30/07/17

Complottismo e anticomplottismo, pari sono?



di Carlo Gambescia
 
Il punto di vista dell'osservatore

La domanda posta nel titolo è insidiosa. Perché dal punto di vista ideologico, della razionalizzazione (giustificazione) della realtà,  quindi restando sul piano del fenomeno osservato,  complottismo e anticomplottismo sono due posizioni  che si  affrontano e negano l’un l’altra, impiegando gli strumenti retorici più diversi. Talvolta i due estremi finiscono addirittura per sfiorarsi.
Il discorso muta invece, se si ragiona dal punto vista dell’osservatore del fenomeno. Dello studioso. che deve giudicare le razionalizzazioni secondo la loro lontananza-vicinanza dalla realtà: nel caso, la realtà sociale. Ovviamente, la  nostra impostazione,  che definiamo sociologica, presuppone due pre-assunti cognitivi, che per ragioni di correttezza scientifica non possiamo non sottolineare: 1)  la distinzione tra la realtà dell’osservato (razionalizzata, secondo finalità retoriche e conflittuali,  che quindi si "sovrappone"  alla realtà)   e quella di chi osserva (che "combacia" o quasi con la realtà) ; 2)  un'idea, come poi vedremo,  della  realtà sociale, come entità oggettiva,  quindi sufficientemente vicina alla realtà fino al punto di aderire a essa,  che può servire di guida a colui che osserva, per giudicare le argomentazioni degli osservati.
Pertanto, ripetiamo,  studieremo il fenomeno dal punto di vista dell'osservatore e di una teoria sociologica  della realtà sociale come entità oggettiva. E, nei "limiti" di questo approccio, proveremo a dare una riposta alla questione.  Una risposta non la risposta.

Julius Evola e Adam Smith  

Ora, cosa sostiene, in ultima istanza,  il complottismo?  Che i fili della realtà sociale sono ben tenuti, per i propri fini, da un  ristretto gruppo di individui, dotato di larghi mezzi, che decide per tutti gli altri. Cosa sostiene invece l’anticomplottismo? Che i fili della  realtà sociale sono mossi  dalle  azioni di  milioni e milioni  di individui,   tesi, a perseguire, con risorse molto differenti,  i propri interessi, nel senso che ognuno decide per se stesso.  Per dare un senso simbolico alla nostra affermazione:  da un alto c’è Julius Evola, prefatore dei “Protocolli”, dall’altro Adam Smith con sottobraccio la sua “Ricchezza delle nazioni”.  
Quale delle due teorie, per così dire, è più vicina alla realtà sociale così com’è, quale entità oggettiva. Sicuramente quella anticomplottista. Perché seppure esiste  un incappucciato,  il suo nome è "società". Ci spieghiamo  meglio.
Si prenda come esempio di fenomeno sociale il "capitalismo" (per usare la terminologia marxiana). Esso  non è  il magnifico frutto proibito  di una decisione presa a tavolino, del tipo “fondiamo il capitalismo”,  secondo  dettami  costruttivistici.  In realtà, si tratta  di un sistema economico-sociale  che si è prodotto, a livello macro,  non attraverso le leggi del materialismo storico (come sosteneva Marx) e neppure per mezzo delle decisioni segretissime di un gruppo di massoni, ebrei, senza dio assortiti (come sosteneva il pensiero reazionario),  ma si è sviluppato, a livello micro,  mediante le scelte,   poi  premiate (ma solo dopo), di milioni e milioni di individui: si potrebbe parlare di micro-decisioni confluite, senza alcuna intenzione più generale, nella macro-costruzione di un sistema storico. Giorno dopo giorno, senza che nessuno sapesse nulla della meta. L'opposto, quindi, dell'ipotesi costruttivista.

Logica del successo?
 
In altri termini, il capitalismo ha provato, attraverso un meccanismo di selezione evolutiva, di essere migliore di altri sistemi. E quindi di venire scelto come tale.  Ma solo dopo alcuni secoli. Marx fu il primo a trovargli un nome,  a posteriori e da nemico. Logica del successo? Certo. E proprio perché tale, non esclude che, sempre per quell’effetto di ricaduta dei  milioni e milioni di decisioni inintenzionali ( nel senso dell'assenza di "una" finalità collettiva prestabilita),  il capitalismo, in futuro, sempre ad opera di un meccanismo di selezione evolutiva, possa (preferiamo, il congiuntivo delle scienze sociali serie) essere sostituito da un altro sistema.  
Insomma, la "fabbrica sociale" - siamo  nel cuore cuore della nostra analisi -   funziona così. Eccoci finalmente dinanzi alla società come entità  oggettiva, o se si preferisce,  quale  "fatto sociale".  Ripetiamo, non esiste perciò un gruppo di "incappucciati", addirittura con nomi e cognomi, bensì un "sistema incappucciato" contraddistinto da interazioni decisionali individuali, dalle finalità collettive imprevedibili. Ciò significa, se non fosse ancora chiaro,  che  il complottismo, che parla di finalità prestabilite  ( quindi prevedibili), addirittura decise intorno a un tavolo da un gruppo di "illuminati",  è una forma di costruttivismo. Se si vuole, al suo grado zero.
Il che indica, sotto il profilo scalare (dal grado zero in su), che quel che rimane più difficile, se non impossibile, è l’imposizione dall’alto  di un  qualsivoglia sistema ( tipo “fondiamo questo, fondiamo quell’altro”).  L’analisi e i disegni costruttivisti, proprio perché si allontanano dalla realtà, come mostra l’ esperienza sovietica (il "top" in tale ambito),  hanno sempre durata limitata (certo, parliamo sempre di “tempi storici”). Insomma,  le società-fatto oggettivo, come insieme di meccanismi dotati di forza propria, perché frutto di milioni e milioni di micro-decisioni, non possono essere governate dall'alto, come caserme. Ad esempio, il grande storico Jacques Pirenne, scorgeva, addirittura all'interno della storia sociale dell'Antico Egitto, l'alternarsi di periodi segnati dall'assolutismo e da un individualismo che prepotentemente tornava sempre a riaffacciarsi. Anche tra le piramidi.
Per fortuna,  come la storia insegna, pur tra alti e bassi,  la libertà, che è, sostanzialmente, libertà di scelta, si vendica sempre, checché ne pensino i vedovi e le vedove inconsolabili dei francofortesi.

Il mago della pioggia e l'ingegnere
 
Perciò - ecco la lezione del "politico" -   se talvolta, si deve ricorrere alla costrizione, è bene  che si tenga sempre presente la logica del male minore e dei tempi brevi.  Regola, come insegna lo studio delle costanti o regolarità metapolitiche, che vale per ogni tipo di sistema politico-sociale ed economico. Ad esempio,  l'esistenza delle michelsiana ferrea legge dell'oligarchia, costante metapolitica per eccellenza,  rinvia alla forma dei rapporti politici e sociali, se si vuole al lato gerarchico, statico,  trans-storico,  del comando e dell'obbedienza,  non ai suoi contenuti,  intra-storici quindi  dinamici,  mutevoli, imprevedibili,  perché  esito dell'effetto di ricaduta del meccanismo micro-decisionale.        
Questo è quanto  dal punto di vista di chi osserva, il nostro, come già detto. Ovviamente, tra gli osservati, e qui pensiamo al conflitto  tra  complottismo e anticomplottismo, le posizioni risentono degli eccessi retorici  della sfida, anche verbale: il conflitto non è tra verità e realtà sociale, tra dover essere ed essere, ma tra due forme di dover essere. Sicché, il complottista finisce per  sentirsi dalla parte della ragione storica, ignorando i pericoli  del costruttivismo,  mentre gli anticomplottisti da quella della ragione scientifica,  sottovalutando il fallibilismo.
In realtà,  gli uni e gli altri mostrano, purtroppo,  di  non aver  mai  trovato  il tempo per approfondire le tesi di Popper sulla miseria dello storicismo (antinaturalistico e pronaturalistico).  Non è una battuta ( o almeno non solo),  perché l'aureo testo popperiano  spiega, alla stregua delle opere più sociologiche di Pareto, Hayek,  Schumpeter, come la predizione nell'ambito delle scienze sociali sia relativamente  più facile rispetto alla comprensione di ciò che non può avvenire mai, piuttosto che a quella di ciò che può accadere. Del resto, anche Mises, da par suo,  spingendosi più là,  prende le difese delle logicità argomentativa sul piano dei concetti, rispetto al calcolo statistico, giudicato, sul piano previsionale, imperfetto ed erroneo.
Ma, ripetiamo, con questi autori,  siamo  nell'ambito dell'osservazione del fenomeno sociale, e di una teoria sociologica  della realtà sociale come entità oggettiva   non in quello delle razionalizzazioni degli osservati, spesso di basso livello e di natura tattica. Ciò non toglie che il buon giornalismo investigativo -  che sta alla scienza della società, come il mago della pioggia, che ogni tanto "ci prende", all'ingegnere, metodico costruttore di bacini e dighe -  non possa indagare e scoprire congiure, come dire, "localizzate". Anche Adam Smith preconizzava e temeva gli accordi segreti tra imprenditori monopolisti. E invitava opinione pubblica e potere politico a vigilare. Ma da qui a teorizzare, con Julius Evola,  un complotto mondiale, ce ne vuole.  

Il mistero sociologico
 
Chi osserva sa, soprattutto  il  sociologo, che la società, nelle sue varie forme storiche, quanto ai suoi fini, rimane una macchina misteriosa, affidata a milioni di "guidatori". Altro che il gruppetto di incappucciati soli al comando...  Sicché, inevitabilmente,  il sociologo-osservatore non potrà non nutrire comprensione per gli anticomplottisti,  che,  magari senza neppure saperlo,  contrastano il rigido costruttivismo complottista,  nonché, cosa fondamentale, il suo rifiuto del "mistero".
L'anticomplottismo, infatti,  prende atto,  anche se  in modo indiretto,  dell'unico vero grande mistero, almeno su questa terra: quello sociologico.  Che consiste  nell'indecifrabilità del senso collettivo delle azioni umane.  Un mistero, glorioso e doloroso insieme,  davanti al quale lo studioso di scienze sociali, il vero studioso, deve  "religiosamente"  inchinarsi.
  

Segnaliamo sul medesimo argomento dello stesso autore i seguenti contributi:

Maurizio Blondet e il complottismo, un’analisi sociologica

Ci wikirisiamo:  Cia utilizza tv e smartphone per spiare Assange, il re dei subprime delle fregnacce (pardon)

“Complottismo”, “anticomplottismo” e uso dell’ombrello
 


15/07/17

Isis: il gran ballo in maschera della modernità globale

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.
Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del moderno, o piuttosto è il segnale di una insospettabile capacità di adattamento, alla modernità stessa? Certo bisognerebbe perimetrare due concetti inafferrabili e mutevoli: l’Islam (che come categoria astratta e meta-storica non esiste) e la Modernità (che è un cantiere concettuale sempre aperto e in perenne evoluzione). Ma l’argomento è affascinante e vale la pena entrarci, in una modalità che allarghi il discorso specialistico solitamente riservato agli storici, agli islamologi, agli antropologi.
Di solito, quando si parla dello Jhiadismo globale e del suo rapporto con la modernità, ci si sofferma sulla dimensione, morbosa ed efficacissima, della padronanza tecnologica dei media, che questa forza manifesta. Ci sorprende vedere tagliagole barbuti, fautori di arcaismi secolari, maneggiare la infosfera con tale efficacia hollywoodiana. I boia stringono in pugno il coltellaccio, ma in tasca hanno uno smartphone iperconnesso e rappresentano se stessi su riviste on line graficamente raffinate. Questo ci turba: perché associamo la tecnologia alla civiltà (o almeno a quel che supponiamo essa dovrebbe essere). Naturalmente basta volgere lo sguardo pochi decenni indietro, nel cuore della civilissima Europa infettata dal nazismo, per cogliere la medesima ambivalenza: un movimento propugnante valori parimenti arcaici, ma altrettanto disinvolto nel suo rapporto con la Tecnica, nell’epoca del pieno sviluppo della grande industria di massa e del capitalismo monopolistico di Stato. Anzi: in alcuni casi si può dire che più il campo valoriale è regressivo – e ostentatamente arcaico – più il rapporto con la tecnologia pare diventare ossessivo, quasi come se le due dimensioni si legittimassero a vicenda. Questo cortocircuito, rende confusi e circospetti: quello che ci viene raccontato come il nemico estremo, gioca nella nostra stessa metà campo, non è un alieno germinato nei deserti, condivide il nostro background e, quando può, il nostro stesso stile di vita sostanziale – essendo la comune dimensione bio-politica totalmente informata e forgiata da tempi e modi della tecnologia.
Ma il feeling di queste forme di radicalismo con la modernità è ancora più profondo ed evocativo, e va oltre le considerazioni circa l’uso dei media e del web.
L’Isis non è solo l’onda lunga di uno Jhiadismo globale che nasce 40 anni fa negli altipiani afghani con i dollari americani e i petroldollari sauditi. Rappresenta una evoluzione della specie, se così possiamo dire, di quel filone (da qui le rotture sanguinose con Al Qaeda e con i Talebani). L’approccio dell’Isis è inedito, più radicale e catartico, rispetto qualsiasi altra soggettività islamista mai apparsa nell’ultimo secolo: il progetto neo-califfale punta alla costruzione un “Homo Novus” islamico, provando a fare tabula rasa (non solo ideologicamente) di ogni passato, in una prassi di soppressione e cancellazione delle memorie pre-esistenti – comprese quelle islamiche locali. Dai complessi monumentali antichi – sopravvissuti per 1400 anni alle diverse autorità religiose succedutesi nel tempo -, fino alle tombe degli odiatissimi sufi, la furia distruttrice rivela qualcosa che va ben oltre l’iconoclastia. Si tratta di un’azione velleitaria e folle di “ricostruzione da zero” del Soggetto e della sua realtà: una qualche forma di titanica velleità prometeica, in cui un pugno di eletti, rifonda il corso storico e decreta, dal pulpito di una moschea, la nascita di un “musulmano nuovo” – che inevitabilmente richiama il mito dell’”uomo nuovo” che verrebbe partorito dalle macerie fumanti di ogni palingenesi, reale o presunta.
Questo schema, alle orecchie di noi occidentali, non suona propriamente inedito – è qualcosa che ha molto a che vedere con la Modernità (e con la Politica, sua figlia prediletta). Sono discorsi che evocano movenze e attriti che si sono già inverati, soprattutto nel corso del ventesimo secolo, e di cui siamo stati testimoni e protagonisti. L’idea della tabula rasa su cui ri-edificare, con la forza illuminata ( dalla Ragione o dalla Rivelazione, cambia poco) della volontà, un Mondo Nuovo e un Uomo Nuovo che lo abiti, è una suggestione profondamente radicata nella storia europea, nella NOSTRA storia, almeno dall’89 francese in poi. Il Mostro, l’estraneo, ha attinto largamente dal “nostro” armamentario ideologico, rovesciandone il segno e accelerandone, in una furia devastatrice, la fase del kathairo, dell’estirpazione, del fuoco purificatore.
La storia dell’Islam non conosceva questa ansia catartica.
Dopo il primo secolo di folgorante espansione, diventa a suo modo una storia di lentezza, di confini mobili e porosi, di perdite, riconquiste e sovrapposizioni di civiltà e culture che si succedono per secoli. Persino la predicazione profetica impiegò 26 anni a radicarsi. Le culture tradizionali (pre-moderne) avevano consapevolezza del tempo storico, dell’impossibilità di forzarlo.
Già nel corso del primo secolo, entrando in collisione con i residui degli imperi siriani e persiani, il baricentro del mondo islamico si sposta verso Damasco e Baghdad, assorbendone parte delle eredità millenarie. Si definisce il profilo storico di un islam “persiano” e metropolitano, lontano dai deserti e dalle rotte carovaniere della penisola arabica. E, proseguendo, nascerà un Islam mediterraneo, berbero-andaluso, poi afghano-indiano e quindi turco-caucasico.
Questi molti Islam plurali erano il prodotto di un meticciato profondo e di complesse stratificazioni. Il massiccio edificio coranico, apparentemente monolitico era in grado di fare i conti con la storia concreta dei popoli – dalla Spagna alla Cina – senza la pretesa di cancellarla e riscriverla in toto. Non c’erano modelli preconfezionati da importare o adottare: tutto – dalle forme di governo fino alla teologia – risultava essere il prodotto di infiniti processi di aggiustamento, conflitto e convivenza, che definivano assetti di volta in volta nuovi e diversi.
L’idea di un Islam immutato e immobile nei secoli è una scempiaggine moderna, che l’Occidente sbandiera come alibi e falsa coscienza: gli Islam sono sempre stati molti e diversi ed epoca dopo epoca, l’Occidente ha idealtipizzato uno di questi modelli, a seconda delle sue necessità politiche, di lotta, colonizzazione o cooptazione di settori di quel mondo.
La edificazione dello pseudo-Califfato dell’Isis, mostra una insospettabile consapevolezza, da parte dei gruppi dirigenti jhiadisti, delle tematiche della governance contemporanea. Non per niente, pezzi importanti del Bathismo (cioè dell’eredità pan-arabista, laica e modernista) vi hanno aderito con disinvoltura.
Lo stesso richiamo alla categoria di “Stato” che Daesh sbandiera nella sua denominazione, è una suggestione moderna e molto “occidentale”: l’Islam tradizionale, nel corso storico concreto, ha sempre prodotto la dimensione imperiale – che significa multietnicità, pluriconfessionalità, livelli diversi di potere che si equilibrano, tra Emirati, Città-Stato, comunità, confraternite. L’idea moderna di Stato, con un’architettura rigida, definita e non mediabile dei poteri, strumento di formidabile accelerazione dei processi storici, è un concetto estraneo alla tradizione islamica. L’Isis esalta il concetto di edificazione dello Stato proprio perché lo Stato è l’unico strumento possibile di governo della modernità – soprattutto nella sua razionale spietatezza. Tanto per capirci: il genocidio armeno è il biglietto da visita dei “giovani turchi” di Ataturk e uno degli atti di fondazione della moderna Turchia laica (il Sultanato, ostaggio impotente, sarebbe stato soppresso da lì a poco).
Il genocidio organizzato è il marchio di fabbrica dello Stato moderno e delle sue logiche di epurazione ed omogeneizzazione interna.
Questo è anche il filo conduttore della politica dell’autoproclamato Stato Islamico: ricostruire la Umma depurandola di tutti gli elementi spuri (quelli che disconoscono l’autorità califfale), dotare questo corpo finalmente omogeneo di confini ideologici e materiali insormontabili, costituirsi come fondazione di una storia nuova, dove tutto il tempo pregresso è jahillya, età dell’ignoranza da ripudiare.
È per legittimarsi modernamente come Stato, che l’Isis sbandiera le sue efferatezze (quelle che gli altri attori in campo di solito nascondono): il monopolio della violenza è l’unico elemento di “statualità” che possono giocarsi efficacemente davanti ai territori controllati e al mondo – mancando tutti gli altri, soprattutto quelli che possono avere un rapporto con una qualche idea di governo della polis. La legittimazione dell’Autorità politica e statuale, è direttamente proporzionale alla ferocia esibita. Il meccanismo di riconoscimento che vogliono stimolare nei popoli è in fondo semplice: se arrivano davvero a fare “questo” – decapitare, bruciare, squartare – ed hanno il coraggio di diffonderlo, vuol dire che incarnano davvero un Potere legittimo, perché solo un Potere legittimo può essere in grado di padroneggiare il Male e trasformarlo in virtù pubblica e Legge. Perché, altrimenti, i giacobini esibivano le teste mozzate davanti a tutta Europa – se non come fattore di auto-legittimazione, dentro il parto doloroso della modernità? E questo è stato il refrain di molte epopee rivoluzionarie: la nuova legalità ha bisogno della catarsi – ce lo chiede la storia…
La prassi e l’ideologia dell’Isis si mostrano quindi come prodotto ideologico di laboratorio (anche sofisticato) che, pur evocando le sacre radici della Tradizione, trova riscontro più che nella vicenda storica concreta dell’Islam, nelle convulsioni geopolitiche della tarda modernità, nelle sue accelerazioni, nella sue proteiche riconfigurazioni.
Oggi l’Isis viene raffigurato come l’emblema del Male e del Nemico Assoluto. Il nuovo feroce Saladino che legittima l’esistenza di formidabili apparati militari di contrasto, nonché la irreversibile militarizzazione della società e della metropoli.
Come paradossalmente spesso capita nella storia, però, cerchi il Nemico, cerchi l’Altro per eccellenza, il barbaro, il sub-umano, e trovi uno specchio che riflette una tua immagine distorta…
L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.
L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga.
Materialismo mercantile, immersione acritica nella Tecnica, utopie di rifondazione catartica dell’umano: più che una sopravvivenza anacronistica, queste forze sembrano una variante pienamente legittima della contemporaneità.
Del resto, è la la storia recente di questo universo pseudo-jhiadista , a rivelare se stesso. La Salafya – cioè l’insieme di scuole e tendenze che vorrebbero rifarsi esclusivamente ai costumi delle prime tre generazioni di musulmani – è una invenzione moderna, che ostenta tradizionalismi inventati. Rifiuta ed è rifiutata dalle quattro scuole legittime. Nasce e alligna dentro lo scontro geo-politico della fine del ventesimo secolo e per diffondersi ha avuto bisogno di decenni di enormi investimenti economici: masse di ulema-commissari politici, migliaia di moschee edificate ai quattro angoli del pianeta, la collaborazione logistica di molti apparati statali, compreso quello israeliano. I Salafiti “ufficiali” in larga parte rifiutano lo stragismo terrorista, ma molti musulmani dicono di loro che “sono un prodotto occidentale, come la Coca Cola”.
E se la Salafya è il frutto di un grande investimento geo-politico-strategico, stessa cosa vale per il suo fratello maggiore, il wahabismo – la dottrina ufficiale dell’Arabia saudita – che è parimenti il prodotto, moderno, del…. ciclo degli idrocarburi. Senza il petrolio, nessuno oggi conoscerebbe lo sciagurato estremismo di Abd al-Wahab, pazzo predicatore sconfitto e scacciato dalla penisola arabica tra la fine e l’inizio dei secoli diciottesimo e diciannovesimo. È solo la forza del mare di petrolio, su cui i discendenti dei Saud si ritroveranno seduti un secolo dopo, che ha consentito al wahabismo di diventare dottrina di Stato in buona parte delle monarchie del Golfo. E di produrre una sciagurata egemonia in territori e settori di mondo arabo, fino a pochi anni fa alieni a quella cultura. Lo Spirito, la predicazione, l’ortodossia e l’osservanza, c’entrano poco: la materialissima e modernissima forza del dio petrol-dollaro, disegna nel vuoto suggestioni iper tradizionaliste, gestisce fondazioni miliardarie, demolisce le tombe e le antiche vestigia del passato profetico e costruisce super alberghi a 5 stelle che fanno ombra alla Ka’ba. Materialismo, finanza, investimenti, guerre e posizionamenti sullo scacchiere internazionale – altro che sharia.
Insomma, cerchi i barbari alle porte e trovi che siamo tutti immersi nel medesimo imbarbarimento. E che esso riflette pienamente il presente e il futuro verso cui marciamo.
In conclusione, una domanda ritorna costantemente, con buona ragione: ma questo ciclo jhiadista, c’entra o non c’entra con la religione? È tutto politica, è tutto strumentalità, è tutto costruzione artificiale eterodiretta? La fede, sta all’inizio o alla fine, di questa catena di disastri che si squaderna davanti ai nostri occhi?
È difficile dare risposte semplici a problematiche tanto complesse, ma traslare la domanda su un altro piano, a noi più consueto, forse ci aiuta: le Crociate c’entravano o no con la religione?
Certo che c’entravano, sarebbe puerile negarlo. La croce e il mito della difesa dei Luoghi Sacri erano il fattore ideologico di mobilitazione per le masse e l’elemento di nobilitazione dell’impresa, mica una banale sovrastruttura. Però: le Crociate spontanee, quelle sollecitate dal fanatismo (le cosiddette Crociate dei pezzenti) non riuscirono mai neanche ad arrivare a Gerusalemme, vagarono senza mezzi per le contrade europee fino ai territori bizantini, si “limitarono” a saccheggi e pogrom antiebraici e poi furono disperse.
Le vere Crociate le organizzarono Papi, Imperatori, Re e Principi. Gli Stati.
Non qualche fanatico imbecille.
Giovanni Iozzoli