (n. 3-4/2009) e più di recente su questo blog, mi sono permesso bonariamente di attribuire al suo approccio sociologico, scientifico, a-confessionale e realista in senso aristotelico alla Politica la qualifica di cripto-marxismo o di post-marxismo. Ritiene che questa accusa abbia un qualche fondamento?

Come le ho scritto privatamente, escluderei mie possibili ricadute cripto o postmarxiste. Esiste invece il rischio del relativismo sociologico. Rischio di cui sono ben consapevole. Purtroppo.
Del resto si tratta della mia formazione. Che come ho già detto spesso fa a pugni con la mia fede cristiana.

Un’ultima forse troppo impegnativa domanda. Il sottotitolo del Suo libro è “l’altro sguardo sul Potere”. Ma cos'è il Potere esattamente? E' riuscito a venirne a capo?

Cercherò di fare del mio meglio. Come potere sulle persone - quello che qui interessa trattare - il potere, dal punto di vista formale, è fondato sul nesso comando-obbedienza: A ordina B esegue. Su quello contenutistico, implica invece un criterio di legittimità, nel senso che B ubbidisce ad A per una legittima ragione condivisa da entrambi. E su questo criterio si sono sbizzarriti pensatori, filosofi e teorici politici. Per quel che mi riguarda, credo con Hobbes, che alla base della politica risieda, come radice ultima della legittimità, lo scambio protezione-obbedienza: A protegge B, e B ubbidisce al comando, perché si sente protetto. Ovviamente, il rapporto protezione-obbedienza è vincolato alla presenza di un nemico, spesso esterno. Fatto che implica un ulteriore passaggio teorico.

Quale?

Il passaggio rappresentato dalla dicotomia amico-nemico. Diciamo che l’agire politico concreto, e dunque tutte le articolazioni del potere, ruotano intorno allo scambio protezione-obbedienza e alla dicotomia amico-nemico: si ubbidisce perché il potere ci protegge dal nemico interno ed esterno.
Quanto fin qui detto sul potere, implica però una controindicazione…

Di che genere?

Per dirla, con uno scrittore che vorrei studiare più a fondo, Leonardo Sciascia, su tali basi la “sicurezza del potere” finisce “per fondarsi sull’insicurezza dei cittadini”.

Si resta a bocca amara.

Del resto, parafrasando l’espressione coniata da Thomas Carlyle per l’economia, la metapolitica, almeno per me, è una scienza triste. Perché si confronta con l’uomo come è e non come dovrebbe essere. Dispiace riconoscerlo, ma è così.

23/02/10

Nicola Cusano: Dio come non altro


Davide Monaco è un giovane studioso italiano che da più di qualche anno si occupa del pensiero e dell'opera di Nicola Cusano (1401-1464). Ora il frutto delle sue ricerche appare in un importante e voluminoso libro dal titolo “Deus Trinitas: Dio come non altro nel pensiero di Nicola Cusano” (Città Nuova, pagine 392, euro 32,00) con la prefazione del maggior studioso vivente della tradizione neoplatonica, Werner Beierwaltes. In questo libro sono finalmente scoperte quasi o tutte le fonti di Cusano: da Platone a Proclo, da Agostino d'Ippona a Dionigi Areopagita, da Giovanni Scoto Eriugena a Maestro Eckhart. Si scopre così che alla base della concezione cusaniana dell'Uno o Dio trinitario come non altro stanno la speculazione platonica sull'Uno e la teologia dionisiana dei nomi divini. Il non altro è non altro che non altro. E' solo attraverso una doppia negazione inserita in un dinamismo trinitario che diventa possibile avvicinarsi al concetto di Dio penetrandone l'oscurità. Certo lasciandosi dietro le spalle la sovente contraddittoria logica razionale. Il primato qui spetta alla visione intuitiva.

22/02/10

Battiato. Io chi sono?


Battiato. Io chi sono?
Mondadori, 2009

Le parole di Franco Battiato, nelle sue canzoni come in questo libro, hanno il raro pregio di trasportare la mente lontano dai luoghi ordinari, trascinarla in voli imprevedibili e ascese velocissime attraverso mondi esotici ed esoterici. "Battiato - Io chi sono?" è un distillato del suo pensiero, un'immersione nell'universo filosofico e spirituale che fa da matrice alle sue canzoni (e ogni volta scoprire l'origine di un verso amato è una vertigine, una piccola illuminazione). Pagina dopo pagina, si incontrano storie e geografie straordinarie, lama tibetani e maestri sufi, passi dei Veda e del Mahabharata, insegnamenti del buddismo e della teosofia. Si discute di musica e di meditazione, di morte e di rinascita, di estasi mistiche e viaggi psichedelici, dei modi per resistere alla "cloaca" del mondo contemporaneo. Daniele Bossari, appassionato come un fan e competente come un esperto, interroga Battiato nello stesso modo in cui un allievo farebbe col suo guru, spinto da quel proverbio giapponese per cui "chiedere è vergogna di un momento, non chiedere è vergogna di una vita".

(dal risvolto di copertina)

20/02/10

Guru. Il fondamento della civiltà dell'India


La figura del maestro, del guru, è assolutamente centrale nelle religioni dell'India. In mancanza di istituzioni come la Chiesa in Occidente, il guru è da sempre la guida autorevole, il punto di riferimento di ogni "tradizione" (sampradāya). Ogni indirizzo si riconosce nel magistero d'una successione ininterrotta di maestri, a partire dal fondatore. La verità riluce in una persona: la "rivelazione" (śruti) s'attualizza in un incontro, s'incarna in una relazione con chi si crede abbia sconfitto il male e la morte. Oggi come ieri, per i discepoli il guru è "Dio che parla e che cammina" (bolte calte dev), un'irruzione del divino sulla terra (avatāra). Nulla è più santo del maestro, giacché il guru è colui - o colei, la gurvi - che rivela il Brahman, l'Assoluto, e conduce al fine sommo della liberazione (mokṣa). Attraverso un rigoroso esame delle fonti e della letteratura specialistica, il libro offre un prezioso sguardo d'insieme sui molteplici aspetti in cui si declina la figura del maestro, sino a ricostruirne ruolo e funzioni in età moderna e contemporanea, con particolare attenzione all'incontro dell'India con il mondo occidentale. Arricchisce il volume la prima traduzione italiana della Guru-gītā, celebre inno laudativo sanscrito.

(Carocci, 2010, euro 31,50)

Indice

Nota sulla traslitterazione e pronuncia del sanscrito
Introduzione
1. L'ācārya e il brahma-cārin
2. Il guru e lo śiṣya
3. Poteri e potere
4. Osservazioni sul guru nell'India moderna e contemporanea
5. Introduzione alla Guru-gītā
6. La Guru-gītā ("Il canto sul Maestro")
Note
Bibliografia
Indice dei nomi.

l'Autore

Antonio Rigopoulos (Ph.D. University of California, Santa Barbara) è professore associato di Lingua e letteratura sanscrita e Religioni e filosofie dell'India presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere dell'Università Ca' Foscari di Venezia. Fra le sue pubblicazioni: Dattātreya: The Immortal Guru, Yogin, and Avatāra (Albany, ny 1998); Dattalaharī. L'onda di Datta (Venezia 1999); Hindūismo (Brescia 2005); The Mahānubhāvs (Firenze 2005). Ha curato il volume Guru. The Spiritual Master in Eastern and Western Traditions: Authority and Charisma (Venezia 2004).

12/02/10

In memoriam Pio Filippani Ronconi

E' stato uno storico delle religioni, conoscitore di tradizioni mistiche del vicino e dell'estremo oriente e di numerose lingue orientali (fra cui, il sanscrito, l'arabo e molti dialetti dell'India). Nato da famiglia aristocratica (Patrizi Romani e Conti del Sacro Romano Impero), allo scoppio della guerra civile spagnola rimase orfano della madre, fucilata dai repubblicani. Tornato in Italia con la famiglia, si dedicò allo studio universitario delle lingue indoeuropee e di altre lingue quali il turco, l'arabo, l'ebraico e il cinese e per questo fu più tardi impiegato all'EIAR come lettore dei radiogiornali in lingua straniera. Intanto i suoi interessi spirituali lo portarono alla pratica del Tantra e alla conoscenza di Julius Evola e di altri personaggi del Gruppo di Ur.

Allo scoppio della II guerra mondiale si arruolò volontario tra gli Arditi, e combatté in Libia. Venne ferito due volte e ricevette alcune onorificenze. Dopo la caduta di Mussolini e la fondazione della Repubblica Sociale Italiana, si arruolò con il grado di Obersturmführer ("comandante superiore assaltatore", corrispondente al grado di tenente) nella Legione SS Italiana, formazione appartenente alle Waffen SS europee e per il suo impegno nella difesa del fronte a Nettuno ricevette dal comando tedesco la Croce di Ferro.

Dopo la II guerra mondiale, fu impiegato all’ufficio radiodiffusione per l’estero della presidenza del Consiglio. Conobbe in questo periodo Massimo Scaligero attraverso il quale si avvicinò agli scritti di Rudolf Steiner, ma negli anni seguenti elaborò una propria visione dell'antroposofia, depurata dei suoi aspetti cristiani e focalizzata invece sugli antichi paganesimi indoeuropei, anche se in effetti già durante la guerra aveva dichiarato alle autorità militari tedesche di essere pagano (Heiden).

Nel 1959 iniziò la carriera accademica all’Istituto Universitario Orientale di Napoli dove fu assistente di Giuseppe Tucci e più tardi docente egli stesso. Della sua attività di traduzione di testi e saggi sulle tradizioni orientali resta fondamentale il volume sul canone buddhista. Parallelamente alla sua attività accademica, Filippani pone le sue capacità al servizio delle istituzioni italiane lavorando come crittografo presso il Ministero della Difesa e traduttore di lingue orientali.

Verso la fine degli anni novanta fu interrogato dalla magistratura italiana per la strage di piazza Fontana a causa di un suo intervento al convegno dell'Hotel Parco dei Principi dove lesse un suo scritto sulla controrivoluzione che si sospettava fosse stato in qualche modo utilizzato per pianificare una strategia della tensione, ma le indagini ne esclusero qualsiasi forma di coinvolgimento.

Ha anche ricevuto la laurea Honoris Causa in teologia e Scienze dell’Islam all’Università di Teheran e quella in Filosofia della Storia nell’Ateneo di Trieste. Quale docente e storico delle religioni, ha sviluppato ricerche sulle sette gnostiche in India e Tibet e sui movimenti mistici ed eterodossi nell’Islam orientale, specialmente in Persia. Ha indirizzato i propri interessi verso la fenomenologia religiosa, dello Yoga e dello Sciamanesimo, argomenti sui quali ha pubblicato vari scritti. Fra le sue attività, si ricorda la sua partecipazione alla spedizione in Marocco, promossa dalla Fondazione Ludwig Keimer, che portò alla scoperta dell’antica città di Sigilmassa.

Nel 2000 ha collaborato con il Corriere della Sera scrivendo articoli sulle filosofie orientali, ma il rapporto si interruppe quando un lettore denunciò al giornale la militanza di Filippani Ronconi durante la seconda guerra mondiale.

E' ritenuto il massimo orientalista e storico delle religioni del Novecento italiano.


Opere:

* Storia del pensiero cinese. Torino, 1964.
* Ismaeliti ed Assassini. Basilea, 1973.
* Magia, religioni e miti dell'India. Roma, 1981.
* Le vie del buddhismo. Genova, 1988.
* Vak. La parola primordiale. Quattro saggi
sui tantra. Marina di Patti, 1988.
* Il buddhismo, storia e dottrina. Roma, 1994.
* L'induismo. Roma, 1994.
* Ismaeliti ed "Assassini". Storia mistica e
metafisica di una setta che fece tremare il
Medio Oriente, Il Cerchio, Rimini 2004.
* Zarathustra e il mazdeismo. Roma, 2007.

Ha curato anche la traduzione di alcuni testi delle religioni orientali:

* Nasir-i Husraw - Il libro dello scioglimento e
della liberazione. Napoli, 1959.
* Sadi - Il roseto. Torino, 1965.
* Ummu'l-Kitab. Napoli, 1966.
* Upanisad antiche e medie, Torino, 1968.
* Canone buddista: così è stato detto (Itivuttaka).
Milano, 1995.
* Buddha: La via per la saggezza. Dhamma-Pada e discorsi. Roma, 2006, Newton

Carlo Gambescia: "Metapolitica. L’altro sguardo sul potere"

di Aldo La Fata

Il termine metapolitica (tedesco: metapolitik, inglese: metapolitics, francese: metapolitique, spagnolo: metapolítica) è stato coniato in analogia al termine ‘metafisica’ dallo storico e filosofo del diritto August Ludwig von Schlözer (Germania: 1735-1809) per denotare “l’ambito disciplinare che viene ‘prima’ della politica, avente per oggetto i principi generali che condizionano le teorie politiche”(1).

Un significato in parte nuovo del termine si incontra nel pensiero contro-rivoluzionario, segnatamente nell'opera di Joseph de Maistre (1884-1886) Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche (Essai sur le principe générateur des constitutions politiques, pubblicato da Louis de Bonald nel 1814) che così ne scriveva: “penso che questo neologismo chiarisca molto bene il concetto di metafisica della politica e meriti tutta l'attenzione da parte degli osservatori”.

Un'accezione approssimativamente simile di metapolitica la si troverà nel poliedrico filosofo messianista e matematico polacco Josef Maria Hoene-Wroński (1776-1853) per il quale “è necessario fondare il sistema politico statale sui principi dell'assolutismo” (Metapolityka, Parigi, 1839).

Bastino questi riferimenti a far capire come fin dall'inizio il termine venisse recepito in contesti diversi e con significati anche diversi.

La tale cosa si ripeterà nel Novecento con la riapparizione del termine in Italia nelle “lezioni di dottrina dello Stato”(1930) del filosofo e giurista Sergio Panunzio (padre di Silvano) che gli attribuirà il significato di senso trascendente della storia e in alcuni discorsi di Benedetto Croce poi raccolti in un volume dal titolo In qual senso la libertà sia un concetto metapolitico (in Pagine Sparse, II, Bari 1953) e dove metapolitica diventa sinonimo di filosofia liberale.

Ma senza volerci addentrare troppo nella storia della parola e nelle sue peregrinazioni semantiche, qui ci premeva segnalare come questa venga pressoché ignorata, nonostante siano trascorsi ormai più di due secoli dalla sua nascita, non solo dai dizionari linguistici, ma anche da quelli filosofici, storici e politici tra i lemmi dei quali dovrebbe invece legittimamente trovarsi. Le uniche eccezione che noi si conosca sono quelle del Dicionario Enciclopédico Luso-Brasileiro (Lisboa-Rio de Janeiro, vol. 22, 1991) che spiega e racconta la parola associandola al nome di Silvano Panunzio e all'esperienza storica della rivista “Metapolitica” (2) e quella dell'Enciclopedia del pensiero politico (Laterza, Roma-Bari 2000) di Carlo Galli e Roberto Esposito che invece ne prescinde totalmente (3).

C'è da aggiungere poi, tanto per completare il quadro, che a partire dagli anni settanta la parola è stata “presa in ostaggio” dalla Nuova Destra italo-francese che l'ha esibita e sbandierata nella sua pubblicistica e nei suoi libri senza però mai curarsi di farne l'oggetto di una trattazione specifica o di un testo che ne valorizzasse il significato. Questo inspiegabile atteggiamento omertoso ha indotto certi analisti e storici del pensiero politico a ritenere il termine addirittura come un'invenzione di quel particolare ambiente politico-culturale (4).

Ad aggiustare il tiro e a consentire una conoscenza più adeguata della metapolitica e della sua vicenda storica, hanno invece contribuito in primo luogo l'italiano Primo Siena, e in anni più recenti il politologo argentino Alberto Buela e il politologo polacco Jacek Bartyzel .

Fin qui il passato. Ma veniamo all'oggi e parliamo del sociologo italiano Carlo Gambescia che, pur muovendo da una posizione altra rispetto alla nostra, anche lui ha fornito un serio e valido contributo alla valorizzazione della metapolitica.

Gambescia è un ricercatore e uno studioso indipendente, non schierato politicamente ma decisamente su posizioni antieconomiciste e antiutilitariste, quindi nemico acerrimo della cosiddetta società dei consumi. (Già solo per questo egli gode della nostra simpatia).

E' dell'ottobre scorso l'apparizione in libreria del suo ultimo libro Metapolitica. L’altro sguardo sul potere (Il Foglio Letterario Edizioni, Piombino 2009), che qui presentiamo con piacere ai nostri lettori.

Prima di entrare in medias res, diciamo subito a quanti non lo conoscono, che Carlo Gambescia non è quello che si potrebbe definire “il classico sociologo della domenica” (e Dio solo sà quanti ne circolino oggigiorno), ma che la sua competenza in materia è pari, se non anche superiore, a quella di un docente universitario.

Ricordiamo inoltre che Gambescia si era già segnalato alla nostra attenzione per un suo articolo apparso sul web e decisamente elogiativo nei confronti dell'economista e filosofo tradizionalista Giuseppe Palomba (1908-1986) (5). Palomba, come forse chi ci segue ricorderà, fu tra i primi redattori e collaboratori di “Metapolitica”, ed è stato anche autore di un poderoso volume apparso in prima edizione nel 1954 e poi in versione aggiornata nel 1970 nella collana “Sociologi ed Economisti” della UTET, dal titolo Morfologia Economica. Si trattava della versione letteraria di un corso di economia politica diciamo sui generis che Palomba aveva tenuto all'Università di Napoli sul finire degli anni quaranta e che aveva interessato e appassionato persino un tipo ipercritico come René Guénon che nel 1950, sulla rivista Etudes Traditionnelles ebbe a dedicargli una entusiastica recensione.

Nel libro in esame però, non troviamo citato Palomba che, se non interpretiamo male, Gambescia considera uno dei suoi massimi maestri, ma altre importanti e magistrali figure. Primo fra tutti Gianfranco Miglio (1918-2001), ricordato in Italia solo come “ideologo della Lega Nord”, ma giurista e politologo di vaglia, che Gambescia definisce, non sapremmo dire quanto iperbolicamente, “un gigante della scienza politica, capace come solo pochi uomini sanno fare di 'pensare per millenni'”. A seguire, non per ordine d'importanza ma solo per la sequenza con cui vengono citati nel libro, il filosofo cattolico Augusto Del Noce (1910-1989) sulle opere del quale Gambescia ha condotto studi più che approfonditi. E infine, il sociologo russo-americano, già definito “una specie di Oswald Spengler della sociologia”, Pitirim A. Sorokin (1889-1968), la cui opera, a dire del Nostro, costituisce “il primo e insuperato tentativo di costruire una sociologia 'totale', capace di coniugare approcci differenti se non opposti: filosofia della storia, teoria della cultura, metodi statistici, ecc. ecc.”. A Sorokin sono dedicate molte interessanti pagine del libro di Gambescia e in appendice si può trovare anche una “sinossi dello schema sorokiniano” basato sulle “regolarità della politica” nei termini della polarità progresso-decadenza, ridefinita con i termini Arché-Anarché (6).

(Vale forse la pena ricordare che proprio dalle colonne di “Metapolitica” ci si occupò di un Sorokin in buona parte ancora inedito e sconosciuto in Italia. Ne riferiva, in termini decisamente elogiativi, proprio Giuseppe Palomba (Introduzione a Sorokin, Metapolitica, Roma, 31 luglio 1977, Anno II – N. 7-8), mettendolo a confronto con altri due giganti delle scienze sociali: Vilfredo Pareto (1812-1882) e Arnold Toynbee (1852-1883).

All'articolo di Palomba seguiva una nota del Direttore Silvano Panunzio che, pur riconoscendo l'importanza e la grandezza di Sorokin, lo definiva “autore ancora a mezza strada tra le dottrine tradizionali e il pensiero moderno”).

Entriamo ora nel vivo dei contenuti del libro di Gambescia. Dopo un primo capitolo in cui ricorrendo alla ricchezza semantica del greco si risponde alla domanda “che cos'è la metapolitica'?” e dopo un “intermezzo-stroncatura” sul filosofo hegeliano, ex-maoista Alain Badiou (definito “totalitario”, e “monoteista rivoluzionario”) (7), si passa a un secondo denso capitolo intitolato “Dell'azione metapolitica”. Qui si prendono in esame le idee di un autore pressoché sconosciuto in Italia anche se, paradossalmente, vincitore proprio nel nostro Paese -correva l'anno 1983- del Premio Balzan per la Sociologia. Si tratta di Edward Shils (1910-1995). Shils è stato uno dei pochissimi sociologi ad occuparsi di tradizione e lo ha fatto in un corposo lavoro monografico appunto dal titolo Tradition (uscito in prima edizione nel 1981 per Faber & Faber di Londra e ristampato a cura della University Chicago Press di Chicago nel 2006), valutandone con penetrante capacità di analisi tutte le possibili connotazioni religiose, antropologiche, sociali e politiche. Un testo quello di Shils che farebbe venire l'orticaria a qualsiasi tradizionalista, ma in grado, forse, di suscitare qualche salutare ripensamento critico sull'idea stessa di Tradizione come “fondamento” del proprio credo religioso. E' dunque pour cause che Shils, almeno negli anni ottanta, risultava molto apprezzato nelle alte sfere vaticane e negli ambienti ecclesiastici diciamo più liberali.

(A quanti lo ignorano, vorremmo far presente che “Metapolitica” è stata sempre in prima linea nel proporre rivisitazioni critiche dei concetti sovente imbalsamati di tradizione, tradizionalità e tradizionalismo, tanto da guadagnarsi l'incomprensione, e a volte persino l'ostilità, di certi paladini dell'intransigenza religiosa).

Proseguendo nell'analisi del libro, segnaliamo senz'altro l'importanza dei seguenti paragrafi: I cattolici e l'azione metapolitica, I cattolici tra fondamentalismo e relativismo e Il “problema Reinhold Nieburh (8)”. Le pagine che li compongono sono a nostro avviso davvero illuminanti e riteniamo che costituiscano il cuore stesso del libro (soprattutto le pagine 60 e 61). Il tradizionalismo esoterico, il tradizionalismo filoamericano, l'azione politica dei movimenti cattolici di tipo carismatico, l'importanza del volontariato sociale, l'importanza di una strategia politica dei cattolici, sono solo alcuni degli argomenti trattati.

Superate le difficoltà di certe pagine, diciamo stilisticamente poco accattivanti e non facili per i non addetti ai lavori, giungiamo infine al terzo capitolo “Metapolitica e decadenza”. Qui, dopo una disanima sul “rifiuto dell'idea di decadenza” su cui vengono fatte ascoltare le autorevoli voci del sociologo e filosofo francese Julien Freund (1921-1993) e di Augusto Del Noce, Gambescia si pone il seguente fondamentale interrogativo: “esiste un punto di saturazione? Un punto limite in cui la società e le culture toccano il fondo per poi iniziare a risalire, ma sulla base di valori completamente opposti a quelli in cui si credeva in precedenza?” (p.80).

A rispondere a questa decisiva domanda viene impegnato Sorokin. L'approccio olistico di questo studioso, capace di andare anche oltre le consuete categorie sociologiche e di proiettarsi in una dimensione di rango superiore, è sicura garanzia di intelligenza della risposta. Risposta che, se lo schema sorokiniano è giusto, non può che essere affermativa, pur se meta lontana a raggiungersi e anch'essa, come tutte le cose umane, dal carattere provvisorio.

Prima di chiudere questa breve e certamente assai manchevole illustrazione del libro in questione, dobbiamo però tornare per un attimo indietro, alle prime pagine, dove Gambescia spiega il senso preciso della sua “metapolitica”. “La metapolitica studia la realtà politica nei termini di ciò che essa è, e non di ciò che dovrebbe essere. Di conseguenza non ricerca il fondamento dell'ottimo stato, magari elevato al quadrato. La metapolitica non è un'etica della politica, studia la realtà come si presenta” (p. 31). “La metapolitica si occupa delle questioni legate alla legittimità del potere (radici e forme) così come si presentano, senza risalire ad alcuna causa prima ultraterrena” (p. 31). “In terzo luogo, la meta-politica ha una valenza metodologica, nel senso che individua e relativizza i giudizi di valore”. Infine: “la metapolitica può essere definita come un approccio generalizzante che studia i mezzi sociali concreti attraverso i quali si conquista, si detiene, si perde il potere, nonché i significati effettuali dei differenti fini o valori collettivi professati dai diversi attori sociali” (p. 34).

Ora non possiamo negare l'evidenza di una distanza che separa il punto di vista di Gambescia dal nostro. La nostra metapolitica, come d'altronde lui stesso riconosce con esattezza nella lusinghiera nota 14 a pagina 18, è “all'insegna dell'oltre”, mentre la sua metapolitica, diciamo noi, è all'insegna dell'hic et nunc, cioè del “qui ed ora”. I linguaggi, i valori disciplinari, dottrinari e teorici dei due approcci sono assai diversi e tuttavia entrambi motivati da una sincera ricerca della verità e del “bene comune”. In questo senso essi convergono e servono la medesima buona causa. Aggiungiamo che, a nostro giudizio, chiunque si occupi del bene della polis a qualsiasi livello è di fatto e di diritto un metapolitico.

Quindi la questione non riguarderà la differenza di prospettiva che ha sempre una sua legittimità, ma semmai l'efficacia (qui nel senso positivo e umano di un servizio reso al prossimo) del punto di vista di Gambescia proprio nei tempi sconquassati, lacerati e disgregati che stiamo vivendo.

Se la politica oggi vive un momento di effettiva e profonda crisi, ai limiti dell'irreparabile, non sarebbe più salutare per risanarla, anziché puntellarla di analisi, di nuovi dati e di nuove indagini, fornirle un supplemento di senso? E questo supplemento di senso non richiederebbe più che una nuova disciplina o un nuovo approccio epistemologico, una vera e propria sua conversione in senso metafisico e spirituale?

Si consideri poi che la realtà oggi è in continuo e accelerato mutamento e che ci sono anche “fatti” imponderabili che sfuggono totalmente all'occhio umano e ad ogni possibile umana previsione. L'imprevedibilità di questi imponderabili non scalza dalle fondamenta lo schema delle “costanti” e delle “regolarità” del politico? (Eraclito: chi non si aspetta l'inaspettato non troverà la verità). Ciò che si è ripetuto sempre uguale per centinaia e anche per migliaia di anni, secondo quello schema infallibile della polarità Ordine-Caos o, per dirla con Gambescia, Arché-Anarché, non potrebbe a un certo punto interrompersi come lo hanno immaginato e visto tutte le grandi tradizione religiose della storia?

Mettendo tra parentesi o in subordine, o addirittura escludendo il problema di Dio e al contempo relativizzando “i giudizi di valore” nella ricerca e nell'analisi politica, non si finisce proprio col correre il rischio, tanto paventato dall'Autore anche se per altre ragioni, di agevolare la deriva “totalitaria”? E una posizione del genere, non sarebbe una forma di cripto-marxismo o di post-marxismo?

All'ottimo Gambescia l'ardua sentenza.

Note

(1)Allgemeines Staatsrecht und Staatsverfassungslehre (Göttingen 1793).

(2)La voce fu curata con vero estro letterario dall'amico e corrispondente portoghese João Bigote Chorão.

(3)In questo caso la voce è stata redatta dalla prof.ssa Laura Bazzicalupo dell'Università degli Studi di Salerno.

(4)A nostro avviso l'appropriazione indebita del termine metapolitica da parte della Nuova Destra italo-francese e l'uso strumentale e ideologico che essa ne ha fatto, non ha consentito ad altri e più alti significati di essere giustamente riconosciuti e valutati nella loro impor-tanza.

(5)Riletture: Giuseppe Palomba (1908-1986) apparso sul blog di Carlo Gambescia il 16 febbraio del 2006:

carlogambesciametapolitics.blogspot.com.

(6)C. Gambescia Invito alla lettura di Sorokin, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2002).

(7) Badiou è stato autore di un libro che reca il termine metapolitica fin dal titolo. Si tratta di Abrégé de métapolitique, uscito in Francia per i tipi delle Éditions du Seuil nel 1998, e tradotto e pubblicato in Italia dalla Cronopio di Napoli nel 2001 con il titolo Metapolitica.

(8)Karl Paul Reinhold Niebuhr (1892-1971) autore di una trentina di libri e di alcune centinaia di articoli, era un teologo protestante statunitense, conosciuto soprattutto per i suoi studi sulla possibilità di collegare la fede cristiana al realismo della politica, “ottimo antidoto” scrive Gambescia “a ogni forma di attivistico e pericoloso romanticismo politico” (p.63) alla Carl Schmitt. Per Niebuhr si trattava insomma di perseguire l'idea di società giusta ma senza mai deviare nell'utopismo.

Bibliografia essenziale dell'Autore


  • Invito alla lettura di Sorokin, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2002

  • Il migliore dei mondi possibili, Il mito della società dei consumi, Settimo Sigillo, Roma 2005

  • Viaggio al termine dell’Occidente, Settimo Sigillo, Roma 2007

  • Metapolitica. L’altro sguardo sul potere, Il Foglio Letterario Edizioni, Piombino 2009

07/02/10

Un nuovo libro di Piero Vassallo: "Itinerari della destra cattolica "

Un’impressionante sequela di abbagli e malintesi ha allontanato i cattolici dalla loro naturale posizione politica e la destra dalla sua naturale radice cattolica. Di conseguenza la recente storia italiana narra le disavventure di due partiti tormentati dall’aspirazione a diventare il proprio contrario: la DC di Jacques Maritain e il MSI di Julius Evola. Il cattolicesimo politico inteso alla paradossale imitazione dell’avversario laico e progressista e il movimento postfascista rovesciato nell’avversione alle proprie radici spirituali. Rosy Bindi e Gianfranco Fini sono i perfetti interpreti di due scelte antipatiche, che – alla fine – si ritrovano nella reciproca simpatia per l’assenza di un vero disegno politico.
Nel presente saggio, Piero Vassallo tenta di risalire ai pensieri che hanno trascinato democristiani e postfascisti nella commedia degli scambi insensati. E nella ricerca fa intravedere i pregiudizi da abbattere per aprire la strada di una destra finalmente affrancata dall’incuboso desiderio di diventare altro.

Piero Vassallo, ITINERARI DELLA DESTRA CATTOLICA, Edizioni Solfanelli, Pagg. 160 - € 12,00

L'Autore

Esponente di primo piano della destra cattolica italiana, Piero Vassallo si è formato alla scuola di Giano Accame, Primo Siena e Gianni Baget Bozzo. Laureato in filosofia è stato docente nella facoltà di teologia e nei corsi di giornalismo, e collaboratore della rivista “Renovatio”, fondata dal cardinale Siri. Fra le sue numerose opere: Dal mondo nuovo alla libertà Solzenicyn profeta dell’età postmoderna (Palermo 1976), Giambattista Vico (Roma 1977), Risorgimento italiano e risorgimento liberale (Genova 1978), La reazione pagana al Cristianesimo, tra naturalismo e vangelo alternativo (Palermo 1981), Pietro Mignosi e La Tradizione (ISSPE, Palermo 1989), Introduzione allo studio di Vico (Palermo 1992), Ritratto di una cultura di morte. I pensatori neognostici (Napoli 1994), L’ideologia del regresso (Napoli 1996), Pensieri proibiti (Lungro di Cosenza 2000), Le culture della destra italiana (Milano 2002), A destra della città proibita (in collaborazione con Sergio Pessot, Milano 2003), Gentile l’Italiano (Roma 2005), La restaurazione del pensiero forte. Appunti per la revisione della storiografia filosofica (Genova 2006), La cultura della libertà (Genova 2008), Memoria e progresso. Le risposte cattoliche al moderno (Verona 2009).

http://www.edizionisolfanelli.it/itineraridestracattolica.htm

05/02/10

Roberto Melchionda: "Scritti per vocazione"

Ormai ci siamo lasciati alle spalle la precarietà novecentesca entro cui si slanciò l'orda nera fascista, di cui morirono Michelstaedter e Weininger (ma pure Antonia Pozzi), contro cui si batté Nietzsche fino al delirio e di cui poetò, sarcastico e sprezzante, Montale. Questo odierno è il tempo di un'inerzia niente arfatto precaria, di un flaccido scirocco continuo, dello svuotamento totale di senso. É il trionfo del controassoluto più miserando: la rinuncia assoluta, la stanchezza assoluta. La scelta è allora tra la celebrazione dell'irruenza, a volte terribile e violenta, degli uscocchi e la resa completa alia ragionevolezza, ovvero a tutto ciò che sia mediocre, facile, irresponsabile, indeterminato. Ed è una scelta 'fatale', che non risparmia i filosofi. Roberto Melchionda non elude tale bivio decisivo limitandosi a decorare con le proprie glosse un modello di pensiero inerte. "Avanzare di ritorno": ecco una formula adatta a descrivere questo modo antico, onesto e fiero, di fare filosofia, ovvero di fare ordine nel pensabile. Ordine-e-disciplina - insinuerà con malcelata riprovazione e sufficienza il frale filosofo alia moda. Ordine e disciplina si, o, meglio ancora, un'endiadi meno abusata e più 'compromettente': precisione (questa ha più a che fare con la Prussia spengleriana che con l'alessandrinismo) e decisione (cui si perviene proprio attraverso il precisarsi dell'intuizione). O, per richiamare le ardite copule evoliane: trascendenza e azione.

[Dall'introduzione a Roberto Melchionda, Scritti per vocazione, Ar, 2010]

INDICE


PER CORÒNIDE di Franco Freda, 9
L'ondeggiare dell'essere di Anna K. Valerio 11
I due idealismi di Evola e Spirito 17
Evola e il pensiero debole 30
Cosa rimane oltre il Nulla? 42
I miti, ovvero la sapienza nascosta 46
Tutti i volti della Tradizione 50
La vocazione "eroica" in un paesaggio di rovine 54
II prezzo della verità. Giorgio Colli filosofo "terribile"e supremo filologo 59
Perché Wittgenstein 63
L'"esigenza" etica di Wittgenstein 67
Nietzsche pericoloso? Sì, era filosofo 72
Né camomilla né cicuta nella tazza del filosofo 74 Nietzsche tra nazificatoti e denazificatori 77 Mazzini nell'interpretazione di Gentile 85
Sul significato transpolitico del fascismo e la
condanna "epocale" di Ernst Nolte 103
Il fascismo fu fenomeno di "contromodernizzazione"? 111
Il fascismo filosofico di Del Noce 118
Il "Mazzini vivo" di Gentile e lo spiritualismo ambientale del tempo fascista 125
Gentile, Evola e il loro fascismo 133
Il diverso spiritualismo di Croce e di Gentile e il loro rapporto con il fascismo 144
Su Evola e la politica. L'esordio "antifascista" e "fascista" 157
Evola e la filosofìa 167
Destre, sinistre: che importa? 182
La qualità cristallina di Jünger 185
Il dio Tecnica. Confusione tra scopi e mezzi 188
APPENDICE. Su La disintegrazione del sistema 195
Indice dei nomi 205

Fonte: http://www.edizionidiar.com/roberto-melchionda-scritti-vocazione.asp