28/02/07

Storici, il paradigma censurato. Il caso Ariel Toaff

Il frettoloso ritiro dalla circolazione del libro di Ariel Toaff, Pasque di sangue (Il Mulino) e la sua penosa "abiura" sono stati gli atti culminanti di una vicenda che a mio avviso va molto al di là delle questioni relative alla ricerca scientifica. Confesso di essere stato turbato dalla lettura di recensioni severe scritte da studiosi tanto illustri quanto competenti, quali Anna Foa, Giacomo Todeschini, Adriano Prosperi, Carlo Ginzburg e Amedeo de Vincentiis. Avevo letto il libro molto frettolosamente, ricavandone l'impressione positiva espressa su queste pagine il 7 febbraio e rimproveratami dal Ginzburg.
D'altronde, nemmeno i recensori hanno espresso a proposito del libro critiche considerabili come demolitorie e definitive. Gli hanno rimproverato di non aver trovato alcun nuovo documento né alcuna prova sicura di quanto dice. D'accordo: ma da quando in qua la ricerca storica si fa esclusivamente sui documenti nuovi o comunque inediti? Esistono lavori importantissimi che altro non hanno fatto se non rileggere e reinterpretare fonti ben note. Gli hanno contestato la mancanza di prove certe di quanto dice: infatti, egli si è servito del "paradigma indiziario" che, per definizione, viene utilizzato in assenza o in situazione di carenza di prove sicure.
Ecco perché non mi pare giustificata la posizione di Carlo Ginzburg ("Corriere della Sera", 23 febbraio). Certo, gli assassini rituali sono come il sabba: dei miti. Ma vi sono davvero prove assolute e definitive che essi non si siano mai trasformati, nemmeno una volta, in aberranti riti? Non ne conosco: e se il discorso analogico potesse aver un valore, pensando per esempio al satanismo e all'esoterismo se ne avrebbero semmai prove contrarie, anche recenti (mi riferisco a episodi come quelli dell'Ordine del Tempio Solare del 1994-97). Non vedo quindi perché Ginzburg possa sostenere che non sia vera la mia asserzione che «un libro ritirato dal commercio, a pochi giorni dalla sua uscita, è un l ibro distrutto». Certo, molti lo hanno acquistato e letto prima del ritiro, molti continueranno a leggerlo magari facendolo circolare sotto forma di fotocopie. Ma non accadeva forse lo stesso, mutatis mutandis beninteso, per i libri fatti ardere dagli inquisitori o dai nazisti, ovviamente in contesti diversi dall'attuale? E siamo certi che la sconfessione di tale libro «a quanto pare solo parziale, da parte dell'autore, non può impedire agli studiosi di continuare a discuterlo»? Qui si tocca un problema deontologico delicatissimo. Se si è davvero convinti che il Toaff abbia ritirato il libro perché persuaso che si trattava di un lavoro sbagliato, forse correttezza vorrebbe che si cessasse per il momento di discuterlo nella forma in cui lo conosciamo e si attendesse una sua riedizione riveduta e corretta. Ma tale edizione vedrà mai la luce?
Il punto è che la questione non è affatto puramente scientifica: anzi, è scientifica solo superficialmente. Siamo di fronte a un argomento che, secondo alcuni, finisce col toccare una sfera di questioni intrecciate con la grande tragedia della Shoah: e quando si toccano certe questioni i tempi non sono ancora purtroppo maturi perché se ne possa trattare con spregiudicata serenità. Prendiamo atto che le cose stanno così e agiamo di conseguenza: siamo di fronte a qualcosa che - come rileva molto giustamente Anna Foa concludendo la sua recensione su "La Repubblica" dell'8 febbraio - «esige rispetto e toni smorzati».
È vero. Ma proprio per questo mi sembra che gli argomenti usati dal Ginzburg non provino affatto che questo libro è un «cumulo di illogicità e di strafalcioni», che corrisponda a un tema affrontato con «superficiale irresponsabilità», che sia un «libro pessimo».
Non c'è opera storica, non c'è autore, che sia in grado di regger la prova dinanzi al fuoco di fila di una ben concertata artiglieria manovrata dai colleghi. Proprio perché tutti i nostri lavori, anche i migliori, sono sempre soggetti all'errore e quindi passibili di contestazione. Appunto per questo, anche nelle polemiche più aspre, fra studiosi l'onestà intellettuale e la comprensione sono ingredienti fondamentali (per quanto corrispondano a una merce sempre più rara, purtroppo). Altrimenti tutto diventa cannibalismo, guerra per bande. Ginzburg sa bene che il lavoro di chiunque fra noi è soggetto a critiche anche forti: e che chi decide di essere malevolo e ingeneroso, per qualunque ragione lo faccia, ha sempre il coltello dalla parte del manico. Non esistono tesi né incontestabili né definitive. Anche le sue sono state attaccate. Gli errori che egli imputa al Toaff sono veramente più gravi di quelli che gli addebitava e soprattutto della «chronologie …contestable» che gli rimproverava Martine Ostorero nel suo Folâtrer avec les démons (Lausanne 1995, p.17) a proposito del suo Storia notturna? Si riconosce nel ritratto che del suo lavoro scientifico viene proposto da Oscar di Simplicio nientemeno che nell'Encyclopedia of Witchcraft. The western tradition, edita da Richard M. Golden (Santa Barbara 2006, pp. 443-44), soprattutto a proposito dell'uso del suo "paradigma indiziario" che a dire del suo critico sarebbe, a sua volta, troppo disancorato dalle fonti?
Ma una cosa sono le critiche, anche se non sempre eque e serene; e un'altra la lapidazione. Questa di Ariel Toaff e del suo linciaggio intellettuale è una brutta storia (tanto più alla luce della condanna del libro che è venuta dalla Commissione cultura del Parlamento israeliano). Ma proprio per questo non ci si può mettere una pietra sopra: e il fatto che circolino già deplorevoli siti informatici nel quale io e altri che in qualche modo abbiamo preso le sue difese siamo accusati di essere «antisionisti e filomusulmani» (sic) dimostra che la nostra battaglia intellettuale, per modesta che sia, corrisponde però a una battaglia civile giusta e necessaria, perché combattuta nel nome della libertà di espressione e di pensiero.

(Autore: Franco Cardini ; Fonte: Avvenire 28/02/2007)

26/02/07

Iran: trovato occhio artificiale di 4800 anni fa

IRIB - Il direttore del team di scavi archeologici della Città bruciata, in Iran, Mansour Sajadi, ha annunciato il ritrovamento di un globo oculare artificiale risalente a 4800 anni or sono. Nel comunicare la notizia, Sajadi ha precisato che l'occhio apparteneva ad una donna robusta tra il 25 ed i 30 anni al tempo della morte. I resti dello scheletro della donna sono stati trovati nella nella sepoltura n. 6705 del cimitero della città. Il materiale usato per la realizzazione dell'occhio, è attualmente allo studio degli esperti; a prima vista sembrerebbe naturale, e composto di una mistura di grassi animali. Resti di tessuto della palpebra sono ancora evidenti sulla superficie dell'occhio artificiale. Secono Sajadi, i capillari più delicati erano collegati al globo artificiale usando fili d'oro di spessore inferiore al millimetro. Vi sono anche alcune linee parallele attorno alla pupilla a disegnare la forma di un diamante. Due fori si notano sui lati del reperto, probabilmente utili a fissarlo nella cavità oculare. Nella tomba della donna sono stati ritrovanti anche contenitori, perle ornamentali, un sacchetto di cuoio ed uno specchio di bronzo.

(Fonte: http://healthbolt.net/)

Abelardo: ragione e passione

''Ripresento un gigante del pensiero sul quali noi nani ci appoggiamo per vedere un po' del nostro futuro''. Cosi'il vicedirettore del Tg5, Andrea Pamparana, parla all'ADNKRONOS del suo nuovo libro Abelardo. Ragione e passione (Ancora, pp. 251, euro 16) che giovedì 1 marzo alle ore 17,30 sara' presentato dall'autore nell'Aula Paolo VI dell'Universita' Lateranense (Piazza S. Giovanni in Laterano, 4 - Roma) con gli interventi di Mons. Rino Fisichella, rettore della Pontificia Universita' Lateranense (PUL) e autore della prefazione al volume, Mons. Antonio Livi, decano della Facolta' di Filosofia della PUL e Roberto Di Ceglie, docente di Filosofia della Religione della PUL. Il libro costituisce la seconda parte di una trilogia medioevale iniziata con Benedetto. Padre di molti popoli e che si chiudera' con un volume dedicato alla figura di Bernardo di Chiaravalle, in libreria il 1 marzo del 2008.

''Il mio Abelardo -spiega Pamparana- e' molto piu' vicino a me di quanto lo sia stato Benedetto e di quanto lo sarà Bernardo di Chiaravalle. E' un uomo molto moderno, espressione piena del XII secolo, un tempo di grande luce a dispetto di quel che comunemente si racconta. Cento anni in cui riluce una grande sapienza che si distribuisce in tutta Europa anche attraverso il cammino delle universita'. Ma Abelardo -ci tiene a far notare l'opinionista de Il Tempo - e' anche un bell'uomo, ha grande charme, piace alle donne. Ed e' amato dagli studenti, che lasciano le loro case di campagna e compiendo percorsi duri corrono numerosi ad ascoltare e a disputare con il Maestro sui grandi temi dello spirito, della filosofia e della teologia''.

''Meraviglioso nelle sue contraddizioni -aggiunge il giornalista Mediaset- Abelardo ha una caratteristica peculiare: non si accontenta del gia'-dato ma vuole discutere con l'autorita'. E' padrone cioe' di una dialettica che porta con forza sia nell'arte del ragionare sia nella vita''. Quanto alla fortuna del pensatore, ''e' stato molto spesso trascurato negli studi perche' l'interesse per questa figura ha privilegiato il grande amore che lo ha legato ad Eloisa''. Di fatto i suoi Carmina amatoria sono piu' conosciuti della Dialectica, ma il maestro Palatino e' in verita' piu' filosofo che poeta.

Fonte: AdnKronos Cultura

25/02/07

Il segreto di San Miniato

Sul pavimento di marmo della basilica di San Miniato a Firenze, si trova un’iscrizione del 1207, misteriosa e variamente interpretata. Essa racchiude un segreto antico. Questo libro ne è la storia e la chiave.

Tutto accade negli anni in cui Federico Barbarossa cercava di imporre la sua egemonia sui comuni italiani e il Regno di Gerusalemme cadeva sotto i colpi del Saladino. La storia si intreccia con questi fatti e narra la storia di Yosef, giovane ebreo fiorentino, e della ricerca della misteriosa pietra in grado di dare l’eterna giovinezza e la comprensione di tutto il Creato, il mitico Graal. La vicenda cresce pagina dopo pagina, divenendo sempre più serrata, fino al finale arcano e sorprendente. Nel romanzo le vicende storiche si intrecciano vivacemente alle gesta eroiche di Yosef, all’emozionante storia d’amore che lo legherà indissolubilmente a Miriam e a fatti avventurosi e fantastici che coinvolgono il lettore grazie all’abilità dell’autore.

Renzo Manetti, nato a Firenze nel 1952, è architetto e saggista. Studioso di storia dell’architettura, di iconologia e simbolismo, ha al suo attivo 10 pubblicazioni, tra cui i recenti grandi successi Le Madonne del Parto: icone templari e Beatrice e Monnalisa. Da quasi vent’anni, la ricerca iconografica e simbolica è diventata il suo campo di indagine prevalente, con un’attenzione particolare all’influenza della filosofia platonica ed ermetica nell’architettura medievale e rinascimentale”.

Addendum
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Tra Manetti e don Giovanni Alpigiano, parroco di San Vito a Bellosguardo, c'è stata una interessante controversia rimbalzata anche sulle pagine di alcuni importanti quotidiani nazionali tra cui Avvenire. I due contendenti hanno portato argomenti ben solidi a sostegno delle loro tesi ed è obiettivamente difficile dar torto all'uno o all'altro. Don Alpigiano ha dalla sua la filologia e la storia (quella ufficiale), e Manetti il simbolismo. Una cosa però è certa: Manetti non è un qualunque Dan Brawn, ma un conoscitore arguto e profondo dell'arte sacra e del suo simbolismo più profondo. E' dunque studioso e autore che merita attenzione e rispetto. Cfr. G. Alpigiano, Madonna del parto e Girolamini. A proposito di un’ipotesi recente ("Vivens Homo", luglio/dic. 2005); R. Beretta, Quella Vergine non è Templare ("Avvenire" del 28/06/2005).

23/02/07

Medaglie per San Pietro

Le diverse fasi della costruzione della Basilica di San Pietro raccontate attraverso le medaglie emesse dai Papi tra XV e XVIII secolo, corpus principale dell'esposizione 'Tu es Petrus', mostra celebrativa per il 500° anniversario della Basilica di San Pietro che, da domani al 22 aprile, sarà allestita presso Villa Chiassi in Via Cola di Rienzo, 11 a Roma.

In occasione del cinquecentesimo anniversario della posa della prima pietra della nuova Basilica di San Pietro in Vaticano, il Medagliere della Biblioteca Apostolica Vaticana, in collaborazione con Collezioni Numismatiche di Roma, ha organizzato questa rassegna di medaglie papali, dette "architettoniche", relative alle fasi della costruzione dell'attuale basilica del Principe degli Apostoli. Nell'occasione, sarà quindi esposta la straordinaria collezione di medaglie con le quali, nel corso dei secoli, i Papi hanno annunciato al mondo ogni tappa fondamentale della costruzione di San Pietro.

"In tutto sono oltre 200 medaglie ma, ne saranno esposte 65, le più importanti e rappresentative - ha spiegato Giancarlo Alteri, direttore del dipartimento Numismatico della Biblioteca Apoostolica Vaticana e direttore scientifico della mostra - a cominciare da quella posta da Papa Giulio II nelle fondamenta, con la prima pietra, il 18 aprile 1506, per arrivare a quelle emesse durante il pontificato di Giovanni Paolo II". Tra le altre, sarà possibile ammirare le medaglie di Paolo III con il progetto di Antonio da Sangallo; quella di Sisto V con gli obelischi innalzati dal Pontefice; quella di Urbano VIII con il Baldacchino del Bernini e quella di Alessandro VII con il Colonnato e l'altare della Cattedra del Bernini.

"Con il pontificato di Papa Paolo II Barbo - ha spiegato Giancarlo Alteri - era iniziato l'uso di deporre nelle fondazioni di una importante costruzione, civile o religiosa, una medaglia raffigurante il progetto. Questo tipo di medaglie, chiamate appunto "architettoniche", iniziarono ben presto ad essere realizzate per celebrare la fine dei lavori e, quindi, l'inaugurazione dell'edificio stesso. A volte, venivano emesse con i lavori ancora in corso, per celebrare o la ripresa degli stessi lavori dopo una lunga pausa dovuta a diversi motivi, oppure ad un momento importante della costruzione. Ogni volta che, dopo un'interruzione, i lavori venivano ripresi, si coniava una medaglia. Così, nei secoli, se ne sono accumulate tante. In genere - ha proseguito Giancarlo Alteri - parlando della costruzione di un edificio, ci si riferisce a documenti cartacei, mentre qui si tratta di documenti in metallo, nati appunto come elemento celebrativo di una persona o di un fatto. Le medaglie sono quindi elementi importanti per i posteri e per la ricostruzione storica".

"La mostra ha la presunzione di tentare di accantonare l'approccio didascalico, per tentare invece di costruire un'esperienza complessa, sensitiva e anche divertente, capace di coinvolgere i visitatori - ha spiegato Michele Palazzetti, direttore generale delle collezioni Numismatiche e direttore artistico della mostra. Il nostro scopo - ha aggiunto Palazzetti - dunque, è stato quello di realizzare una mostra per celebrare i 500 anni della Basilica di San Pietro, che non è soltanto un blocco di marmo ben lavorato, cercando di dare al pubblico quello che abbiamo saputo leggere nel tempio della cristianità, costruendo un accompagnamento sonoro che potesse aiutare a predisporre correttamente il visitatore al cammino della mostra, con quel senso di smarrimento che ha coinvolto chiunque abbia lavorato alla Basilica".

Infatti, la rassegna si avvale di un originale commento sonoro, per il quale sono state coinvolte la Rai e Radio Vaticana. "La Bibiloteca Vaticana celebra quindi i 500 anni dalla costruzione della nuova Basilica di San Pietro attraverso la singolare testimonianza delle medaglie che hanno accompagnato, passo dopo passo, la costruzione della Basilica - ha spiegato Ambrogio Piazzoni, vice prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana - Il Dipartimento Numismatico della Biblioteca Apostolica Vaticana, uno dei più importanti al mondo con oltre 300.000 pezzi, comprende grandi collezioni di monete romane dell'età repubblicana e di monete e medaglie papali. A queste si aggiungono raccolte di monete greche, medievali e rinascimentali;medaglie degli Stati italiani prima dell'Unità d'Italia e, negli ultimi anni, la collezione si è arricchita di medaglie moderne vaticane, italiane e straniere".

Oltre alle medaglie, saranno esposte le opere di tre grandi scultori del Novecento: Manzù, Minguzzi e Crocetti, autori delle porte bronzee della Basilica, a testimonianza dell'impresa che ha dato alla cristianità il suo Tempio. Inoltre, dopo la prima tappa romana, la mostra si trasferirà in Russia, ospite del prestigioso State Hermitage Museum di San Pietroburgo, dove rimarrà esposta dal 18 maggio al 22 luglio.

Fonte: AdnKronos Cultura

Il Diavolo e la Storia

LA STORIA E IL DIAVOLO
Francois Fejto è uno degli ultimi grandi testimoni del secolo scorso. Aveva sei anni quando, suddito austroungarico vide scoppiare la prima guerra mondiale. Era un giovane uomo quando l'Olocausto e la Seconda guerra gli portarono via amici e parenti. Era un uomo fatto quando, fuggito in Francia, denunciava lo stalinismo e i suoi crimini e insieme al suo amico Albert Camus si batteva a favore della rivolta di Ungheria. Ora, dalla distanza siderale della sua vecchiaia, con la lucidità e l'energia per fermarsi ancora ad osservare le pieghe più recenti della caduta dell'uomo, quella dei nuovi fanatismi, integralismi, terrorismi, ha scritto del diavolo.

Ne ha scritto come può scriverne solo chi ha avuto in sorte una vita così lunga e piena, che il diavolo ha visto tante volte incarnarsi nella storia, quella grande e quella piccola, in forma più o meno pura. Che lo ha visto realizzare progetti smisurati nel loro orrore. Confondere la capacità dell'uomo di seguire la ragione e impedirgli di costruire un mondo secondo l'interesse generale. Insinuarsi nei desideri, verso i quali l'uomo è così incline, rendendoli bisogni. Impilare soldi e profitti e su questi costruire ordini sociali e povertà planetarie. Fejto ha studiato e osservato così a fondo l'opera del diavolo nel mondo e nella storia dell'uomo che è arrivato a questa conclusione: che il diavolo non esiste. Sfidando la tesi di Baudelaire secondo la quale la più grande astuzia del maligno è stata appunto di convincere tutti che non esiste, l'intellettuale ungherese sostiene che il diavolo non è altro che "un mostruoso capro espiatorio sul quale trasferire la colpa dell'aggressività e dell'odio" che abitano nel cuore dell'uomo.

Non solo. Con un lungo, lunghissimo excursus dalla figura del serpente dell'Antico Testamento al Satana tentatore di Cristo, alle ossessioni di San Paolo fino al Medioevo e alle violenze della Chiesa in nome della lotta contro Lucifero, e oltre ancora fino alle grandi ideologie del XX secolo, Fejto sostiene anche un'altra cosa. Che il diavolo spesso è servito per giustificare il silenzio insostenibile di Dio, la sua indifferenza di fronte al grido che si alza dal basso mondo degli uomini. L'idea del diavolo ha finito per limitare la responsabilità di Dio, limarne l'onnipotenza, rendere la vita dell'uomo in definitiva più sopportabile. E forse è proprio questa la sua ultima grande astuzia. Si intitola Dio, l'uomo e il diavolo (tr. it. A. Fezzi Price, Sellerio, 16 euro).

LA DONNA E IL DIAVOLO
Andatelo a dire a uno come Valerij Brjusov che il diavolo non esiste. Figlio di quella Russia che sull'uomo e sul male non ha mai smesso di interrogarsi da Tolstoj e Dostoevskij fino a Bulgakov, Brjusov ha scritto il suo capolavoro dal titolo L'angelo di fuoco, riproposto ora dopo oltre vent'anni da e/o (tr. it. C. G. De Michelis, 18 euro). Prokof'ev la mise addirittura in musica la storia di questo figlio di buona famiglia che nelle prime venti pagine racconta in un fiato quello che per molti sarebbe un romanzo a parte. Negato per gli studi, affascinato dall'avventura, si ritrova a percorrere, arruolatosi tra i lanzichenecchi, quasi tutti gli avvenimenti più importanti del XVI secolo, sacco di Roma e spedizioni nel Nuovo mondo comprese. Invece quelle prime pagine e quella prima vita nulla sono rispetto a quanto avviene dopo lo spartiacque, l'incontro con una donna. Il legame che ben presto si forma tra lei e lui lo renderà schiavo al punto da sottovalutare (e poi soccombere) il mondo in cui quella donna vive e le sue inclinazioni per l'occulto, le sue notti di tormenti, l'oscurità dei suoi amori. E il compagno invisibile che cammina insieme a lei. E così un uomo con una mente aperta, che conosce e stima il pensiero di Erasmo, Ficino e Pico, che ha visto i capolavori di Raffaello e Michelangelo, che ha saputo affrontare la vita bevendola di un fiato, si ritrova dall'altra parte dello specchio a pagare uno di quei debiti che a volte un uomo contrae per una coincidenza, una strada sbagliata, una piccola circostanza, un errore di calcolo. E non riesce più a estinguere.

L'UTOPIA E IL DIAVOLO
Coincidenza curiosa intercettata nel dialogo segreto che i libri hanno continuamente tra loro: Brjusov allude a un certo punto alla storia degli anabattisti a Munster, quando la città divenne la Nuova Gerusalemme dei seguaci di Jan da Leida. In quell'epoca fenomenale di eresie, nuovi movimenti, grandi speranza messianiche, ansia di rinnovamento spirituale che fu l'Europa della Riforma, a Munster si consumò uno degli eventi più tragici. Robert Schneider ha raccontato quella storia in Kristus, un po' romanzo un po' saggio storico (tr. it F. Porzio, Neri Pozza, 18,50 euro). Per dirla con Fejto, è un altro episodio di come il diavolo, sfruttando il silenzio di Dio e la vocazione dell'uomo a creare il mondo a propria immagine, abbia messo in piedi un regno di fame e di terrore trasformando la speranza nella giustizia e nel nuovo mondo nel solito inferno.

(Autore: Dario Olivero; Fonte: La Repubblica del 22/02/2007)

Gesuiti Rock

ROMA - Bob Dylan, Bruce Springsteen, Lou Reed, Bob Geldof, Tom Waits... Come dire, solo alcune delle più grandi icone rock amate da generazioni di giovani e meno giovani. Ma, nomi che, a sorpresa, stanno per essere "benedetti" anche da una delle più antiche e austere congregazioni religiose, i gesuiti di Sant'Ignazio di Loyola. Per il rock, quasi un ritorno in Paradiso col placet ecclesiastico, dopo che per tanto tempo era stato bollato come musica diabolica, portatrice di messaggi satanici e subliminali, da evitare - quindi - nella maniera più assoluta. Acqua passata. Dagli inferi della critica ecclesiastica per il rock sta per scoccare l'ora delle redenzione.

Il "miracolo" avverrà sabato prossimo, alle 18 nella redazione romana di "Civiltà Cattolica", in via Porta Pinciana 1, la sede della storica rivista della Compagnia di Gesù, i cui testi sono sempre approvati prima dalla Curia vaticana. Nella sala convegni della redazione, davanti ad un pubblico composto da gesuiti, esponenti del comitato scientifico della rivista, sociologi e musicologi, si svolgerà un confronto-dibattito sul tema "La musica rock e i bisogni dell'anima". Relatore principale, padre Antonio Spadaro, 40 anni, critico di letteratura contemporanea, ma anche attento osservatore delle mode giovanili, a partire dalla musica.

È la prima volta che i gesuiti dedicano un convegno al rock, ma per padre Spadaro sembra che sia "una cosa del tutto naturale, perché, spiega "è nello spirito di Civiltà Cattolica guardare anche al di là dello stretto mondo ecclesiale, per cercare di capire fenomeni e culture nuove". Per cui "è del tutto naturale dedicare un momento di riflessione anche alla musica più amata dai giovani di tutto il mondo", confessa il religioso, il quale però detesta parlare di "assoluzioni" o di "redenzione". "Ma che significa" si chiede, infatti, padre Spadaro, anticipando in parte il contenuto della sua riflessione "assolvere un genere musicale? Non c'è nulla da assolvere nel rock. Semmai c'è da valutare, al di là di assoluzioni e condanne generaliste, che non servono a nulla".

Il rock - per il gesuita - è un genere che ha in sé un enorme potere espressivo ed una storia ormai consolidata che ha origine intorno agli anni Cinquanta. È un fenomeno che va conosciuto e capito. E alcuni gesuiti ci provano col l'incontro di sabato". Non è comunque la prima volta che padre Spadaro si occupa di rock. "Ho iniziato" racconta il religioso "con Bruce Springsteen, proseguendo poi con Nick Drake e Nick Cave. Seguiranno altri interventi su altri artisti. A partire da Tom Waits".

Nega, pure, padre Spadaro che papa Wojtyla e papa Ratzinger, siano stati "avversari del rock". "Tutt'altro" ragiona il gesuita "l'idea della musica come possibile luogo di incontro con Dio è stata ben espressa da Giovanni Paolo II al congresso eucaristico di Bologna del 1977 dove, oltre a citare le parole di "Blowin' in the wind", si incontrò con l'autore Bob Dylan e con Adriano Celentano. Ma papa Wojtyla ha incontrato anche Bob Geldof e Quincy Jones". "E hanno suonato alla sua presenza, in Vaticano, tanti altri artisti", ricorda ancora il gesuita, come gli Eurythmics, Lou Reed, i Nomadi di Beppe Carletti, Claudio Baglioni e tanti altri.

"Ma oltre al rock" preannunciano a Civiltà Cattolica "ci sono tanti altri generi emergenti di estremo interesse, come il Rap e l'Hip-Hop, che in qualche caso produce della musica cristianamente connotata, come nel caso di KJ-52, ma è un fenomeno da noi poco conosciuto, per cui solo Eminem sembra l'unica icona possibile, ma non è così". E cosa rispondere a chi accusa il rock di essere musica satanica? "Sì, ci sono casi, come quello di Marilyn Manson in cui il satanismo occupa la musica rock, ma sono casi. Il rock è un fenomeno vastissimo, non facilmente etichettabile, che va capito. Ratzinger si è solo detto contrario all'uso del rock nella liturgia, ma ha ben colto il potenziale di questa musica".

(Fonte:La Repubblica, 22 febbraio 2007)

Commento:
Speriamo solo che non finisca come in Inghilterra dove ci giunge notizia che un tale reverendo Timothy Ellis, vescovo anglicano di Grantham, si sia fatto promotore di una singolare iniziativa: aggiungere ai canti in uso nelle funzioni liturgiche le canzoni degli U2. Così avrebbe dichiarato: «E’ molto importante continuare a trovare nuovi modi di preghiera e il rock può essere un veicolo di immensa spiritualità». Proprio così, «immensa spiritualità», ha detto. Strano, avevamo sempre avuto l'impressione che il rock veicolasse qualcos'altro. Ma chi lo sa, magari siamo noi a sbagliare...

22/02/07

Esperimenti Danteschi

Per chi lamenta la proverbiale apatia dei “giovani d’oggi”, gli “Esperimenti danteschi” - da poco inaugurati alla Statale di Milano - sono la giusta occasione per ricredersi. Poche e semplici le circostanze, che fanno dell’evento un unicum esemplare. Ne riconosciamo almeno tre: una Riforma Universitaria (il famoso 3+2), che ha portato alla radicale diminuzione dei programmi d’esame - dalla lettura di 100 canti della Commedia si è passati ad affrontarne solo 18/24 -, un gruppo di studenti, che di fronte all’appiattimento culturale dei nostri tempi decide di reagire, una schiera di illustri studiosi, che non esita a partecipare all’esperimento, assecondando l’irresistibile “canto delle sirene”. Dall’incontro di questi elementi ha preso, dunque, il via la terza edizione di “Esperimenti danteschi”, che fino al 30 maggio affronterà la lettura del Paradiso, con un ciclo di conferenze tenute dai massimi esperti del poeta fiorentino. L’iniziativa - come raccontano Pietro Bocchia e Luca Tizzano, fra i portavoce dell’attuale progetto -, nasce dalla passione di un pugno di studenti milanesi (Alberto De Simoni, Amborgio Camozzi e Simone Invernizzi), che nel 2005 propose a una rosa selezionata di docenti di arricchire il programma accademico con alcuni incontri pomeridiani. Il progetto, decollato fin dall’inizio con la lettura del Purgatorio e dell’Inferno, ha visto fino ad ora la partecipazione di un pubblico di oltre 5000 persone. Un’iniziativa singolare, che pur partendo dalla semplice e vivace “curiositas” di un gruppo di giovani, ha puntato fin dall’inizio a raggiungere ambiziosi obbiettivi scientifici e ha offerto a tutti la possibilità di condividere le ultime riflessioni relative alle cantiche dantesche, maturate dai più autorevoli studiosi della materia. Aperte all’intera cittadinanza e completamente gratuite le conferenze, ospitate ogni mercoledì dall’Università degli Studi di Milano, avranno come relatori professori quali Carlo Sini (ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Milano), Anna Maria Chiavacci Leonardi (che ha insegnato più di trent’anni alla cattedra di Filologia dantesca di Siena), Cesare Segre (considerato uno dei maggiori critici e filologi della storia letteraria italiana) e alcuni dei maggiori esperti internazionali come Zygmunt Baranski dell’Università di Cambridge e Robert Hollander dell’Università di Princeton. Promossa dagli “Studenti Universitari milanesi” la proposta è stata ampiamente valorizzata anche dal Comune di Milano e dall’Università. L’assessore Giovanni Terzi, attraverso l’ufficio comunale Sport-Giovani, ha, infatti, contribuito a sostenere l’evento, così come l’Ateneo che, oltre al patrocinio, ha concesso un appoggio economico indispensabile per la concreta realizzazione dell’iniziativa nell’ambito dei finanziamenti dell’ex bando 1000 lire.

Esperimenti Danteschi
Ogni mercoledì fino al 30 maggio 2007 - Ore 17.00
Università degli Studi di Milano Statale – Aula 102
Via Festa del Perdono 7, Milano
Ingresso gratuito
Per informazioni: www.esperimentidanteschi.it
email esperimentidanteschi@hotmail.it

Fonte: Sole 24Ore

Il Sangue del Redentore


Venezia - Carpaccio, pittore di storie (e di misteri), è un "pittore tanto raro e spesso non rappresentato anche in grandissime istituzioni" che tre soli dipinti riuniti fanno un felice avvenimento soprattutto se studiati, analizzati e restaurati per la prima volta in senso moderno. Questo il primo significato della mostra-dossier aperta a Venezia, fino al quattro marzo, alle Gallerie dell'Accademia (sala XXIII), con il titolo appunto "Vittore Carpaccio. Tre capolavori ritrovati". C'è da ricordare che Venezia è probabilmente la città che negli ultimi due secoli ha subito la più vasta e profonda diaspora del patrimonio culturale, per ragioni interne perché "è stata specialmente un grande centro di produzione di beni culturali", per ragioni imposte e violenze esterne durante le due occupazioni in nome di Napoleone e dell'Austria con la raffica di soppressioni di chiese e conventi. Ma il senato della Serenissima aveva cominciato nel 1768 con le soppressioni. In "Venezi altrove", l'almanacco annuale della Fondazione Venezia 2000 sulla presenza veneziana nel mondo, straordinario per le scoperte e le mille amare curiosità, Alvise Zorzi "valuta in oltre 25 mila i dipinti così sparpagliati ai quattro venti", in migliaia le sculture "in gran parte distrutte", oltre agli "ori e argenti, in gran parte fusi o ingoiati, in lingotti, dalle casse del Monte Napoleone in Milano". Per non citare manoscritti, codici e libri: nel Cinquecento Venezia era il maggior mercato librario al mondo.

Anche uno dei tre dipinti del Carpaccio in mostra, il "Sangue del Redentore", è stato sottoposto a tutte e due le esperienze di sradicamento. Per le soppressioni napoleoniche, nel 1810 è stato ritirato dalla chiesa di San Pietro Martire di Udine e conservato nel deposito demaniale della ex Commenda di Malta per poi essere sottoposto ad una trasferta non voluta a Vienna insieme "a decine di dipinti di prima qualità", dal 1838 al 1919, unendo l'occupazione austriaca alla Prima guerra mondiale. Per il Carpaccio il destino più gramo ha colpito il ciclo delle "Storie di Santo Stefano" di cui nulla è rimasto a Venezia ( un telero perduto, gli altri quattro divisi fra Brera, il Louvre, lo Staatliche Museen di Berlino e la Staatsgalerie di Stoccarda).
Le Gallerie dell'Accademia conservano ad ogni modo il maggior numero di opere di Carpaccio riunito in un museo (quindici) fra cui il "Ciclo di Sant'Orsola", nove teleri, l'unico ciclo completo in un museo. I tre dipinti in mostra erano le ultime opere di Carpaccio di proprietà delle Gallerie che avevano bisogno di un restauro. Oltre a "Sangue del Redentore" sono l'"Apparizione dei crocifissi del monte Ararat nella chiesa di Sant'Antonio di Castello" e la "Crocifissione e apoteosi dei diecimila martiri del monte Ararat". Il sintetico catalogo (Marsilio) è a cura di Giovanna Nepi Scirè, soprintendente del Polo museale veneziano, e di Sandra Rossi che ha anche diretto i restauri eseguiti dalla ditta Arlango di Vicenza.

Il merito dei tre interventi è dell'iniziativa privata, italiana e americana. Del comitato "Save Venice Inc., California Chapter"per il "Sangue del Redentore". Della Banca Intesa per l'"Apparizione", nell'ambito del mai abbastanza lodato programma pluriennale di restauri "Restituzioni", non solo in ambiente veneto e giunto alla tredicesima edizione. Per il terzo restauro, quello della "Crocifissione e apoteosi", si tratta di un gesto che commuove: il lascito testamentario di Rona (Ronnie) Goffen, la storica dell'arte che nel 2000 aveva curato insieme a Giovanna Nepi Scirè la mostra sul nuovo colore" di Giovanni Bellini alle Gallerie dell'Accademia, e scomparsa nel settembre 2004.

Il "Sangue del Redentore" (una tela di 163 per 163,5 centimetri) è firmato e datato da Carpaccio 1496 come si ricava dal cartiglio al centro della piattaforma sagomata su cui è in piedi il Cristo risorto che si appoggia alla Croce mentre dalle ferite dei chiodi e del costato schizzano fili ininterrotti di sangue, raccolti in un calice e trasformati in ostia. Viene considerato "una delle più alte figurazioni del mistero dell'Eucarestia". Il dipinto è anche intitolato "Cristo con gli strumenti della passione adorato da quattro angeli". Sono infatti gli angeli che reggono l'asta con la spugna imbevuta di aceto, la lancia del colpo al costato, i chiodi, i bastoni. Alle spalle del Cristo due angioletti reggono un drappo damascato. i lati lo sfondo si apre in due magnifici paesaggi di collina con una città e mura merlate, una chiesa, una castello che domina un bosco. Ancora, a sinistra, un cervo libero sulla strada, a destro, un cervo azzannato da un leopardo.

Non si conosce né committenza, né collocazione originaria. Nel 1773 il dipinto venne osservato nella sacrestia della chiesa di San Pietro Martire a Udine, che non doveva essere la prima destinazione. Carpaccio non è mai documentato ad Udine. Così lo sfondo che si vorrebbe uguale e o simile a chiesa e castello di Udine non è confermato "dal raffronto con le vedute attestate a fine Quattrocento". Il dipinto assegnato alle Gallerie veneziane, dal 1925 è tornato ad Udine in "deposito temporaneo" (termine burocratico che salvaguarda la proprietà), non a San Pietro Martire, ma nel Museo civico. E qui tornerà, in "deposito temporaneo" di dieci anni, rinnovabile, dopo la mostra.

Il dipinto è composto da due pezzi di tela di lino e soffriva di due piccole mancanze di tela causate da vecchie bruciature di candela. Lacune e abrasioni erano molto diffuse provocate probabilmente da "antiche incurie" e "incaute puliture". Numerose le cadute degli strati preparatori e pittorici (soprattutto sugli incarnati del Cristo e i visi degli angeli). Molti dei ritocchi erano applicati non sulle stuccature, debordanti rispetto alla mancanze, ma sulla tela. Tutto il dipinto aveva intorno una fascia di colore nero di circa tre centimetri. Le indagini hanno rivelato disegno preparatorio e piccoli pentimenti e varianti in corso d'opera come nella mano ripiegata del Cristo e sulle dita alzate di un angelo.

Se questo (e gli altri due dipinti) non avevano gravi problemi di conservazione, erano invece "molto penalizzati" nella presentazione estetica, cioè nel godimento di quello che Carpaccio aveva dipinto, per le vernici fortemente ingiallite da polveri e particellato, "vecchi ritocchi fuori tono" che "appiattivano e offuscavano gli originali valori cromatici e spaziali". Dopo il restauro incarnati, tessuti, cielo, nuvolette, mura merlate e castello appaiono luminosi e incisi nella profondità. I materiali sovrapposti sono stati alleggeriti.

Il secondo dipinto di Carpaccio ci trasporta all'interno di Sant'Antonio di Castello, la chiesa trecentesca molto vicina all'Arsenale, particolarmente cara alle nobili famiglie che avevano combattuto nelle guerre sul mare contro turchi e pirati, e distrutta insieme ad altri edifici nel 1807 durante il periodo napoleonico per creare giardini pubblici. La scena, dominata da quattro archi a sesto acuto, dovrebbe essere la processione nella navata centrale animata dalla Scuola dei Diecimila Martiri che aveva sede nella chiesa ("illustri e rispettabili cittadini nonché stimatissimi uomini di mare" che potevano fruire di particolari indulgenze papali), per ricordare la miracolosa visione avuta nel giugno 1511 da Francesco Antonio Ottoboni, priore di Sant'Antonio. Nel sogno il priore avrebbe visto i martiri, incolonnati a due a due con la corona di spine e la Croce, la lunga tunica come Cristo, che lo rassicuravano sulla salvezza del convento dal contagio della peste.

Secondo la leggenda, i martiri sono i novemila soldati romani guidati da Acazio che verso la fine del IV secolo, pure abbandonati dall'imperatore, sconfissero i ribelli armeni dopo aver invocato l'aiuto di Cristo e i mille soldati pagani che si unirono a loro nella conversione. Nonostante la minaccia dell'imperatore, ritornato vergognoso a godere del trionfo, di crocifiggerli tutti come Cristo, e attuata durante un violento temporale. L'Ararat è il nome di due monti della Turchia al confine con Armenia e Iran (sui quali si sarebbe posata l'Arca di Noè alla fine del Diluvio).
In segno di ringraziamento per la protezione dei martiri e in loro onore, un nipote del priore fece erigere nel 1512 un magnifico altare in marmo sul quale nel 1515 verrà collocata la celebre, monumentale e impressionante pala del Carpaccio, la "Crocifissione e apoteosi dei diecimila martiri del monte Ararat". Questa datazione, già variamente contestata, è stata smentita proprio dalle analisi scientifiche eseguite in occasione del restauro. Si era infatti in sospetto perché nell'"Apparizione dei crocifissi" l'altare è già montato, ma la pala, "non chiaramente leggibile nel dipinto", sembra essere una "Orazione nell'orto". Ora grazie alla riflettografia, sotto l'antica ridipintura dell'"Orazione nell'orto", "si legge chiaramente la presenza dell'impostazione generale" per la "Crocifissione e apoteosi dei diecimila martiri" che "Carpaccio avrebbe probabilmente definito in modo più particolareggiato se il nostro dipinto fosse stato realizzato in prossimità del 1515". Sandra Rossi concorda quindi sulla proposta di spostare la datazione al 1512-1513.

"L'apparizione dei crocefissi" di Carpaccio veniva considerata di "indiscusso valore storico-documentario", ma di una più modesta qualità artistica (mettendone così in dubbio l'autografia) dovuta anche ai ritocchi alterati e alla vernice ingiallita. Il restauro ha rimesso i valori al loro posto col recuperare "numerosi dettagli, che solo un grande artista come Carpaccio sarebbe stato in grado di organizzare così sapientemente in una visione d'insieme". Anche il disegno sottostante visibile nelle indagini è analogo ai risultati ottenuti con i raggi X e all'infrarosso su dipinti certi del Carpaccio.
Lo stato di conservazione dell'"Apparizione dei crocifissi" è "abbastanza buono". Un bel progresso se si pensa che nel 1809 era stato giudicato "pessimo", "in tela quasi perita". In particolare il dipinto non ha lacune significativa, ma la superficie pittorica è generalmente abrasa probabilmente per una pulitura aggressiva, la famigerata "spulitura", e le ridipinture antiche e quelle grossolane novecentesche erano estese. Sono state eliminate solo queste ultime perché così si è potuta recuperare pittura originale. Per documento sono stati lasciati due piccoli tasselli sporchi, uno in basso dove era stata corretta la prospettiva del pavimento a grandi mattonelle bianche e rosse diagonali.

La pulitura ha restituito "notevole definizione" alla cappella sotto il barco di legno che occupa la parte sinistra del dipinto. Ora si vedono le cassettine per le offerte appoggiate alla balaustra e varie sculture all'interno, la lampada di foggia orientale con globi di vetro che scende dal soffitto con lunghe funi. Sul tramezzo e sulle travi degli archi gotici sono appesi ex-voto (gambe e mani, remi, modellini e modelloni di navi, bandiere amiche o strappate al nemico). Uno "spicchio d'ombra" di natura novecentesca, aggiunto in basso a destra, è stato eliminato: era stato ottenuto per sovrapposizione di una velatura e non con un tono più scuro delle ombre originali.

Le riflettografie hanno rivelato che Carpaccio ha dipinto e poi eliminato la trave dell'arco corrispondente all'altare Ottoboni a forte sviluppo verticale, forse per dare piena visibilità proprio all'altare. Ugualmente il pittore è ri-intervenuto in tempi diversi per allungare la veste verde del martire che, accanto al portone di ingresso, invita i compagni ad avanzare. Altri due interventi dovrebbero essere successivi: tutti sono stati mantenuti. Nel rifoderare la tela che è stata rimontata su telaio estensibile, si è scoperto che "la tela originale è stata accorciata su tutti i lati di alcuni centimetri" come dimostrano le tracce di pittura sui bordi ripiegati e i segni dei chiodi. Ancora, la tela è formata da quattro pezzi di tela semplice giuntati fra loro: due a trama grossa e due a trama fitta. Una composizione che apre qualche dubbio sul livello della committenza, senza escludere che il Carpaccio abbia avuto semplicemente problemi pratici in quel momento a procurarsi una tela unica anche per tempi ristretti di consegna.

Impressionante la "Crocifissione e apoteosi dei diecimila martiri del monte Ararat" , firmata e datata da "V. Carpathius" 1515, in un cartellino in un angolo a sinistra. Il maggior numero di martiri è in primo piano, con modalità che uno non si attenderebbe. Come risolvere il problema di trovare diecimila croci fatte secondo le regole? Usando come croci i tronchi e i rami degli alberi dei boschi del monte. Ma poiché tronchi e alberi non sono fatti per questa necessità le crocifissioni si sono trasformate in giochi di equilibrismo, di contorsionismo, con mani e piedi che si devono adattare, a forza, a tronchi e rami. I corpi vengono stirati, forzati, divaricati. Ci sono martiri abbracciati ad un tronco con un chiodo addirittura infisso nella pianta di un piede. Anche i carnefici devono sottoporsi a queste scalate. Mentre il sangue cola lungo i tronchi.

Impressionante per il gran numero di figure e di azioni che il Carpaccio ha non ammassato, ma collocato ciascuno nel proprio spazio in rigorose prospettive, con attenzione "lenticolare per i dettagli", il tutto legato in un discorso che "si tiene". E con la gioia visiva, luminosa, incisa, ottenuta dal restauro fra i bianchi dei corpi nudi e dei turbanti, i rossi delle vesti, il verde leggero e cupo delle chiome degli alberi, l'azzurrino dei rilievi in lontananza, il grigio delle nuvole. Dei tre dipinti è il meglio conservato e il "più elaborato dal punto di vista della tecnica pittorica, probabilmente perché opera matura e realizzata per una committenza prestigiosa".

Giorgio Vasari ha scritto: "Fece meglio che trecento figure, fra grandi e piccole: ed inoltre, cavalli ed alberi assai, un cielo aperto, diverse attitudini di nudi, e vestiti molti, scorti, e tante altre cose; e si può vedere che egli non la conducesse se non con fatica straordinaria". E anche gli altri artisti non rimasero insensibili. Sandra Rossi ci ricorda che alle Gallerie si conserva una tavola del 1540 del Tintoretto, copia della parte inferiore della "Crocifissione e apoteosi" (la parte superiore è andata perduta). Non sappiamo se veramente sono trecento le figure, ma tutta la superficie, un'unica tela di lino alta più di tre metri (3,10) per 2,47, è piena di scene alle quali Carpaccio si è preparato con un ricco disegno sottostante, come hanno rivelato le indagini scientifiche (insieme ad una serie di pentimenti).

Glissando sul fatto che i martiri furono crocifissi durante una violenta tempesta (rappresentata da un po' di nuvolaglia), Carpaccio ha riunito su vari piani almeno quattro momenti. In primissimo piano, sul lato destro, probabilmente Acazio e gli altri comandanti dei legionari sono davanti all'imperatore e a re pagani a cavallo, dagli alti turbanti e un folto seguito che innalza la Mezzaluna. Acazio è inginocchiato a voler riconoscere l'autorità dell'imperatore, ma deve ubbidire ad un altro re celeste. E l'imperatore lo minaccia con lo scettro. Un comandante addita l'imperatore ai compagni, ma un altro punta l'indice decisamente al cielo, per indicare il loro nuovo imperatore. Sulla sinistra, il nucleo delle crocifissioni, sparse anche sulla destra. Sullo sfondo, fra boschi e laghi e rilievi, lo scontro armato fra legionari e ribelli. Sospesa su questa scena, quasi premonizione della "Città celeste" che attende i martiri, una collina sulla quale calano gli angeli che accompagnano i legionari alla crocifissione. A coronamento del tutto c'è una bellissima invenzione di Carpaccio. I cieli concentrici, in prospettiva e quindi in ellisse schiacciatissima. Una immagine che sarebbe piaciuta a Stanley Kubrick per "2001. Odissea nello spazio".

Secondo Sandra Rossi, la pala "accoglie eco della più aggiornata cultura contemporanea" (Dürer, Michelangelo, Bosh) "ed è un fondamentale capolavoro introduttivo al 'proto-manierismò del Cinquecento veneziano".
Quando si parla delle Gallerie dell'Accademia ci si chiede sempre quando ci saranno le "Grandi Gallerie" (anche quando ci saranno la "Grande Brera", i "Grandi Uffizi", la "Grande Barberini"). Allora la superficie di 5.850 metri quadri in cui sono esposte 400 opere, passerà a undicimila metri quadri per 700 opere più altri mille metri quadri di servizi al pubblico per farne un museo moderno. La persona giusta per la risposta è Renata Codello, architetto, soprintendenza ai beni architettonici e del paesaggio di Venezia, progettista e direttore dei lavori, che ha coinvolto nell'allestimento Tobia Scarpa, nipote di Carlo Scarpa la cui impronta segna tuttora la Gallerie dagli anni Cinquanta. La fine dei lavori di cantiere (cominciati nel marzo 2005) era prevista entro fine 2008, sarà entro il luglio 2009. Renata Codello osserva che il progetto di trasformazione è cominciato prima dell'istituzione del Polo museale che ha un regime economico-amministrativo diverso dalla soprintendenza, non certo più favorevole. In più si è scelto di mantenere aperte le Gallerie durante i lavori e questo non li ha facilitati. Pareti, impianti di illuminazione, eccetera, verranno consegnati pronti "per poter appendere i quadri". Il progetto di allestimento vero e proprio è stato avviato di pari passo da Giovanna Nepi Scirè insieme ad un vasto programma di restauri di cui i tre Carpaccio in mostra sono un esempio. I tempi per l'apertura al pubblico dovrebbero quindi essere contenuti.

Nelle "Grandi Gallerie" sarà rappresentato il meglio della pittura veneta, dal Trecento, da Nicolò di Pietro, all'Ottocento, ad Hayez. Non ci sarà un raddoppio esatto delle opere visibili perché saranno finalmente esposti dipinti del Seicento, periodo che praticamente non è rappresentato. Sono dipinti anche di grandissime dimensioni, tre-quattro metri quadri di superficie, ora nei depositi. I soldi ci sono e disponibili (23 milioni 930 mila euro). Al ministero per i Beni e le attività culturali sono stati chiesti altri due milioni di euro per opere collaterali (pavimentazione del chiostro palladiano con i vecchi masegni o con il nuovo cotto a spina di pesce, illuminazione esterna, un tipo di arredi per caffetteria, eccetera).

di Goffredo Silvestri

Notizie utili - "Vittore Carpaccio. Tre capolavori ritrovati". Dal 27 gennaio al 4 marzo. Venezia. Gallerie dell'Accademia (sala XXIII). Dorsoduro.
Orario: lunedì 8,15-14; da martedì a domenica 8,15-19,15.
Biglietti: ordinario 6,50 euro, cumulativo 9,50 (per Gallerie dell'Accademia, Cà d'Oro, Museo d'arte orientale). Infoline 041-5200345.

Fonte: La Repubblica

21/02/07

Il Meraviglioso e la Gloria

L'iconografia religiosa elaborata alla luce dei precetti diffusi nel XVII secolo e' raccontata attraverso 74 opere, tra dipinti, terracotte e acqueforti, nella mostra "Il Meraviglioso e la Gloria. Grandi maestri del Seicento in Europa" che, dal 17 marzo al 10 giugno, sara' allestita a Palazzo Bonaguro a Bassano del Grappa. Nell'occasione saranno esposti capolavori di Bernini, Reni, Ribera, Carracci, Rubens, Guercino, Pietro da Cortona, Johann Liss, Federico Barocci, Leandro Bassano, Alessandro Algardi e Caravaggio, per proporre un racconto per immagini del rinnovato misticismo.

Nel Seicento l'arte torna ad essere strumento privilegiato nella comunicazione e nella trasmissione degli ideali religiosi: la Chiesa, rinnovata e rafforzata dopo il Concilio di Trento, costituisce ancora uno dei massimi committenti d'opere d'arte e, quindi, attiva finanziatrice e promotrice di opere che testimonino il messaggio positivo di cui essa e' portatrice: arte, quindi, come strumento di formazione per il fedele. I piu' grandi artisti del tempo si misuararono con le tematiche riguardanti estasi mistiche e apparizioni, creando dipinti e sculture destinate a corredare i grandi apparati scenici delle chiese.

L'esposizione, che vanta la cura di Sergej Androssov, responsabile delle collezioni dell'arte figurativa occidentale dell'Eremitage; Francesco Buranelli, direttore Musei e Gallerie Pontificie e Mario Guderzo, direttore assessorato Attivita' Culturali di Bassano del Grappa, e' resa possibile grazie alla collaborazione di due importanti istituzioni museali, quali i Musei e le Gallerie Pontificie e il Museo Statale Eremitage di San Pietroburgo, dal quale giungono anche importanti nuclei di opere, che si affiancano ai prestiti dei tanti musei e collezioni private.

Fonte: adnKronos Cultura

20/02/07

2036: un asteroide ci colpirà?

La notizia che l’asteroide denominato Apophis (già noto come 2004 MN4) avrebbe potuto colpire la Terra nel mese di aprile del 2036 (il 13 aprile per essere esatti, cioè proprio il giorno di Pasqua), l’avevamo avuta già nel dicembre 2005. In verità, la scoperta risale al 19 giugno 2004. Inizialmente si era calcolato un possibile impatto col nostro pianeta nel 2029, ma calcoli più precisi hanno spostato l’anno al 2036. Proprio il 13 aprile 2029 Apophis passerà a 36.360 km dalla Terra e sarà facilmente visibile a occhio nudo. Questo passaggio altererà la sua orbita, in un modo che a quell’epoca si potrà valutare se effettivamente pericoloso per il nostro pianeta (la sua orbita potrebbe entrare in risonanza con quella della Terra). Per quanto riguarda il rischio d’impatto, la scala Torino classifica Apophis al valore 1 (molto basso, ma non zero), mentre la scala Palermo al valore –1,35. I valori della scala Torino vanno da 1 a 10 e valutano la probabilità e l’energia d’impatto. La scala Palermo è logaritmica (il rischio 2 è pertanto cento volte maggiore del rischio 0) e tiene anche in considerazione le date del possibile impatto: i valori minori di –2 si riferiscono a eventi con praticamente nessuna conseguenza, quelli tra –2 e 0 indicano situazioni che meritano attenzione, infine quelli maggiori di zero sono associati a eventi preoccupanti.
Andrea Carusi, presidente della Spaceguard Foundation, ha detto che un'eventuale missione per modificare la traiettoria di Apophis dovrebbe essere pianificata ora. L'impatto infatti potrebbe essere terrificante, pari alla potenza di 65 mila bombe atomiche come quella esplosa su Hiroshima. Viene solo il sospetto che se ne parli ora e in termini così drammatici con il solo scopo di far aumentare i finanziamenti destinati alla ricerca spaziale, dietro la quale, lo si sa, si celano compiti e progetti di carattere militare.

Arte Sacra alle Porte di Roma Domus Dei

La committenza religiosa non e' affatto assopita, anzi: dopo un periodo di ''poverta' estetica'', la Chiesa riscopre l'arte anche grazie agli interventi che videro papa Paolo Giovanni II in prima linea nella critica alla qualita' dell'architettura dei nuovi luoghi di culto. Interprete di questa nuova filosofia che punta sul valore artistico delle opere per avvicinare gli uomini a Dio attraverso la bellezza, e' la Domus Dei, i laboratori d'arte riuniti che si occupano di realizzare opere d'arte sacra, mantenendo in vita antichi mestieri che altrimenti andrebbero perduti, assicurando la formazione delle nuove generazioni e stimolando la creativita' soprattutto dei giovani artisti, alla ricerca di linguaggi e stili innovativi.

Questa vera e propria fabbrica d'arte ha il suo cuore pulsante alle porte di Roma, nella zona industriale di Cecchina di Albano Laziale, dove le suore della Congregazione Pie Discepole del Divin Maestro, vere e proprie vestali dell'arte e, soprattutto, architetti, storici dell'arte e artiste esse stesse, gestiscono dal dicembre del 2006 l'azienda fondata nel 1963 dalla famiglia Del Monte.

''A quanto ha comunicato monsignor Mandara, segretario dell'Opera Romana per la Preservazione della Fede e la Provvista di nuove chiese in Roma, entro il 2009 solo nella Capitale sorgeranno dieci nuove chiese e saranno giovani artisti a farsi interpreti di questa rinascita anche artistica dei luoghi di culto - ha spiegato Massimiliano Del Monte all'Adnkronos Cultura - Se prima l'arte sacra aveva lo scopo di educare attraverso le immagini, oggi l'obiettivo e' chiaramente diverso: lo scopo e' di incontrare Dio nella bellezza attraverso la realizzazione di vere e proprie opere d'arte, affidandole ad artisti totalmente autonomi, liberi di esprimersi attraverso il proprio stile e ognuno con la propria spiccata identita', ai quali rivolgerci di volta in volta''.

Fonte: AdnKronos Cultura

17/02/07

Razza ariana, il piano segreto

Nel suo Mein Kampf, il futuro Führer sosteneva: «tutta la cultura umana, tutte le realizzazioni artistiche, scientifiche e tecnologiche che abbiamo davanti a noi sono quasi esclusivamente il risultato dello spirito creativo degli ariani». Così Hitler, conferendo a quelli che riteneva i nobili antenati dei tedeschi moderni - un'immaginaria antica "razza" di donne e uomini alti e biondi provenienti dal Nord Europa - ogni superiorità (e segnandone l'abissale distanza da quella che considerava invece la "razza" inferiore: quella degli ebrei "parassiti" e "distruttori di cultura"). Prive ovviamente di qualsiasi barlume di fondamento (e non staremo a scomodare i tanti ebrei scienziati vincitori di Nobel tra il 1901 e il 1939, da Einstein a Loewi), le deliranti tesi hitleriane furono fatte proprie soprattutto da Heinrich Himmler. Lui, il suo "braccio destro", nominato già nel '29 capo delle Ss all'inizio ben lungi dall'essere la terribile organizzazione che tutti sappiamo (per un po' ebbe anche lo scopo di vendere gli spazi pubblicitari sul quotidiano del Partito Nazista Völkischer Beobachter) - ad avvertire il fascino perverso di queste idee. Lui, Himmler, appoggiandosi su questo inesistente passato, a creare, nel 1935, un elitario e ben dotato istituto di ricerca dal nome tedesco piuttosto oscuro: l'Ahnenerbe (che significa "Eredità ancestrale") in stretta connessione con il Dipartimento delle Ss per la Razza e il Popolamento (RuSHA). Diretto da Wolfram Sievers, delle Ss, e presieduto dall'archeologo Hermann Wirth (cui subentrò poi il collega Walther Wust), questo braccio "accademico" dell'apparato nazista ebbe subito una doppia missione: scoprire prove archeologiche sugli antenati dei tedeschi (risalendo sino al paleolitico) e diffondere queste scoperte in Germania attraverso pubblicazioni e conferenze "scientifiche" (spesso su prove false in grado di supportare le idee razziali).
Otto le spedizioni realizzate prima della guerra attraverso l'Europa (sui siti rupestri della Svezia, della Francia, della nostra Val Camonica), ma anche l'Asia (dai templi dei Parti in Iraq sino ai monasteri del Tibet). Altre quattro quelle pianificate - in Iran, alle Canarie, sulle Ande sudamericane e in Islanda - e rinviate al deflagrare della guerra quando l'Ahnenerbe si vide assegnare altre missioni segrete. In una di queste, la follia varcò ogni limite: l'istituto moltiplicò orrendi esperimenti su soggetti umani per pretesi studi razziali e ricerche abominevoli furono usate per alimentare e giustificare l'Olocausto. Un passaggio spaventoso ben messo in evidenza nel nuovo libro di Heather Pringle tutto dedicato alla vicenda dell'Ahnenerbe (Il Piano occulto. La setta segreta delle Ss e la ricerca della razza ariana): un'opera densa che esce in libreria la prossima settimana e nella quale la nota saggista canadese ci indica quanto basta per rileggere una storia spesso solo associata a pura ciarlataneria o sciocco misticismo, ma che, in realtà, ebbe un ruolo non secondario nei piani himmleriani per lo stato nazista.
Le spedizioni promosse dal Reichsführer-Ss, spiega l'autrice, non dovevano solo impossessarsi di un passato lontano, ma impadronirsi del suo futuro. «Himmler, l'architetto della Soluzione finale», sostiene la Pringle, «aveva in mente di usare uomini alti e biondi delle Ss e donne selezionate per rigenerare in modo scientifico una stirpe ariana pura. Con la conoscenza raccolta dagli scienziati dell'Ahnenerbe, intendeva indottrinare le Ss al sapere, alla religione e alle pratiche di coltivazione delle antiche tribù germaniche, istruendoli a pensare come i loro antenati…». E per raggiungere questo scopo, era disposto a sacrificare le vite di milioni di persone. Gli ebrei, ma non solo. Si pensi al caso degli omosessuali. La semplice ipotesi che già i germani dell'età del ferro giustiziassero i membri della tribù accusati di omosessualità forniva a Himmler il tipo di giustificazione ricercata. «Gli omosessuali furono annegati nelle paludi», affermò al pubblico di Ss a Bad Tölz nel '37. Subito dopo moltissimi di quelli del suo tempo finirono in prigione, e almeno quindicimila - invece - nei campi di concentramento: sulle uniformi triangoli rosa per contraddistinguerli dagli altri. La loro sorte? La castrazione, esperimenti indescrivibili, la morte.
Sono molte le pagine che invitano a riflettere in questa ricostruzione monumentale che ha alla base l'esplorazione di una ventina di archivi tedeschi, tra i quali il Bundesarchiv di Berlino, ma anche in Norvegia, Finlandia, Svezia, Polonia, Gran Bretagna, Islanda e Russia. Una paziente ricerca accompagnata dalla caccia agli ultimi testimoni: inevitabilmente riluttanti. Sostando su alcuni fatti, come la ricerca segreta di Bruno Beger sull'identificazione dei tratti fisici degli ebrei culminata in uno dei più famigerati crimini del '900 (la Collezione di scheletri di ebrei, con migliaia di crani umani e di maschere mortuarie in gesso oggetti di business) si resta sconvolti. Vien da dire: ecco Satana. E invece i carnefici erano uomini. Come i tanti nominati in questo volume: capaci di varcare ogni limite di crudeltà, ogni confine morale, insensibili al grande Male che respiravano. Perché? Come fu possibile? Le domande non cessano di tormentare. Scrive Pringle: «Benché molti storici abbiano scritto delle tremende conseguenze di tali mancanze personali nel III Reich, credo che il terribile potere della scienza, e il modo in cui fu manipolata per giustificare alcune delle peggiori atrocità dell'Olocausto, sia un elemento ancora poco conosciuto di questa storia... Non possiamo permetterci di dimenticare questa lezione».
(Fonte: Avvenire del 17/02/2007; Autore: Di Marco Roncalli. Heather Pringle, Il Piano occulto La setta segreta delle Ss e la ricerca della razza ariana, Ed. Lindau.)

15/02/07

L'occhio nel cielo

L'ha realizzata qualche giorno fa il telescopio spaziale Spitzer.

(Fonte: http://www.nasa.gov/images/content/169141main_piaa09178.jpg)

La Passione dipinta

La grande tavola dipinta da Giovanni Baronzio, maestro riminese del '300, raffigurante ''Sei storie della Passione di Cristo'' e' stata recuperata al patrimonio della Citta' di Rimini. Si tratta di una delle piu' importanti acquisizioni degli ultimi decenni. La presentazione pubblica dell'opera avra' luogo domani alle 17,30 a Castel Sismondo a cura di Antonio Paolucci, storico dell'Arte e gia' Ministro per i Beni Culturali. L'opera, di cui esiste una tavola gemella raffigurante ''Storie di Cristo post mortem'' (custodita presso la Galleria Nazionale di Arte antica a Palazzo Barberini di Roma), proviene probabilmente da un polittico smembrato raffigurante l'intero ciclo pasquale e quindi sicuramente completato da un pannello centrale che rappresentava la scena della Crocifissione, attualmente disperso o non identificato.

Le due tavole furono pubblicate per la prima volta da Federico Zeri nel 1958, e sono da allora note come ''Dossale Corvisieri'' dal nome della collezione romana di cui facevano parte fin dall'Ottocento. La seconda tavola, entrata a far parte delle collezioni dello Stato a Palazzo Barberini, la tavola delle ''Sei storie della Passione'', era stata acquisita nella collezione Marzotto di Valdagno e, messa in vendita in tempi recenti, e' stata ora comprata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini e assicurata al patrimonio artistico del territorio riminese, al quale anticamente apparteneva.

Pare infatti, da ricerche d'archivio, che il Dossale provenga dalle soppressioni napoleoniche che colpirono la Chiesa di Santa Croce dei Francescani di Villa Verrucchio. Il soggetto del dipinto fa supporre che costituisse la Pala dell'altare principale dedicato appunto alla Santa Croce e alla Passione di Cristo. L'opera rimarra' esposta a Castel Sismondo dal 16 febbraio al 17 marzo, unitamente alla tavola gemella, prestata in via eccezionale dalla Galleria di Palazzo Barberini.

(Fonte: AdnKronos Cultura; Immagine: La dormizione della Vergine)

13/02/07

Intervista a Marco Vannini


Come si accorse di essere particolarmente chiamato all'esperienza ed all'approfondimento del misticismo?

Non credo che vi sia una "chiamata" all'esperienza mistica. Penso che quello che si chiama, abbastanza equivocamente, misticismo, non sia altro che l'esperienza dello spirito, ovvero l'esperienza della realtà più vera e profonda dell'uomo: qualcosa che ciascuno di noi è "chiamato" a compiere, se vuole diventare quello che realmente è. Certo questo esige una precisa volontà di non accontentarsi del relativo, di muoversi verso l'Assoluto - dunque una forte esigenza religiosa e filosofica - , ma questa mi pare anch'essa qualcosa di assolutamente "normale", anche se, forse, non lo è da un punto di vista diciamo così statistico.

Come avvenne il suo incontro con Meister Eckhart?

Ho incontrato Eckhart da ragazzo, studente ginnasiale, nel corso di letture personali disordinate, ma alle quali devo molto di quel poco che so. Trovai in una biblioteca pubblica fiorentina l'antologia a cura di Faggin, La nascita eterna, e rimasi colpito, in particolare dalla lista delle proposizioni censurate. Quello fu l'inizio di un amore che - devo dire - non si è mai interrotto, e che mi ha fatto attraversare indenne i vari "ismi" della seconda metà del Novecento, nonché le varie "crisi" del nostro tempo.

Esiste un rapporto tra l'evidente bisogno di spiritualità, che emerge oggi, seppure in forme confuse ed immediate e la necessità di superare il limite del "Cristo solitario" cui lei fa riferimento?

Anche in questo caso bisognerebbe prima intenderci bene sui significati da dare alle parole. Credo comunque di poter dire almeno questo: che la crisi della religione tradizionale ha aperto quella spaventosa afflictio animarum di cui già parlava Jung, e che oggi si cerca di curare con metodi a mio parere assolutamente non all'altezza della malattia. Essa non è infatti altro che la perdita di Dio, e solo il ritrovamento di Dio può costituire la cura. In questo senso la cristologia eckhartiana (ma non solo!) del Logos che si genera nell'anima, è quella più adeguata.

Ci può commentare questo passo di Eckhart tratto dai "Sermoni tedeschi"? "Vi sono due specie di nascita dell'uomo: una nel mondo e l'altra fuori dal mondo, ovvero per giungere spiritualmente in Dio. Vuoi sapere se è nato il tuo bambino e se si è spogliato, ovvero se tu sei stato fatto Figlio di Dio? Finchè hai dolore nel tuo cuore per qualche cosa, fosse anche per il peccato, il tuo bambino non è nato."

La frase proposta, come molte altre simili dei Sermoni tedeschi ("se in te è nato il Logos, non ti turbi neanche vedendo uccidere tuo padre e tutti i tuoi amici") esprime in modo efficace quella esperienza del distacco, ovvero della grazia, di cui è costituente essenziale il non pensare il male, il riconoscere sempre la bontà dell'essere. Si tratta probabilmente del tratto caratteristico più marcato della mistica che è anche filosofia e viceversa, da Eraclito a Simone Weil, come ho cercato di mostrare nel mio Il volto del Dio nascosto, ovvero di quell'amor fati teorizzato dagli stoici e che è poi passato nella migliore tradizione cristiana, proprio attraverso l'equazione Cristo=Logos.

E' possibile parlare di una "filosofia cristiana"?

Penso che sia possibile parlare di "una filosofia cristiana" purchè la si intenda nel senso in cui la potevano intendere i Padri della Chiesa greca, Origene o il Nisseno. Certamente il cristianesimo, in senso forte, è esso stesso filosofofia, ma non perchè ci sia una filosofia cristiana ideologicamente collocata accanto ad altre, ma perchè la vita del cristiano in quanto tale è profondamente "filosofia". L'espressione "filosofia cristiana", dunque presa in un certo senso, non mi disturba affatto, proprio perchè credo che il cristianesimo sia la vera filosofia, fermo restando il valore universale e assoluto dato a entrambi i termini, cristianesimo e filosofia.

Come coesistono in lei filosofia e teologia?

Fin dall'età della ragione ho provato un certo amore e un certo interesse per le tematiche intimamente filosofiche e teologiche, secondo l'interpretazione hegeliana per cui la filosofia ha in comune con la religione l'assoluto.

(Autrice: Agnese Galotti)

12/02/07

Leopardi religioso

E' lecito parlare di religione nell'opera di Giacomo Leopardi, anche se il grande poeta di Recanati e' stato spesso dipinto dalla critica unicamente come l'assertore del nulla e dell'''infinita vanita' del tutto''. Nel pensiero di Leopardi Dio e' sempre presente anche se non lo riconosce oppure non lo nomina affatto. Lo afferma padre Ferdinando Castelli, critico letterario della Compagnia di Gesu', autore di un articolo che uscira' sul prossimo fascicolo della rivista ''La Civilta' Cattolica''.

Sulla scorta di due volumi di don Divo Barsotti, teologo e scrittore fiorentino morto nel 2006 all'eta' di 92 anni, padre Castelli condivide il giudizio che vuole quella di Leopardi ''una religione priva di contenuto dogmatico, dunque priva di Gesu'''. Eppure, negli idilli Leopardi mostra ''l'aspirazione a una realta' trascendente; cio' che la vista provoca, il silenzio indica e il ricordo suscita e' l'esistenza di un altro mondo che attrae tutta l'anima a se' e gia' in qualche modo misteriosamente si fa presente nel cuore''. Di qui il carattere ''eminentemente religioso, piu' che filosofico'' del pensiero leopardiano. Dio dunque, nell'analisi di padre Castelli, rimane il soggetto della poesia e del pensiero di Leopardi ''perche' tutto in lui rimanda a quello che e' oggetto e fine del desiderio, tanto piu' presente e vivo, dolorosamente, quanto meno e' creduto, quanto e' piu' negato''.

Se nei ''Canti'' e nelle ''Operette morali'' e' vano trovare un'adesione a Dio, nell'epistolario questo rapporto e' ricorrente, soprattutto nelle lettere al padre Monaldo. Il poeta ringrazia Dio per la salute, spera che Dio gli dia la possibilita' di rivedere i suoi, lo chiama a testimone di quanto dice, si rassegna alla sua volonta'. ''Nella lontananza infinita di Dio, il poeta senti' che la sua parola si perdeva soltanto nel silenzio'', scrive Barsotti, e la sua religione divenne rivolta. Contro chi? Contro l'autore dell'empieta' della natura, responsabile del dolore del mondo e dell'umiliazione dell'uomo. Non e' il Dio della rivelazione cristiana, non e' la natura, non e' un fantasma, poiche' l'ansia d'infinito e' reale, come reale e' l'aspirazione all'immortalita'. E' Dio? Chi e' Dio? Di fronte a queste domande, afferma tuttavia padre Castelli, ''Leopardi resta muto''.

Fonte: AdnKronos Cultura

10/02/07

Arte e Teologia

Un dialogo tra l'arte e la teologia, tra la ricerca del bello e quella della verita' verra' instaurato tra Massimiliano Finazzer Flory e Monsignor Gianfranco Ravasi, uno dei maggiori teologi ed esperti biblisti, al Teatro Eliseo di Roma, ingresso libero, lunedi' 12 febbraio alle 17.30. Attraverso una studiata e selezionata proiezione di immagini pittoriche di opere della collezione della Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, si affrontera' il tema della meditazione come esercizio e pratica di una sfida al tempo, ma anche come trasgressione.

Prendendo spunto da Breviario laico, l'ultima pubblicazione di Monsignor Ravasi che raccoglie ''riflessioni che non richiedono ciascuna piu' di tre minuti di lettura'' si invitera' il pubblico a provare il gusto della ''meditazione''. Una parola ''ormai obsoleta e forse alonata di incenso per molti - commenta Monsignor Ravasi- che in realta' e' l'appello a ritrovare quella coscienza che abbiamo ormai sepolto sotto pesanti strati di superficialita' e banalita', di vacuita' e persino di volgarita'''.

Fonte: AdnKronos Cultura

08/02/07

Fine del progetto PEAR

Un sistema fisico può comportarsi in modi diversi a seconda della conoscenza che ne ha l'osservatore! E' l'assunto su cui stava lavorando da oltre 30 anni la prestigiosa Università di Princeton con il progetto PEAR. Si voleva studiare in sostanza se la coscienza umana e la forza di volontà avessero o no influsso sulla realtà fisica. Ma a Princeton hanno detto basta ed entro marzo si chiude "baracca e burattini". Peccato! Qualcosa di interessante stava gradualmente emergendo, ma la Scienza ufficiale è spietata contro chi studia l'intangibile. E dunque: addio Pearl. Chi volesse dare un fuggevole sguardo a teorie e risultati può ancora farlo qui:
http://www.princeton.edu/~pear/
http://www.ipotesi.net/ipotesi/links.htm
prima che qualcuno provveda a cancellare ogni traccia.

06/02/07

Alexandre Micha

Parigi, 5 febbraio 2007- Lo storico della letteratura francese Alexandre Micha, illustre studioso del Medioevo ed in particolare del ciclo di Re Artu', e' morto a Parigi all'eta' di 102 anni. Professore emerito dell'Universita' della Sorbona a Parigi, Micha ha legato la sua fama all'edizione critica dei romanzi arturiani ed anche all'indagine filologica e critico-letteraria delle piu' importanti opere della letteratura francese ed italiana del Medioevo e del Rinascimento.

Alexandre Micha pubblico' il suo primo studio sui manoscritti di Chretien de Troyes, che ha tramandato il ciclo piu' completo dei romanzi di Artu', nel 1939 e da allora ha dedicato quasi 60 anni della sua vita a studiare tutte le edizioni del romanziere francese medievale. Nel 1993 lo studioso ha pubblicato la raccolta completa delle sue ricerche sul ciclo arturiano di Lancillotto e il Graal.

Micha ha indagato anche sulle origini della poesia dei trovatori provenzali e ha dedicato decine di saggi alla poesia amorosa medievale. Lo studioso francese si e' interessato anche della poesia italiana delle origini, di Dante Alighieri e di Francesco Petrarca.

(Fonte: Adnkronos)

04/02/07

Angeli e spiriti mediatori

Nell’ultimo decennio del XX secolo, il paesaggio culturale europeo si è visto protagonista di un notevole aumento di pubblicazioni riguardanti gli angeli. Si trattava, per una larga parte, dell’effetto di una moda editoriale d’oltreoceano, portata dalla corrente della “New Age”, movimento sincretico e neospiritualista che si riteneva rispondesse alle aspirazioni di un’umanità in cammino verso la famosa “era dell’Acquario”, terra promessa di una nuova età dell’oro. Tra racconti di apparizioni celesti in punto di morte, rituali d’invocazione dei nomi ebraici degli angeli, manuali neo-cabalistici con la pretesa di portare ad una migliore conoscenza di sé e dell’avvenire, e confessioni del tipo “il mio angelo guardiano esiste, io l’ho incontrato”, il lettore non sapeva più come orientarsi. Si era arrivati fino al punto di proporre cicli di conferenze: “come portarsi al livello del proprio angelo…”, o di seminari che si riteneva permettessero al quadro stressato di dialogare con il proprio angelo, e di seguire i suoi giudizievoli consigli… al fine di “ottimizzare la propria forma”, senza alcun dubbio per la più grande felicità dell’impresa. Come sempre, quando nasce un neo-spiritualismo, tutto si riveste di colori angelici : la ricerca di poteri magici ed occulti, l’astrologia attraverso gli angeli planetari, il simbolismo dei colori, le medicine dolci, ecc. Il successo di questa moda fu tale che gli angeli sono stati utilizzati per molti anni come materiale per la letteratura, il cinema, la pubblicità, l’alta moda o l’industria del profumo, invadendo i manifesti pubblicitari e le pagine dei giornali. Che cosa resta di tutto questo? Non molto, grazie a Dio, com’è vero che quanto è sincretico e composito non può durare e che ogni tipo di bricolage intellettuale ha in se stesso la propria fine.
Rimane il fatto che l’ “angelofilia” della fine del XX secolo sia stato un fenomeno socioculturale singolare, che rinvia alla nostalgia e alle attese dell’uomo contemporaneo, perduto in un universo che sta lasciando ed un altro che non c’è ancora: nostalgia di un universo spirituale popolato di creature luminose, pure e buone, nostalgia di un mondo “incantato”, disseminato di Assoluto; attesa di figure mediatrici capaci di elevare l’anima, di venirle in aiuto, di liberarla dalle tenebre di questo mondo, di guidarla sul cammino della conoscenza e, all’occorrenza, di intercedere in suo favore. Gli angeli hanno spesso preso il posto di un Dio dato per morto o per scomparso, un Dio la cui immagine si è confusa e di cui non si sa più bene né chi sia né che cosa faccia.
Infatti, questo ritorno dell’angelo non ha rinviato ad alcun Dio, ad alcuna tradizione rivelata, si è più spesso presentato come assolutamente slegato dal presupposto biblico o coranico, se si esclude quanto preso a prestito dalla cabala giudaica e dalle scienze occulte. Insieme al primato accordato all’esperienza dell’incontro con l’angelo, questo approccio è stato rafforzato dalla fioritura di una iconografia che privilegiava l’immagine greco-latina dell’efebo svestito o del bimbo alato. Il vuoto dottrinale e il bricolage sincretico caratteristici “della New Age” hanno fatto apparire l’angelo come una forma pura, un involucro suscettibile di essere riempito con le aspirazioni ad una vita “altra” e ad una conoscenza spirituale. Non è più la Rivelazione che dona a quest’ultima il suo senso, ma l’individuo che la costruisce a sua misura. Ne risulta una temibile ambiguità: sulla forma angelica possono proiettarsi tanto fantasmi e volontà di potenza quanto aspirazioni autentiche. Gli angeli sono stati a volte addirittura assimilati agli extra-terrestri o ai “superiori sconosciuti”…
Il bisogno ben comprensibile di un mondo popolato di essere di luce, attenti all’uomo, è come l’inverso positivo della bassezza delle anime, della malinconia diffusa, di un mondo contemporaneo di cui si teme confusamente la fine disastrosa. Ma l’aspirazione alla vita celeste, alla protezione spirituale, alla conoscenza vera, non è evidentemente sufficiente a restaurare una prospettiva tradizionale, e ancor meno un’angelologia.
È giunto quindi il momento di riprendere in esame la figura angelica, rimettendola al suo posto, cioè nella struttura religiosa da cui essa dipende, rivelandone le ricchezze spirituali ed i valori intellettuali. Non è forse urgente cambiare la visione del mondo, rendere alla Realtà tutto il suo spessore, la sua complessità ed il suo mistero, ricucendo i legami rotti tra l’uomo ed il divino?
(Autore: Pierre Lory)

03/02/07

Escono l'epistolario di Gabriele D'Annunzio e la ricostruzione dell'amicizia che lo legò al medico Antonio Duse.

Quali sono i più grandi epistolografi della nostra letteratura? Petrarca, Tasso, Leopardi forse Foscolo. E certo D'Annunzio, non solo per la quantità delle sue missive, che riempiono bauli, ma per la qualità sempre felice e sorvegliatissima della sua scrittura. Ci pensavo qualche mese fa, presentando all'università di Torino Il fiore delle lettere di Gabriele d'Annunzio pubblicato dalle edizioni dell'Orso di Alessandria a cura di Elena Ledda e con una prefazione di Marziano Guglielminetti (l'ultimo lavoro di quel fine critico, poi rapito da una morte prematura). L'antologia è ordinata per temi (Lettere familiari, d'arte, di guerra, d'amicizia) alla maniera di Petrarca, evocato anche nei titoli dei raggruppamenti (Familiares, Variae, Seniles). Per temi Lucia Vivian ordinava una scelta dell'avvincente carteggio di Gabriele con la sua amante veneziana del 1915-18, Olga Levi, edito da Marsilio col titolo La rosa della mia guerra. Ma a ben vedere, le lettere amorose o decisamente erotiche, che D'Annunzio vergò ad abundantiam in guerra e in pace, finiscono per relegare purtroppo in ombra altri interessanti carteggi, altri temi registri e affetti che vi circolano: l'amicizia, per esempio. E all'insegna di un'amicizia delicata e profonda è l'epistolario che impreziosisce la monografia che l'Ateneo di Salò ha dedicato all'illustre concittadino che curò nel corpo e nello spirito il solitario artista del Vittoriale: Antonio Duse medico di piaghe e dottore di stelle. Titolo suggestivo, che proviene, appunto, da una limpida silhouette di Duse tracciata da Gabriele: «Dallo sforzo ritmico del rematore alla immobile insidia dell'uccellatore, egli ha studiato e studia tutti i gradi e i modi dell'esercizio umano. Uno de' miei dilettissimi trecentisti lo chiamerebbe Medico di piaghe e Dottore di stelle». Il volume l'hanno curato due dannunzisti di lungo e lunghissimo corso, e anzi innamorati del poeta-soldato: Elena Ledda e Vittorio Pirlo. Già bibliotecaria del Vittoriale, Ledda ha al suo attivo numerosi studi. Nipote di Duse, Vittorio Pirlo ha dedicato la sua passione al Comandante e al suo Lago, seguendo per anni il teatro del Vittoriale e illustrando documenti alla mano particolari curiosi del vulcanico Gabriele: dai gusti in cucina alla passione per la velocità. A cinquant'anni dalla morte del chirurgo, i due autori hanno voluto tramandarne la memoria, togliendolo un po' da quell'ombra discreta in cui aveva protetto la sua relazione con il Poeta. Duse non era parente della grande attrice legata a D'Annunzio, anche se la sua famiglia affondava come la divina Eleonora le radici in terra veneta. Figlio d'arte, Antonio succedette al padre come primario dell'ospedale salodiano, che contribuì ad ampliare e migliorare. La sua generosità l'aveva visto soccorrere i terremotati di Messina, i soldati feriti nel deserto libico e nelle trincee alpine. Fra i suoi pazienti, nomi illustri quali Pompeo Molmenti, Ugo da Como, il principe Scipione Borghese, gli scultori Angelo Zanelli e Renato Brozzi, il musicista Gian Francesco Malipiero, e soprattutto Gabriele. Fu al suo capezzale dopo la misteriosa caduta dell'agosto 1922 che tagliò fuori Gabriele dagli eventi che condussero alla marcia su Roma. Registrò le frasi pronunciate dal poeta man mano che dal delirio della commozione cerebrale risorgeva la coscienza: sprazzi di luce, liberi da un prefissato disegno logico e che Duse fermava sul suo diario mosso da scrupolo clinico e da vera devozione (lo pubblicai presso Giunti col titolo di una frase di quell'ispirato delirio, «Siamo spiriti azzurri e stelle»). Rileggendo più tardi quelle note, Gabriele maturò l'idea di una scrittura libera, di un quasi joyciano flusso di coscienza cui diede sbocco nella sua tarda e modernissima opera, il Libro segreto che muoveva proprio da quella tremenda caduta: se l'autore spacciando l'incidente per mancato suicidio fingeva, non mentiva però affatto parlando di sé come di un uomo spesso «tentato di morire». A fianco di Gabriele, il dottor Antonio rimase fino alla morte, nel 1938, e anche post mortem conservò quel riserbo che gli aveva meritato la piena confidenza del Vate. Quanti segreti grossi e piccoli tenne per sé: l'operazione d'ernia inguinale che il Comandante volle spacciare per una meno "volgare" appendicectomia; la rimozione di una cisti nello scroto per cui Gabriele millantava scherzosamente di avere tre testicoli al pari di Bartolomeo Colleoni; la misteriosa farmacia cui il vate ricorreva anche per combattere il suo male più insidioso, quella angoscia ricorrente e immotivata che oggi chiamiamo prosaicamente depressione. Basta uno stralcio di lettera per dare il senso di quella complice e profonda amicizia: «La mia tristezza, spesso, si fa così cupa che mi vien l'impeto di sommergerla nel lago, o nel seno di una donna ignara. Non sorridere. Ma è delitto vero il disperdere così angosciosamente le forze vive di un cervello che sembra aver raggiunto - dopo la fenditura - la sua piena virilità». Paziente ma anche brescianamente schietto, Duse risponde al Vate che resta esposto alla pioggia chiedendo il suo consenso: «Sono convinto che lei peggio fa e meglio sta!». E non deve forse a Duse la passione per i piccioni viaggiatori il vecchio recluso del Vittoriale divenuto «colombofilo» anzi «colombiere» come dice con parola più precisa ed elegante? Perché l'austero Duse emerge dal libro come un appassionato ornitologo, rigoroso scienziato che mise insieme una superba raccolta di uccelli impagliati ma anche appassionato roccoliere e cacciatore che non disdegnava un odoroso spiedo con polenta, che riuscì a far apprezzare anche al sobrio Gabriele, che non mancava di vizi ma peccava raramente di gola. L'impressione dominante che resta di lui è quella di un medico di vocazione, attento ai pazienti umili non meno che agli illustri. Accanto alla lode che gli fece l'Imaginifico chiamandolo « medico di piaghe e dottore di stelle», piace ricordare, non meno bella, quella implicita nel modo proverbiale, rudemente bresciano, usato dai suoi salodiani per indicare un malato incurabile:«Nol la guaris piö gna' el Duse”.(Gabriele D’Annunzio, Il fiore delle lettere, Ed. dell’Orso, 2007; V.Pirlo, E.Ledda, Antonio Duse: medico di piaghe e dottore di stelle, Ateneo di Salò, 2007).
(Autore: Pietro Gibellini; fonte: Avvenire del 03/02/2007)

01/02/07

Beato Angelico a Roma

In occasione della ricorrenza dei 550 anni dalla morte del Beato Angelico, il Comitato Nazionale per le celebrazioni, in collaborazione con l'U.C.A.I. (Unione Cattolica Artisti Italiani), presenta la mostra e il concorso "Le Accademie per il Beato Angelico", che si svolgera' dal 6 al 22 febbraio, presso la Galleria La Pigna di Roma.

L'iniziativa, rivolta alle Accademie d'Arte italiane, e' tesa a commemorare il frate domenicano che fu pittore, miniatore e una delle figure cruciali della pittura italiana del Quattrocento. Al concorso hanno aderito le Accademie di Belle Arti di L'Aquila, Catanzaro, Carrara, Firenze, Genova, Lecce, Palermo, Reggio Calabria, Roma e l'Albertina di Torino. Le opere realizzate, cinque per ogni istituto, prodotte con tecnica pittorica o scultura e opportunamente selezionate dalle Accademie stesse, saranno esposte negli spazi espositivi della Galleria La Pigna.

I lavori presentati saranno giudicati da una giuria qualificata e il piu' meritevole sara' premiato con una medaglia commemorativa, coniata in argento in occasione della ricorrenza dei 550 anni della morte dell'Angelico, e una targa in argento. A tutti i partecipanti sara' inoltre offerta una medaglia commemorativa in bronzo. La mostra, ad ingresso gratuito, sara' visitabile dal lunedi' al sabato, dalle ore 16.00 alle ore 20.00. Chiuso la domenica.

(Fonte: AdnKronos Cultura)