21/06/12

Echi e commenti: Una riflessione sulle considerazioni di Giuseppe Gorlani alla nostra recensione de “Il Filo Aureo”


di Aldo La Fata

Innanzitutto, a nome del “Corriere metapolitico”,  ci preme ringraziare pubblicamente, Giuseppe Gorlani per i contributi scritti proposti e anche per i commenti che sicuramente hanno arricchito di validi e importanti contenuti questa nostra pagina web. La buona fede, la sincerità e l’onestà intellettuale di Gorlani sono fuori discussione e sono le qualità che vorremmo sempre incontrare nei nostri interlocutori quali che siano di volta in volta le posizioni assunte. La verità della Persona infatti ci preme sempre di più della giustezza delle idee e della loro cogenza logica. E tuttavia, la battaglia delle idee non va sottovalutata giacché, come ci ricorda il titolo di un classico politico-giornalistico del pensiero controrivoluzionario, sono proprio le idee a muovere il mondo. Non possiamo dunque trascurare il fatto che un “punto di vista” (in questo caso quello di Gorlani coincidente con le prospettive vertiginose della metafisica orientale e qui da leggersi soprattutto in chiave di personale “autobiografia intellettuale e spirituale”) ancorché libero da condizionamenti ideologici e fondato su presupposti di saggezza spirituale sia, nel suo farsi discorso, anche espressione di una particolare idea di realtà e di verità e in quanto tale soggetto a valutazione critica e a proposta alternativa.  Pertanto, anche la sua “formale” validità metafisica (il “filo aureo”), per excessus mentis, può venir meno e addirittura impedire quella liberazione o “realizzazione” che si era proposto nelle sue intenzioni.
Ciò premesso e fuori da ogni sterile intenzione polemica, entriamo nel merito della disamina di Gorlani apparsa su questo blog il 18 maggio u.s. con il titolo “Considerazioni sulla recensione a Il Filo Aureo”.

Gorlani nelle sue “considerazioni” riassume abbastanza fedelmente il punto di vista di Silvano Panunzio sulla “metafisica cristiana”, anche se, come lui stesso riconosce, il testo di riferimento è esclusivamente il capitolo “Mistero Supremo” tratto da “Contemplazione e Simbolo”  del 1976. Su questo soggetto infatti,  Panunzio ebbe a ritornare costantemente e l’insieme di questi scritti si trova ora raccolto nel volume  “La metafisica del Vangelo Eterno” (2007). Per quanto riguarda invece un bilancio conclusivo del suo pensiero, il rimando  al libro-testamento “La coralità celeste superdivina” del 2010 ci sembra imprescindibile.  Comunque sia, ad un certo punto della sua attenta e scrupolosa analisi del testo, Gorlani afferma che per quanto “ispirante e stimolante”, la tesi di Panunzio sul Mistero Supremo “non è priva di limiti o di nodi insolubili”. Ci chiediamo: non sarebbe stato più prudente e più saggio riconoscere il diverso angolo prospettico di Panunzio rispetto alle proprie tesi? Non è un mistero che Panunzio abbia sempre riconosciuto il carattere limitante della parola e del linguaggio e anche l’incapacità della ragione di pervenire alla Verità Suprema (su questo l’accordo con Gorlani è completo). Semmai, ma per un discorso di coerenza e di fedeltà al magistero cattolico, il Nostro si è sempre attenuto agli insegnamenti delle Sacre Scritture (alla Bibbia in primis) e alla sapienza universale soprattutto, ma non solo, di matrice cristiana. Non avendo questo discorso nulla a che vedere col rigore epistemologico di cui è il caso solo per la scienza profana, perché parlare di “limiti” e  di “nodi insolubili”?
Sui due punti suppostamente critici individuati da Gorlani nel testo di Panunzio ci permettiamo di osservare quanto segue.  Circa il discorso sulla “preferenza” del Padre per chi sceglie allo “stare nell’Uno” “la terribile esperienza dei molti”, andrebbe precisato che Panunzio quest’idea l’ha derivata dal concetto teologico di Kénosis secondo il quale Dio entra nello spazio e nel tempo per “farsi” uomo, spogliandosi dei propri attributi divini. Tale idea si ritrova del tutto analoga nello Tzimtzum o tzim tzum ebraico che rimanda letteralmente alla “ritrazione” o “contrazione” di Dio interpretata dai cabalisti medievali nel senso di una “autolimitazione di Dio” il quale si “ritrae” nell'atto della creazione del mondo. Mutatis mutandis, Panunzio ritrova questa medesima idea nell’ideale sacrificale ed eroico del Bodhisattva. Calarsi nella dimensione del Molteplice, significa, cristianamente, “Amare”. Gorlani,  preferendo un linguaggio più astratto ed extra-soggettivo, sceglie di porre la questione non nei termini dell’accettazione o del rifiuto del Molteplice (poiché, “volenti o nolenti, siamo immersi nella molteplicità”), bensì nella necessità di orientare la propria esistenza verso l’Alto, “armonizzandone le contrapposizioni ed offrendo noi stessi al Sublime”. Due modi diversi di dire la medesima cosa? E senz’altro possibile,  ma è altrettanto possibile che l’affermazione dell’una possa comportare l’azzeramento concettuale dell’altra e viceversa.  E’ questo un problema che occorre porsi per lo meno in sede di dibattito o di confronto intellettuale. La diversità di linguaggio può infatti anche comportare l’incomunicabilità tra le parti, a meno che non si adatti costantemente il linguaggio alla statura intellettuale e morale del proprio interlocutore. E’ esattamente quello che fa Gesù nei Vangeli, ma nel suo caso il dato costante non sembra essere la forma del suo linguaggio (quasi sempre analogico, simbolico e metaforico), ma il suo carattere di verità immediata certa ed evidente per sé, cioè la sua indiscutibile autorità (exousia). In questo senso il linguaggio dei mistici, ancorché caratterizzato da espressioni “affettive”, è superiore al linguaggio dei “metafisici formali” la cui lettera proprio perché non sempre vivificata dalla forza dello Spirito può arrivare ad “uccidere”. E infatti, non si può escludere nel caso dei “metafisici formali” una deriva nichilistica (qui tralasciamo per ragioni di spazio il caso “esistenziale” dei cosiddetti “nichilisti attivi” alla Evola, alla Jünger o alla Freda).  

Quanto all’immagine usata da Panunzio dell’uomo come “specchio di Dio” e di Dio come “specchio dell’uomo”, che Gorlani ritiene poco calzante mentre per lui lo sarebbe molto di più quella gnostica e plotiniana della “scintilla”, giacché essa “se pur infinitesima rispetto al Fuoco assoluto, partecipa della sua stessa natura”, avremmo da eccepire che mentre l’una rimanda a un simbolo tradizionale per sua natura extra-discorsivo, la seconda è più una metafora e cioè una figura retorica discorsiva. Il simbolismo dello “specchio” ha inoltre nell’ambito tradizionale a cui anche Gorlani dice costantemente di ispirarsi, un consenso sicuramente più unanime e trasversale di quello della “scintilla”. Se ne trova la presenza, solo per fare dei riferimenti autorevoli, in San Paolo, Ibn ‘Arabî, Maestro Eckhart, Angelo Silesio, Dante Alighieri e in Oriente nella tradizione vedica e nel buddhismo tibetano.
Ad ogni modo, sul piano del discorso Gorlani obietta che “se fossimo specchi, la nostra alterità col Padre sarebbe irrimediabile”. Bene, questo ci sembra davvero un punto dirimente, perché di fatto tanto il cristianesimo come pure la religione ebraica e l’islamica hanno sempre concordemente insistito su una differenza ontologica tra Dio e l’uomo (il Corano dice letteralmente che esiste  “la distanza di un arco tra Dio e l’uomo”). Qui però facciamo notare che proprio il cristianesimo –che, ci preme sottolinearlo, non è un monoteismo puro (fermo restando che l’espressione monoteismo è sorta solo in funzione polemica e nel confronto con il cosiddetto politeismo)- conosce un’importante eccezione all’idea di distanza irriducibile tra l’uomo e Dio, ed è precisamente quella di Gesù Cristo, ovvero dell’Uomo-Dio. In tutti gli altri casi -e vorremmo dire pour cause-  il cristianesimo lascia sussistere una differenza, uno scarto ontologico irriducibile e apparentemente irrimediabile. Qui, infatti, si tratta di far prevalere un dato esistenziale certo (l’abissale distanza tra l’uomo e Dio) su un dato metafisico imponderabile (la presunta identità sostanziale). E’ un “realismo” necessario che dinamizza creativamente il rapporto Uomo-Dio non risolvendone mai del tutto la tensione unitaria. E’ questo un conoscere per partecipazione e non per identità ed è la massima esperienza possibile di Dio o dell’Assoluto per un vivente.  Immaginare una conoscenza di Dio per identità è senz’altro suggestivo e in astratto possibile, ma non conosciamo nessun caso documentabile di questo tipo. La cosiddetta intuizione superconscia o l’esperienza evocata da Gorlani dell’andare al di là di dualità e non dualità (esperienza di espansione coscienziale, di Illuminazione, di Risveglio), per stare nella “formale” coerenza metafisica, dovrebbe avere come conseguenza la totale estinzione del corpo (e qui non basterebbe neppure una “temporanea” trasfigurazione: quest’ultima associata ai ben noti fotismi o esperienza della Luce attestate con certezza nelle tradizioni mistiche cristiana e mussulmana) e l’immediata e istantanea “assunzione in Cielo”. Lo stato del cosiddetto “liberato in vita” non corrisponde e non può corrispondere allo stato di “Identità Suprema” per la medesima ragione. Paradossalmente non si conosce in India nessuna figura storica che abbia realizzato questo stato (lo stesso Budda, secondo vuole la Tradizione scritta, sarebbe morto –se in modo volontario o accidentale poco importa- come un essere umano), mentre il caso di Gesù sembra il caso perfetto. Quindi, un vero metafisico dovrebbe avere come “modello” supremo e maestro perfetto proprio l’uomo-Dio Gesù, il quale non è semplicemente il “fondatore” di una religione a cui non si è congeniali. Il cristianesimo non può infatti essere considerato come una faccenda relativa a un gruppo umano (una tribù) di cui si può non tener conto, tanto più se si appartiene per nascita, per eredità  e per cultura al suo milieu. Non lo diciamo per partito preso o per fanatismo confessionale, ma a noi obiettivamente il Gesù proposto dai Vangeli e annunciato dal cristianesimo sembra la manifestazione più alta del divino in terra che si conosca. Qui però non si tratta di consentire al linguaggio cristiano di diventare il linguaggio universale (sarebbe questa senza dubbio una intollerabile prevaricazione), ma di considerare la possibilità che il “mistero cristiano” sia intimo a tutte le vere tradizioni che però lo riconosceranno con altri nomi e lo esprimeranno con altri linguaggi (quest’ultima idea fu caldeggiata da Raimundo Panikkar).
Aggiungiamo che per un “metafisico cristiano” non è accettabile che la domanda fondamentale sia un molto filosofico “chi sono io?”, ma, volendo usare le parole attribuite dalla Tradizione all’arcangelo Michele, un più religioso “Chi come Dio?”. Diciamo questo perché l’amico Gorlani astrae la domanda dal contesto metafisico hindù e la presenta come la domanda per eccellenza che ogni essere vivente si pone (e deve porsi se vuole venir fuori da se stesso). Facciamo poi notare sempre di passata a Gorlani che il Dio della Bibbia (quello per intenderci che sul Sinai si manifesta a Mosè nella forma del “roveto ardente”) non era un filosofo greco e che il senso dell’“Io sono colui che sono” non può risolversi in una semplice “filosofia dell’essere”. Su questa questione c’è da riconoscere che anche il nostro Doctor Angelicus, alias San Tommaso d’Aquino, ha filosofeggiato in senso aristotelico un po’ troppo e che parlare di una “metafisica dell’Esodo” come ha fatto il Gilson è un vero e proprio azzardo ermeneutico. 

In sintesi: la metafisica cristiana non può coincidere mai con una generica “metafisica o filosofia dell’Essere” e non può neppure accettare di essere subordinata ad una altrettanto generica e decontestualizzata “metafisica pura o integrale” che di fatto e di diritto non è altro che un punto di vista filosofico sulla Verità. La presunta universalità di questo sapere per quanto ammirabile e saggio non può essere mai posto al di sopra della Tradizione vivente che deve rimanere il Centro simbolico e reale del proprio orientamento spirituale, pena il vivere di illusioni mentali (salvo l’intervento della Grazia o della Divina Misericordia). Gorlani sa bene che il metafisico e vedantino René Guénon la cui statura e lucidità intellettuale appare anche oggi difficilmente eguagliabile, ha incardinato la propria esistenza in un contesto tradizionale vivo e che si è spento “religiosamente” invocando il nome di Allah (dunque il teorico della metafisica pura e dell’Identità Suprema in articulo mortis avrebbe ignorato i principi metafisici da lui stesso enunciati?).

L’amico Gorlani non può neanche ignorare il fatto che ogni religione debba essere in sé un assoluto e che nessuna religione possa accettare formalmente e dialetticamente di essere considerata o ridotta ad un relativo, per quanto lo si voglia ammantare di assoluto. In questo senso -e soprattutto in questo senso- arriviamo a dire che l’esclusivismo delle religioni ha un valore provvidenziale e intrinseco in sé (anche qui, tolto il fatto che tale esclusivismo possa degenerare fatalmente in ideologismo fanatico o in ottuso fondamentalismo), come, analogamente, ha valore intrinseco in sé la singolarità della persona umana, che va sempre considerata unica e irripetibile (non siamo né animali sociali in senso illuministico, né insetti collettivi in senso scientifico), che non può mai essere scambiata con un'altra né ridotta alla somma di altre. In questo senso, dare valore relativo a una persona o ad un essere vivente o considerarlo in modo strumentale significa di fatto offenderne la dignità e minarne l’integrità (su questa scala si può scendere fino all’ammissione e alla giustificazione dell’omicidio e dello sterminio di massa). Ugualmente parlare della religione, dei mezzi devozionali e delle pratiche di pietà religiosa come “strumenti” o come “mezzi” di cui ci si deve servire per andare oltre è a tal punto sminuente che nessun uomo veramente religioso potrebbe mai accettare un simile punto di vista. Senza contare che con simili riduzioni si finisce involontariamente con  l’invalidare “logicamente” teologicamente e metafisicamente il senso stesso della religione. Ogni religione infatti, è un tutto, e in questo senso effettivamente detiene “in esclusiva” le chiavi della Verità ultima. Una verità per tutti, sussistendo le diversità culturali ed esistenziali delle moltitudini che popolano la terra, sarebbe di fatto una verità per nessuno e quindi una falsa verità, una non-verità (come quella che la Scienza sostituendosi alla Religione va imponendo al genere umano. La famosa “unica proposta di vendita” di goebbelsiana memoria).  Riconoscere “l’esistenza di più lignaggi spirituali” non significa automaticamente relativizzare la propria religione che, ripetiamolo, richiede di essere un assoluto. Si tratta solo di una concessione puramente intellettuale o al più filosofica, come si riconosce il caso della diversità di opinioni e di idee per gli esseri umani. Ma intimamente non si può e non si deve mai relativizzare la propria religione o pensare di parificarla alle altre. Una simile operazione infatti, non spetta all’uomo ma solo a Dio.
Altro punto critico: la prospettiva metafisica si presenta formalmente come “il punto di vista di Dio”, ma la verità è che non esiste alcun uomo per quanto qualificato capace di poterlo assumere veramente (o meglio, per il cristianesimo, come abbiamo già detto, quest’uomo c’è ed è Gesù il Cristo). Quindi il discorso religioso non è mai veramente esaurito “preliminarmente”, ma è sempre in essere, sempre attuale, sempre vivo.
Quanto alla possibilità per gli uomini di questa epoca di scoprire un irresistibile richiamo verso altre tradizioni diverse da quelle di appartenenza, questa sembra essere effettivamente una possibilità che è difficile e imprudente escludere in maniera assoluta, ma rimane pur sempre il dubbio che si possa trattare di un misanderstending, di un errore di valutazione o peggio di un cedimento al proprio ego e alle sue aspettative e richiami illusori. Anche Panunzio a un certo punto della sua esistenza si sentì attratto da un'altra forma tradizionale (era il buddismo lamaico tibetano), ma vi seppe rinunciare in nome di un più alto “sacrificio intellettuale” (l’evangelico “rinnega te stesso” evocato per un diverso caso dallo stesso Gorlani). In questa circostanza si può parlare effettivamente di “innalzamento verticale” ma in senso “religioso”. 
Quanto all’innalzamento verticale “sovrareligioso” o transreligioso non sapremmo dire con esattezza dove esso stia veramente di casa (forse nella pura ascesi come sostiene Gorlani), ma dove sarebbero in quest’epoca di devastazione totale (estetica, culturale, psicologica, intellettuale, morale e spirituale) gli uomini capaci di tanto?

16/06/12

Quando Evola e Eliade vollero «fare fronte» spirituale

Quella fra Julius Evola e Mircea Eliade fu, come scrisse molti anni fa Philippe Baillet, «una amicizia mancata», o meglio fu Un rapporto difficile: è questo il titolo di un saggio scritto da Liviu Bordas, dell’Istituto Studi Sud-Est Europei dell’Accademia Romena di Bucarest, pubblicato sul nuovo numero di Nuova Storia Contemporanea.
Uno studio ricco di analisi e interrogativi sull’incontro fra i due studiosi, che si basa sul ritrovamento di 8 lettere inedite del periodo 1952-1962 dell’italiano al romeno, scovate da Bordas tra i Mircea Eliade Papers custoditi all’Università di Chicago e che si aggiungono alle 16 pubblicate poco tempo fa dalla casa editrice Controcorrente (Julius Evola, Lettere a Mircea Eliade 1930-1954).
I rapporti tra Evola e Eliade furono soprattutto epistolari e sicuramente comprendono molte più missive di quelle sino a oggi rintracciate: nell’immediato dopoguerra, Evola cercò di riprendere i contatti con le sue maggiori conoscenze culturali, scrivendo loro sin da quando era in ospedale, nel 1948-49: a Carl Schmitt, a René Guénon, a Gottfried Benn, a Ernst Jünger e a diverse altre personalità fra cui, appunto, Eliade. Lo scopo ideale era non solo riallacciare contatti personali ma cercare di ricostruire una specie di fronte spirituale nella nuova situazione pubblicando in Italia la traduzione di alcune delle opere delle sue antiche conoscenze. Non tutti compresero le sue intenzioni.
Nell’epistolario con Eliade, a esempio, il problema che si pose in quei primi anni Cinquanta nei quali Evola si diede molto da fare per la pubblicazione dei più importanti libri dello studioso romeno, come documentano le nuove e vecchie lettere, fu quello di quanta poteva essere l’influenza degli autori «tradizionalisti» sugli scritti scientifici e divulgativi di Mircea Eliade e il fatto che questi non citasse quasi mai certe sue fonti che alla «Accademia» potevano sembrare sospette. Erano anni turbolenti e anche pericolosi per chi era stato sul fronte degli sconfitti e lo studioso di certo non amava che gli si ricordasse la sua vicinanza prima della guerra alla Guardia di Ferro di Codreanu. Sta di fatto che, nonostante l’aiuto concreto che Evola diede alla pubblicazione dei libri di Eliade, dopo l’uscita della sua autobiografia Il cammino del cinabro (1963) in cui venivano ricordati certi precedenti «politici» eliadiani, questi sospese ogni contatto e, come rivela Bordas, che ha esaminato i diari inediti dello storico delle religioni romeno, confessò nelle sue note di essere molto amareggiato.
Insomma, il rapporto fra i due andò avanti sempre fra alti e bassi, comprensioni e incomprensioni che avevano radici culturali e psicologiche, come ben documenta Bordas. Il quale ha fatto un ottimo lavoro di esegesi incurante dei pregiudizi «politici» che man mano negli anni sembrano accentuarsi sia per Evola sia per Eliade. Ultimo esempio è un recentissimo articolo di Claudio Magris, in cui l’autore, elogiando lo scrittore romeno Norman Manea, afferma che Eliade è «il più grande rappresentante» di quella «grande e spesso cialtronesca cultura romena che genialmente ha indagato e talora pasticciato e falsificato l’universo del mito, disprezzando le ideologie (quelle liberali e democratiche) in nome delle ineffabili verità dell’occulto». Parole che rispecchiano una conoscenza di seconda e terza mano, sorprendente in una personalità come Magris, il quale confonde «occulto» con «esoterismo».
Eliade fu sempre contro l’occulto (anche Guénon ed Evola lo furono) e, come dimostra il saggio di Bordas, elaborò studi «scientifici» anche se si interessava degli autori «tradizionalisti».
Autore: Gianfranco de Turris, Tratto da Il Giornale del 21 maggio 2012.


09/06/12

A due anni dal transito di Silvano Panunzio (1918-2010): rievocazione bibliografica

Un rara immagine di Silvano Panunzio giovane (appena ventenne)

di Aldo La Fata
Il 10 giugno di due anni orsono, nelle prime ore del mattino, si spegneva alla venerabile età di 92 anni, nel silenzio della sua cella-studio di antico sapore monastico e nella profonda quiete dell’anima sua, Silvano Panunzio. Orientalista cristiano, filosofo anticonformista, italianista, letterato, saggista, poeta, autorevole conoscitore di dottrine esoteriche, era nato a Ferrara il 16 maggio 1918. Fu docente di Filosofia, di Diritto, di Storia, di Scienze Politiche e Sociali. Uomo di grande cultura ma di niuna accademia, esordì giovanissimo come orientalista e romanista, medievalista e germanista. Negli anni quaranta si appassionò fortemente  agli scritti di René Guénon, che lesse integralmente e in profondità, padroneggiandone come pochi il pensiero. Negli stessi anni si dedicò agli Studi Tradizionali, alla Metafisica, alla Cosmologia e al Simbolismo. Tra i suoi interessi primari vi fu anche l'astrologia di cui divenne versatissimo cultore e studioso. In seguito vi avrebbe affiancato gli studi di  Astrologia mondiale.
Al centro dei suoi interessi primari però ci fu sempre la Religione, la cristiana in particolare, in tutte le sue correnti e in tutte le sue forme. Panunzio è sempre rimasto un fedele cattolico, senza dubbio più vicino come sensibilità alla Chiesa Latina e alla cultura occidentale che a quella Orientale, ma nello stesso tempo coltivò il rispetto e l'attenzione per tutte le anime del cristianesimo e per tutte le sue diverse sensibilità spirituali. Il suo universalismo ed ecumenismo verticale lo portarono a mettere l'accento sul "regno di Dio che è vicino" più che sulla Chiesa come istituzione storica,  alla quale però raccomandava sempre di aderire incondizionatamente.
Da un punto di vista culturale, il nodo principale dell'opera scritta di Panunzio è rappresentato dal suo coraggioso tentativo  di integrare il “punto di vista tradizionale” (quello per intenderci inaugurato da René Guénon e proseguito con esiti diversi da Frithjof Schuon, A. K. Coomaraswamy, Evola e molti altri),  con quello della dottrina cattolica. Conciliazione a quanto pare possibile, se si guarda anche agli studi di autori sicuramente accostabili a Panunzio come l'italiano Attilio Mordini (1923-1966) e i francesi Henri Stéphane (1907-1985), François Chenique (1927-2012) e Jean Borella (1930). Questo felice matrimonio tra “cultura tradizionale” e dottrina cattolica, a nostro giudizio, non dovrebbe essere visto come un errore o addirittura come una delle tante eresie gnostiche antiche e moderne, ma piuttosto come un arricchimento della cultura cristiana e come una sua salutare rivivificazione.
E appena alla soglia dei sessant'anni che Panunzio si ritira per raccogliere il frutto delle sue meditazioni e delle sue esperienze e si accinge a elaborare un “Corso di Dottrina dello Spirito” che prevede in 12 volumi.
Il primo e il secondo escono nel 1976 per i tipi dell'editore amico Giovanni Volpe, con il titolo “Contemplazione e Simbolo (Summa orientale-occidentale)”. Si spazia dalla Gnosi cosmologica alla metafisica, dalla mistica alla profetica. Quest'opera è a nostro personale giudizio il capolavoro assoluto di Panunzio, il suo testo più importante anche da un punto di vista stilistico e letterario.  In oltre 600 pagine tutte le grandi questioni filosofiche e metafisiche vengono poste, tutti i problemi relativi agli enigmi della vita e della morte, dell'al di qua e dell'al di là trattati a fondo, tutti i massimi misteri del visibile o dell'invisibile delucidati con chiarezza: sempre con il ricorso puntuale e documentato alle fonti delle Scritture Divine e del Magistero millenario più autorevole.
Esattamente tre anni dopo, siamo nel 1979, escono  per le edizioni del Babuino di Roma, due nuovi volumi (il libro terzo e quarto della “Dottrina dello Spirito”) con il titolo “Metapolitica. La Roma Eterna e la Nuova Gerusalemme”. Si tratta di due saggi di Gnosi storico-cosmica e profetica, un ulteriore e vera e propria “summa” ma questa volta di escatologia civile.
In “Contemplazione e Simbolo” si era dimostrato che il rapporto fra la Tradizione universale e il Cristianesimo è di carattere archetipico, talché, quella cristiana può dirsi a buon diritto la “Tradizione paradigmatica”. Infatti il cristianesimo viene inteso come lo spirituale punto di incontro e la sintesi cattolica dell'Induismo e dell'Ebraismo, dunque il nodo centrale del processo storico-religioso del mondo. Analogamente, in “Metapolitica”, si dimostra che, sul piano politico-storico, operano da millenni, in una guerra “occulta”, due forze contrapposte, intese simbolicamente come la mano destra e la mano sinistra di Dio.
Sono analizzati anche tutti i problemi strutturali dello Stato, della Società e della Chiesa e i rapporti vicendevoli tra queste istituzioni vengono illuminati da una concezione trascendente e ultima. Continuo in quest'opera l'avvertimento sulla svolta finale e “anticristica” del presente ciclo umano, in vista di “nuovi cieli e di nuova terra”: ossia dell'avvento della Nuova Gerusalemme e della trasmutazione della Roma Eterna.
Trascorrono dieci anni durante i quali Panunzio continua a produrre scritti e a lavorare alla “rivista di studi universali” “Metapolitica”, fondata nel 1976 insieme a Mario Pucci, Primo Siena e Giovanni d'Aloe. Siamo nel 1989. Finalmente può uscire il quinto libro del Corso il cui titolo è “Cristianesimo giovanneo (Luci di ierosofia)”. Pubblicato dall'editore cattolico Cantagalli, il testo ottiene l'Imprimatur dall'allora Cardinale Arcivescovo della città toscana Monsignor  Mario Jsmaele  Castellano. La Conoscenza sacra universale, cioè per l'appunto la “Ierosofia”, professata da nessuno più e meglio di Giovanni, detto simbolicamente Ieroteo, si sviluppa non solo nel senso dell'ampiezza (Oriente-Occidente) ma anche nel senso dell'altezza (Cielo e Terra) e della profondità (Interno ed Esterno), ricomprendendo tanto la Teologia catafàtica dell'Esse quanto la Teologia apofàtica del Non esse: entrambi aspetti unitari dell'Infinita Sapienza del “Deus revelatus” e del “Deus absconditus”. Il libro era dedicato a quelli che Panunzio considerava come i suoi massimi maestri e ispiratori: il rabbi  Israel Zolli, capo rabbino di Roma, convertitosi nel 1945 al cristianesimo con il nome di Eugenio Pio Zolli; lo ieromonaco benedettino Agostino Zanoni  a più riprese priore dell'Abbazia di Farfa e lo shàik Giovanni “abd el-Wahed”, alias René Guénon.
Nel 1996 è la volta del sesto volume intitolato “La Conservazione-Rivoluzionaria”, edito questa volta dal Cinabro di Catania. Si tratta di un testo che possiamo definire di “filosofia politica” in cui tra le altre viene rievocata la figura paterna di Silvano, Sergio Panunzio (1886-1944). Quest'ultimo era stato il teorico del “corporativismo rivoluzionario” ed era in rapporti di cordiale amicizia con Benito Mussolini. (Detto per inciso, fu Sergio Panunzio a riesumare e rilanciare il termine “metapolitica” e a mettere in cantiere il progetto di una rivista con questo titolo, che però sarebbe apparsa più di trent'anni dopo, nel 1976, per volontà del figlio Silvano). Ne “La Conservazione-Rivoluzionaria”, l'autore esprime il suo punto di vista sulla vicenda storica del ventennio fascista e ricostruisce la genesi storica, teorica e ideale della metapolitica come escatologia civile.
Non sembri strano, ma il settimo volume del corso di dottrina dello Spirito, “Cielo e Terra, Poesia, Simbolismo, Sapienza, nel Poema Sacro”, in realtà stampato in prima edizione nell'82 ma in una tiratura limitata a pochi esemplari, non trovandosi un editore adeguato e disponibile, esce nel 2009 a cura delle edizioni di Metapolitica. Si tratta naturalmente di una edizione ampliata riveduta e corretta. Dante Alighieri è figura centrale nella cultura di Panunzio e da questi assiduamente letto e frequentato. In questo libro è analizzato e studiato alla luce dell'arcano centrale di Beatrice. Un'interpretazione inedita che va oltre Gabriele Rossetti e anche oltre René Guénon.
Il libro ottavo, “Terra e Cielo: dal nostro Mondo ai Piani Superiori”, pubblicato sempre da Cantagalli nel 2002 è invece una sorta di “libro dei morti” cristiano. Naturalmente si tratta di un'opera teorica e non di un libro sacro ispirato, come potevano esserlo “Il libro tibetano dei morti” (Bardo Todol) o “Il libro egizio degli inferi”, ma dove ugualmente si delinea il mistero del passaggio all'altra riva e quello non meno enigmatico dei “percorsi” ultraterreni. Leggendolo, possiamo assicurare, si vince e si supera una volta per tutte la paura della morte.
Panunzio si occupò molto anche dei “mistici dell'Occidente” non condividendo quella radicale incompatibilità tra mistica e iniziazione che il Guénon aveva formulato nel suo “Considerazioni sulla via iniziatica”. Un errore abbastanza grave quest'ultimo da parte del metafisico francese e per correggere il quale si dovettero aspettare gli studi documentati di un Elemire Zolla che rimisero le cose al loro giusto posto. Lo studio di Panunzio sui mistici, sicuramente meno enciclopedico ed erudito di quello di Zolla, ma rispetto a questo di un'ottava superiore,  intitolato “Vicinissimi a Dio, Summa Sanctitatis” (Cantagalli, 2004), è il libro nono della “Dottrina dello Spirito”, e raccoglie 20 biografie “eroiche” di “uomini di Dio”, di “cercatori dell'Altissimo”, raccontate con quella straordinaria capacità immedisimante e creativa fantasia che ci si dovrebbe sempre aspettare da un agiografo come si deve.
E veniamo al libro decimo curato delle edizioni di Metapolitica con il titolo “Metafisica del Vangelo Eterno” (anno di pubblicazione 2007). Quest'ultimo è forse il libro più arduo di Panunzio. Nato quasi per gemmazione da un piccolo saggio magistrale del 1994, “Il visibile e l'invisibile nel cristianesimo (metafisica del Credo)” pubblicato dalle edizioni Il Cinabro, è la massima testimonianza di fede nel Gesù dei Vangeli da parte di Panunzio. Un Gesù sovraessenziale che non può essere esclusivo di nessuno ma che appartiene a tutti. L'uomo dei dolori è anche l'unico uomo in cui si sia manifestato il mistero dell'Identità Divina. Quell'identità tanto agognata dalla metafisica indiana e dalle più alte speculazioni del Vedanta. Questo libro è la risposta definitiva alle tre fatidiche domande che Panunzio si era posto fin dagli anni settanta, quando proprio all'inizio del suo corso teoretico si chiedeva: “esiste una metafisica cristiana? Esiste un'Iniziazione cristiana? Esiste un esoterismo cristiano?”. La risposta è naturalmente affermativa e nelle oltre 300 pagine se ne può trovare la dimostrazione sicura.
Orbene, se si va a vedere il piano originario dell'opera così come fu concepito, pensato e riportato sui primi due volumi di “Contemplazione e Simbolo”, ci si accorgerà che ben altri dovevano essere i titoli del “Corso di Dottrina dello Spirito”. Una serie di circostanze sfavorevoli finirono col non consentirne l'attuazione puntuale. Ma quello che si è fatto in luogo di quello si sarebbe voluto fare, ha forse addirittura un valore e un significato più alto, perché lo si è fatto letteralmente col sangue e a prezzo di sacrifici senza nome.
La Coralità celeste superdivina” (Roma 2010, Edizioni di Metapolitica) è l'undicesimo e ultimo libro del Corso di Dottrina dello Spirito; meglio, è il “libro ultimo” come recita il sottotitolo. Panunzio presago della fine imminente aveva esplicitamente chiesto allo scrivente di mandarlo in stampa entro maggio. Così era stato detto e così fu fatto con svizzera puntualità. Il libro mi venne consegnato il 10 di maggio, esattamente un mese prima che l'amato maestro lasciasse la sua spoglia mortale. La tempistica non consente dubbi sul fatto che Panunzio fosse perfettamente consapevole che i suoi giorni fossero numerati e che non avrebbe superato il mese di giugno. In questo libro, voluto agile come la Monadologia di Leibniz, Panunzio ha affrontato di petto i suoi temi più cari riducendoli ad estrema sintesi, ma aggiungendovi anche del nuovo, come quando si dilunga senza censure sul tema scottante e controverso della metempsicosi e della pre-esistenza dell'anima. 
Alla fine, a chiusura, tre commoventi liriche di congedo: Il Grande Silenzio, Il Grande Concerto, Commiato in versi.
Al numero dodici, a sigillare il Corso, Panunzio volle che fosse indicato il Quaderno dell'ATMA, quello stampato nella sua versione definitiva nel 2009 sempre per le edizioni di Metapolitica e con l'immagine sul retro di copertina della Salus Populi Romani,  immagine di Madonna con Bambino attribuita a San Luca e custodita nell'importante Basilica romana di Santa Maria Maggiore. Il Quaderno contiene oltre al resoconto testimoniale di una vicenda che si è svolta tra Cielo e Terra e che ha coinvolto negli anni (ormai 50) decine di amici e di conoscenti, alcuni dei quali ancora in vita, i dieci princípi dell'Alleanza Trascendente Michele Arcangelo, scritti con il contributo intellettuale di tutti i suoi coraggiosi padri fondatori e che, come ci fu detto da un ispirato monaco cristiano ritiratosi in India, quasi non sembrano scritti da mano d'uomo.
Contemplazione e Simbolo (Summa orientale-occidentale)”, Ed. Volpe, 1976
Metapolitica. La Roma Eterna e la Nuova Gerusalemme, Ed. Il Babuino, 1979  
Cristianesimo giovanneo (Luci di ierosofia)”, Ed. Cantagalli, Siena, 1989
La Conservazione-Rivoluzionaria”,, Il Cinabro, Catania 1996



Cielo e Terra, Poesia, Simbolismo, Sapienza, nel Poema Sacro”, Ed. di Metapolitica, Roma 2009   
Terra e Cielo: dal nostro Mondo ai Piani Superiori”, Cantagalli, Siena 2002

Vicinissimi a Dio, Summa Sanctitatis, Cantagalli, Siena 2004
Metafisica del Vangelo Eterno, Ed di Metapolitica, Roma 2007   
Coralità celeste superdivina”, Ed. di Metapolitica, Roma 2010
Quaderno dell'ATMA, Roma 2010


07/06/12

Nuova replica di Alessandro Scali a Giuseppe Gorlani


di Alessandro Scali
ULTIMA ONDATA
(non gioco più)

Come nulla in natura è democratico, così nemmeno l’acquisizione del sapere, che è frutto esclusivo di conquista, il cui limite non si calibra sulla quantità di letture o nozioni, sì invece sulle dinamiche esperienziali passate attraverso il frantoio della vita e sull’apertura di coscienza che le abbia assunte e metabolizzate: di qui il “verum est factum” di Aristotele e Vico. Il sapere peraltro, qualunque sapere, è una responsabilità che va amministrata con adeguate guarentige.
Disattese le quali e trascurato il precedente principio, rimane il rammarico di aver corrisposto con interlocutori  con i quali non ti sei guardato negli occhi, non hai parlato del tempo e dei tempi, così da assicurarti almeno un ‘carotaggio’. Per di più, me ne sono andato a zonzo in modalità ‘reti a strascico’ (vietatissime) in luoghi dove l’incontro con chi può con--sentire –per affinità, sensibilità, esperienzialità- i problemi cui attendi (i problemi, non le soluzioni o i punti di vista) condivide le probabilità di riuscita col ‘superenalotto’, per cui ottengo quel che mi sono procacciato.
Il tema è (anzi, era; anzi, sarebbe): come evitare che un cattolico rimanga confuso tra i doveri di ordine religioso-spirituali e quelli legati alla sua vita civile. In soldoni: è giusto accogliere la marea emigrante, secondo l’invito della Chiesa, o  lo Stato ha un diritto-dovere oggettivo (ed io con lui) di tutela dell’ordine sociale, anche disattendendo il suddetto invito? E la risposta non scende sul filo della speculazione sull’ “Uno e i molti”, che butta in rissa un concetto chiarissimo come quello che in qualunque ambito il subordinato partecipa al bene comune quanto ai fini ma non coi medesimi modi e mezzi, per cui non è autonomo, come si tenta di far passare; e così è tra i rappresentanti dei due poteri; nel mentre il cattolico di cui sopra rimane solo un po’ più  solo e confuso. E allora, cui prodest il nostro pasteggiare?
Questo essendo il vero argomento, e nulla di questo incontrando nelle contestazioni, non mi sfiora la mente di confutare le osservazioni consumate, né per superbia né per viltà (spero non si inclini per il difetto di argomenti), ma semplicemente perché il dibattito dovrebbe prendere la via “alta” di una trattastica (qui) fuorviante e per pochi intimi, mentre la tesi volge alla via ‘terragna’ destinata ai molti; e perché, comunque, sarebbe troppo lungo e altrettanto tedioso confutare tutto, visto che non trovo un sol punto condivisibile, per poi continuare così....  

Ciò cui invece, per dovere di appartenenza, non posso sottrarmi, riguarda alcuni interventi di restauro dell’ortodossia cattolica.
Negare il potere vicariale del re (o di chi per lui) significa negare il suo archetipo, Cristo Re, la Cui perentoria presenza nell’ordine civile di questo mondo (con particolare riguardo alla Giustizia, senza la quale la Sua pace è flatus vocis) viene eretta in alcuni passi evangelici e scandita dall’Apocalisse giovannea (“qui recturus erat omnes gentes”), in una con la sacralità della tradizione romana (ratificata, com’è noto, da Gesù), tradizione nella quale ...casualmente... si è calata la redenzione dell’umanità, sotto il governo di Tiberio imperatore, per opera di Ponzio Pilato che ha rogitato ma non condannato, con il contributo rilevantissimo di Cassio “Longino” e la paradigmatica presenza del centurione che, ai piedi della croce, riconosce nel Crocifisso il Figlio di Dio; il tutto per testimonianza scritturale, pregna di una simbolica preziosa (su cui Dante, ma anche il guénoniano ‘Re del Mondo’) che si ha il dovere di conoscere. Ancor meno si potrà negare che sulla metafisica dell’integrazione romano-cristiana recentemente Panunzio e de Giorgio -senza voler ricordare TUTTA la tradizione cristiana, da Arnobio e Lattanzio fino ai suddetti- hanno distillato magistrali speculazioni, riconoscendo la sacralità e la provvidenziale continuità delle due tradizioni. Dato che ciò rimaneva sotteso nella tesi, le posizioni antitetiche mandano tranquillamente.... eis kórakas, per dirla con Aristofane, una parte essenziale della nostra Tradizione. Le conseguenze possono sfuggire a chi si fa latore di certe tesi, ma disgraziatamente non sono sfuggite a chi ha derubato del latino la formazione dei giovani.
Strangolata l’ “Aquila” romana e la sua paolina (e dantesca) funzione di katékon, tra i danni collaterali lamentiamo anche la devastazione della civiltà medievale, solare nell’integrazione romano-cristiana: il Sacro Romano Impero, l’unzione di Carlo Magno, l’unità politico-religiosa europea, l’imperatore corresponsabile (per diritto di veto) nell’elezione del pontefice.... .

Il secondo e ultimo punto riguarda l’escursione su Melki-Tsedeq.  
Fare ricerca e studi comparativi tra Melki-tsedeq e gli eventuali omologhi indu (l’ipotesi Mahânga è però irricevibile: è quasi una bestemmia) è certamente meritorio: ma assodato che una sbirciata a s. Paolo e una a Guénon su Melki-Tsedeq sarebbe dirimente, nel tema a dibattito che ‘ci azzecca’ lo stato principiale ovvero sottile di Melki-Tsedeq (altra ipotesi urticante) ? Di qui l’ “accademia”, che potrebbe essere solo un garbato eufemismo.
Che se poi si volessero mettere in discussione certi fondamenti cattolici radicati in Cristo e nella Scrittura, invero custoditi da una speculazione due volte millenaria, perché in contraddizione con la Sapienza indu (“più antica e più completa”), sia chiaro che sarebbe semplicemente errato o insufficiente il punto di vista.
Tanto dovevo accennare, per evitare che posizioni siffatte navigassero illese acque territoriali cattoliche. 

P.S.  Nella fretta di chiudere, dimenticavo di salvaguardare i fondamentali di Dante in ordine al “corpus dottrinario” nel quale Gorlani crede che sia ancora da inquadrare. Il Maestro, col muto consenso del suo paredro murciano, mi ventila: “...a te fia bello/ averti fatta parte per te stesso”. Poi, a mio conforto: Non sarà tutto tempo senza reda  – sospira  l’aguglia che lasciò le penne al carro...