31/12/10

Un'aquila nel ciel


In sogno mi parea veder sospesa
un'aquila nel ciel con penne d'oro,
con l'ali aperte e a calare intesa;

ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.

Fra me pensava: `Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d'altro loco
disdegna di portarne suso in piede'.

Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.

Dante, Divina Commedia, Purgatorio · Canto IX

30/12/10

Sant'Agostino: "Commento al Vangelo di Giovanni"

Commento al Vangelo di Giovanni (Il pensiero occidentale), Sant'Agostino, Bompiani, cura redazionale di Giovanni Reale, EUR 32,12

Sinossi

Il Commento al Vangelo di Giovanni è una delle opere più ispirate e più valide di Agostino. È costituita da centoventiquattro discorsi, nati nel corso di vari anni (non meno di tre lustri). I primi cinquantaquattro sono prediche fatte ai fedeli e messe per iscritto dai tachigrafi; gli altri settanta sono stati dettati e letti da altri. Giovanni Reale la presenta in una forma nuova, che cerca di ricostruire e riprodurre il ritmo del parlato, i possibili silenzi, le riprese. L'ariosità che in questo modo viene data ai vari Discorsi li rende assai più leggibili, fruibili e godibili, rispetto alla loro presentazione in blocchi compatti, come di solito vengono presentati. Nel Saggio introduttivo vengono presentati la struttura logica, i fondamenti metodologici, filosofici e teologici dell'opera e in più punti viene fatto vedere in cosa consista la rivoluzione agostiniana rispetto al pensiero filosofico antico-pagano, e per quali ragioni, come ha sostenuto M. Zambrano (allieva di Ortega y Gasset), Agostino sia da considerare davvero per molti aspetti il padre spirituale dell'Europa. (Il testo latino dell'edizione Mauriana viene proposto in un volume separato).


28/12/10

La guerra dei servitori della Macchina contro l’Uomo-Natura-Cosmo

di Giuseppe Gorlani

Ho letto il breve articolo di Massimo Fini intitolato “Liberate Kabul” e ne sono stato toccato. Verso la fine degli anni Sessanta e agli inizi degli anni Settanta ho trascorso in Afghanistan alcuni mesi, innamorandomene, e dunque percepisco con particolare intensità e sofferenza il dramma che lo sta devastando. Prima dell’invasione russa e, in seguito, di quella anglo-americana, l’Afghanistan era un Paese bellissimo: l’aria, i villaggi, l’architettura, il cibo, l’ospitalità, la musica, l’abbigliamento, i volti, tutto era in armonia con la sua natura incontaminata. Dal punto di vista sociale non dubito che vi fossero pregi e difetti, ma vi si respirava un’atmosfera di grande armonia.

Personalmente, la cosa che trovavo più affascinante era che tale Paese vivesse fuori dal frenetico scorrere del tempo storico occidentale e dalle sue ansie progressiste, ancorato ad una sorta di medioevo immutabile. Gli Afghani avevano una percezione del tempo ed una visione escatologica radicalmente diverse da quelle del mondo moderno occidentale, il quale, tra l’altro, di escatologia non si occupa affatto o finge solo di occuparsene.

La battaglia che là si sta svolgendo può dunque essere interpretata simbolicamente: da un lato abbiamo un occidente degenerato, antitradizionale, avverso ad ogni forma di autentica spiritualità, mondialista, convinto che il “destino manifesto” gli dia il diritto di imporsi su tutti gli altri popoli; dall’altro, una società ierocratica, non interessata a qualsivoglia forma di sapere che non orienti verso Dio, sorgente, sostegno e fine ultimo di tutto. Il primo pone al centro l’inquietudine di un anthropos che, pur convinto di emergere dal nulla o dal caso e a questi di ritornare, si muove con la tracotanza cieca e la frustrazione del tiranno circondato da oggetti da sfruttare; ho utilizzato l’aggettivo “cieca”, poiché, come già accennato, tale hybris non contempla minimamente (o forse solo in modo superficiale) la questione dell’impermanenza e della morte, ovvero dell’epilogo e della finalità dell’ente individuato e quindi, per contrasto, dell’Assoluto. La seconda pone al centro il culto, l’attenzione per l’Essere, variamente inteso.

Di recente ho letto in “Corriere Metapolitico” un interessante articolo di Christian Rangdreul intitolato “Geopolitica della Talvera”, nel quale, a proposito del Grande Gioco, si legge: «È stato infatti Rudyard Kipling a chiamare in questo modo la lotta di influenze che ha opposto, che oppone ancora, e che opporrà sino alla fine della storia, la Talassocrazia – ieri l’Inghilterra, oggi gli Stati Uniti – e la Tellurocrazia – la Russia – per il controllo dell’Asia centrale, cuore insieme alla Siberia dell’“Isola del Mondo”, la “più grande isola”, vale a dire il blocco Eurasia-Africa». La “talassocrazia”, dominio del mare, potere che si fonda sulla signoria dei mari, è associata all’acqua e dunque al mentale, all’io psicosomatico volubile, preda di passioni, emozioni ed istinti. La “tellurocrazia”, dominio della terra, contenente nel proprio intimo un nucleo di fuoco, rimanda invece a ciò che è stabile e permanente, al sé spirituale.

Secondo me, tale contrapposizione non è tuttavia irriducibile. In un’ottica tradizionale, infatti, i vari elementi o principi (tattva) costituenti l’Universo si reintegrano gerarchicamente gli uni negli altri sino a risolversi nell’Essere. Lungo la via del ritorno al Centro, l’acqua (il mercurio volubile) dovrebbe essere fissata dal fuoco (lo zolfo, lo spirito) con lo scopo di risvegliare il nous, l’azoto dei saggi, l’acqua di fuoco, la buddhi, l’Intelletto d’Amore dantesco: l’aspetto sottilissimo della mente capace di intuire il sovrasensibile e di fungere da ponte tra il dicibile e l’indicibile.

Benché in un mondo ordinato secondo la Norma (Dharma) sarebbe naturale che i vari elementi cooperassero all’armonia dell’insieme, nell’Era oscura o Età del Ferro, in cui stiamo vivendo, la contrapposizione di cui sopra resta relativamente valida, provocando disordine e tormento. Le forze della terra e le forze del mare si stanno contendendo il “cuore” del pianeta, in cui arde il Fuoco segreto, scaturigine di ogni potere. E se si considera come l’Afghanistan sia assai prossimo all’Hearthland, si comprende la ragione per la quale nel presente scorcio di Kali-yuga là si stia combattendo.

Nell’articolo di Fini, dal quale ho preso spunto per queste riflessioni, si sottolinea giustamente la sproporzione delle forze in campo. Gli occidentali hanno armi sofisticatissime (terribili bombe all’uranio impoverito, droni, Dardo, Predator, aerei senza equipaggio teleguidati dal Nevada), gli afghani hanno poco più di fucili e mortai. Si tratta davvero di una battaglia tra la Macchina e l’Uomo. Ed è una vergogna che l’Europa ed in particolare l’Italia (in antico detta Saturnia Tellus, Terra di Satya, la Verità) si siano messi dalla parte della Macchina contro l’Uomo. È una presa di posizione radicalmente anti-europea e anti-italiana che ci fa soffrire nell’intimo, giacché non appartiene alla nostra natura improntata all’aurea mediocritas oraziana.

Fini chiama “sporcaccioni” i celebri firmatari dell’appello per la liberazione di Sakineh (V.S. Naipul, Robert Redford, Juliette Binoche, Robert De Niro, Colin Firth, Sting, Ed Miliband, Kouchner, Antonia Fraser, Bernard-Henry Lévy): elevano un’adultera assassina a simbolo di libertà e di emancipazione della donna, ma ignorano le decine di migliaia di donne che l’occidente sta massacrando in Afghanistan, magari col prestesto di liberarle dalle barbarie del chadri a cui sarebbero sottoposte. A “sporcaccioni”, termine colorito ma efficace, si può tranquillamente aggiungere “ipocriti” o “sepolcri imbiancati”. A costoro non importa che il sangue scorra a fiumi e che le peggiori sofferenze dilaghino, purché i loro effimeri privilegi vengano preservati e le loro mani non si sporchino: ci penseranno alcuni avidi mercenari e le imbattibili macchine che l’homo oeconomicus ha inventato per sbrigare il lavoro di rimuovere i dissidenti o, meglio, i resistenti all’omologazione.

Tiziano Terzani racconta, non ricordo in quale sua pagina, di essersi trovato, all’inizio dell’invasione occidentale dell’Afghanistan, in un ospedale di Kabul accanto ad un bambino gravemente ferito (uno tra i tantissimi che l’ennesima bomba “umanitaria” aveva dilaniato) al quale aveva portato dei biscotti; mentre se ne stava in piedi, stravolto e imbarazzato per tutto il dolore che lo circondava, venne ricoverato un uomo con una brutta ferita al ventre, il quale gli disse: «Siete degli ipocriti. Prima ci bombardate e poi ci portate biscotti». Terzani, che era un uomo onesto e di cuore, afferma di aver provato per la prima volta vergogna di essere occidentale. Un conto è leggere sui giornali che dei civili sono stati uccisi per errore, tutt’altra cosa è vedere de visu lo scempio che le bombe, sganciate in nome della libertà e del progresso, fanno di un popolo la cui unica colpa è quella di essere quel che è e di vivere dove vive.

Lo si deve ammettere: la maggior parte degli uomini occidentali vive immersa nell’ipocrisia senza rendersene conto o rendendosene conto solo di sfuggita; i media hanno saputo adeguatamente distrarla ed anestetizzarla. E così, sotto lo sguardo annebbiato e privo di immaginazione delle moltitudini la menzogna sale in cattedra e il massacro continua.

Per concludere, da soggetto poco interessato alle “magnifiche sorti e progressive” qual sono, parteggio per l’uomo in quanto Purusha, espressione sintetica di consapevolezza della Terra-Natura-Cosmo, parteggio per gli afghani che si rifiutano di essere addomesticati e messi in gabbia, per i palestinesi che fronteggiano con sassi il terzo esercito più armato del mondo, per le antiche tribù indiane aggrappate alle loro foreste e alle loro montagne che le multinazionali pretenderebbero di spazzare via in nome del profitto. Parteggio per i sadhu vagabondi e analfabeti, per le vacche sacre, per gli ordini contemplativi, per lo studio devoto delle antiche lingue, ricche di risonanze prediscorsive, per la trasmissione orale della sapienza; parteggio per le foreste, per i fiumi, gli alberi e gli animali selvatici. L’intuizione mi suggerisce che il trionfo della Macchina e dei suoi servitori si rivelerà presto illusorio e, anzi, controproducente, poiché il suo crollo travolgerà quelli che oggi presumono di trarne vantaggio.

C’è un momento, posto sul cammino di tutti, in cui ci si rende conto che il significato ultimo non sta nel possedere questo o quello o nel controllare paranoicamente l’esistente (fatica di Sisifo), bensì nello svegliarsi alla propria reale natura, identica al Principio (Arché). Da un simile risveglio non può che derivare un esistere (da ex-sistere: apparire, emergere dall’Essere) inteso quale gioco o danza armoniosa, giusta e compassionevole. Nessun possesso può essere equiparato alla felicità connaturata alla Conoscenza divina che arde al Centro. Inevitabilmente, prima o poi, l’uomo se ne renderà conto e allora si acquieterà, rivolgendo innanzitutto all’interno il proprio sguardo e poi, quando tornerà a guardare all’esterno, contemplando le “diecimila cose” dal di dentro. A ben pensarci non c’è niente di meno altro dell’“altro”. L’“altro” sono “io”.

Fonte: www.ariannaeditrice.it


27/12/10

Al cuore della Talvera

Traduciamo dal sito della rivista CONTRELITTÉRATURE quanto scrive Alain Santacreu in margine all’intervento di Giuseppe Gorlani sulla “geopolitica della Talvera”. Alain Santacreu ha appena dato alle stampe un volume straordinariamente interessante dal titolo “Au coeur de la Talvera” (Ėditions Arma Artis – www.arma-artis.com) di cui promettiamo di occuparci non appena possibile.

L’articolo di Christian Rangdreul, “geopolitica della Talvera”, che abbiamo recentemente messo in rete in omaggio alla memoria del nostro amico, ha suscitato sul blog italiano “Corriere Metapolitico” una reazione molto interessante da parte dell’orientalista Giuseppe Gorlani, della quale si potrà leggere la traduzione dovuta all’amabile contributo di Elisa Pelizzari qui:

http://talvera.hautetfort.com/archive/2010/12/15/dialogue-avec-christian-rangdreul.html

Mi spiace che il nostro amico non sia più tra noi per rispondere al notevole e illuminante intervento di Giuseppe Gorlani. Non interverrò dunque in questo dialogo, preferendo lasciarlo in sospeso. Vorrei solamente precisare che, secondo me, la Talvera e il campo coltivato non si trovano sullo stesso piano ontologico: il campo riceve il suo “esistere” dalla Talvera. Ed è per questo che la Talvera si trova contemporaneamente al bordo del campo “e” nel sul centro, essa “è” il centro e la periferia. La logica che apre la nozione di Talvera sfida la logica di non-contraddizione dei filosofi. E’ forse peraltro possibile che la “rimuova” dalla filosofia (vale a dire dalla letteratura)? E’ forse una metaforizzazione di ciò che Platone, nel Timeo, indica con il nome di “Khôra”? Ora, Platone dice della “Khôra” che questo nome non designa nessun tipo conosciuto dal discorso filosofico, vale a dire dal logos filosofico: Khôra non è né sensibile né intellegibile. Non si può dunque accedere al pensiero della Khôra a partire dalla dialettica logos-mithos. Ma allora, come pensare ciò che, eccedendo l’ordinamento del logos e della sua legge, non appartiene nemmeno al mithos?
(traduzione dal francese di Aldo La Fata)


26/12/10

Qualcosa sulla Fede

La Santa Trinità (Andrej Rublev)

di Alberto Buela

Diversi anni or sono, viaggiavo da una campagna all’altra sulla desolata strada 40, quella che passa lungo tutto il territorio argentino, proprio attaccata alla cordigliera delle Ande e proprio nella parte più solitaria e ostile (qui il paesaggio ferisce), all’altezza di Puelén nel deserto della Pampa. Laggiù dove il diavolo perse il poncio, dove la scarsissima acqua che si trova contiene arsenico e dove nemmeno l’austero guanaco riesce a vivere. In un’immensità coperta di sabbia e spine di alpataco, l’unico albero al mondo che cresce all’ingiù. Dove la recinzione di filo spinato non esiste e gli immensi campi rimangono aperti (gli è che il fil di ferro e i pali valgono più dei campi). Lì, legato a un vecchio copertone di automobile a sua volta appeso a un palo, stava il cartello: Fattoria la poca fede. Subito ci venne in mente il titolo dell’omonimo libro del filosofo peruviano Wagner de Reyna nel quale si sostiene che la fede è sempre insufficiente; insufficiente perché l’apporto da parte dell’uomo risulta essere minimo se paragonato alla grandezza della verità promessa. (1)

E’ noto che la definizione di fede più puntuale fin dal tempo dei Padri della Chiesa, si trova nell’Epistola agli Ebrei 11,1, nella quale si afferma: la fede è sostanza di cose sperate e argomento delle non parventi. (Est autem fides sperando rerum substantia, rerum argumentum non apparentium).

Questa definizione è formata da due parti; la prima si muove sul piano ontologico, la seconda, sul piano gnoseologico. Così, quando si afferma che la fede è “sostanza di cose sperate”, ci si riferisce al fondamento ultimo delle cose a venire. Qui ci muoviamo sul piano ontologico. La fede sotto questo riguardo ci rende presenti le cose future, e qui si viene a radicare la speranza, altra virtù teologale, che intende il futuro come avvenire=adventus e semplice futurum, alla maniera dell’uomo precristiano, il quale vedeva le cose future come semplice attesa. (2)

Quando invece si afferma essere “argomento delle non parventi”, ci si muove sul piano della conoscenza che ci dà la certezza di quello che non possiamo vedere. Così la fede in quanto adesione a ciò che Dio ci ha rivelato, ci conferisce una conoscenza privilegiata, poiché Dio può dire solo la verità e nient’altro che la verità. “Ma il filo della fede dal quale dipende tutta la certezza rispetto all’essere trascendente-divino e al suo messaggio, è molto sottile”, afferma con ragione il filosofo tedesco Eric Voegelin. (3) Gli è che la vera fede apre il dubbio. E’ come un faro nella nebbia che pur non perdendo la sua luce, non arriva lontano. L’opacità è l’essenza delle circostanze che attorniano il credente conscio dei suoi limiti e della “pochezza della sua fede”.

Orbene, da dove vengono all’uomo il fondamento e la prova dell’invisibile? Alcuni, come i volontaristi, dicono: dalla forza della propria volontà. Ciò che spinge il credente a credere è il suo stesso voler credere, la sua stessa volontà. Ma, osservano giustamente tanto un pensatore pagano come Alain de Benoist che un pensatore cattolico come il succitato Wagner: non si crede perché si dice di credere né si ha fede perché si afferma di averla. Ciò che si crede per fede non dipende dall’atto di credere ma da quello che questo atto dimostra: il trascendimento delle cose che possiamo sperimentare e misurare.

All’estremo opposto troviamo i fideisti, fondamentalmente il mondo protestante, per i quali la fede è un dono soprannaturale che dipende esclusivamente dalla volontà di Dio.

Quindi la fede è un dono, una grazia di Dio. E della fede del credente è Dio il responsabile ultimo. La fede si chiede, è poca e quasi sempre viene meno. L’uomo la deve chiedere con un atto libero della propria volontà ed è libero di accettare o rifiutare questa grazia di Dio.

Ci sono persone che vogliono avere fede e non ci riescono perché, sebbene il conferimento sia un atto dovuto esclusivamente alla bontà di Dio, è necessario possedere fermezza di spirito per sostenerla, e non tutti gli uomini ne sono capaci. La maggior parte di essi necessita dell’aiuto istituzionale e cerca appoggio nella Chiesa.

Alla fermezza di spirito si giunge solo dopo un lungo esercizio nella pratica quotidiana di tutto quanto conforma l’integrità intellettuale, spirituale e fisica dell’uomo. E’ necessario ricordare che l’essenza della fermezza consiste maggiormente nel sapere sopportare=sustinere, piuttosto che nel poter aggredire=agredere.

E sebbene la fede sia, innanzi tutto, un dono gratuito di Dio, che la può concedere anche senza previa richiesta, l’uomo deve preparare il recipiente della fede, che è egli stesso. Con ragione diceva Ortega che le idee si hanno e le credenze non si hanno. Le idee sono ferenze, le credenze sono preferenze.

In latino fede si dice fides e in greco pistis; entrambe partecipano della stessa radice pith del verbo peitho che significa ascoltare, mettere al corrente, convincere, confidare. Pisteuo, dalla medesima radice, significa credere, dal latino credo dove è presente la radice do (dare), così chi dà (creditore) crede e confida che gli sarà reso quanto prestato.

L’aggettivo pistos (degno di fede, affidabile) partecipa della stessa radice dell’originario pith. E il confidente, colui col quale si comparte la fede è lo stesso con cui si comparte il segreto, ciò che è occultato, e che in greco si dice lethes, che è il contrario di a-lethes (non occulto o evidente). Così, proseguendo in questa sequenza etimologica la fede si mette in relazione con la verità.

In tal senso gli antichi teologi realizzavano il sillogismo seguente: la fede è l’adesione a quanto insegnato da Dio attraverso il dato rivelato e Dio non può che dire la verità; questo lo ha detto Dio, dunque è vero.

O credere o scoppiare, direbbe mia nonna.

Così, ciò che era iniziato come un’impostazione ontologica: la sostanza delle cose sperate, e gnoseologica: la prova delle cose non parventi, è passato dalla dialettica richiesta-disposizione-grazia, per andare a finire nella convergenza di fede e verità.

NOTE

(1)Wagner de Reyna, Alberto: La poca fe, Ipec, Lima 1993, pp.168 a 172.

(2)E’ curioso il suggerimento che ci arriva dall’etimologia, poiché futurum=ciò che sarà, è il participio presente del verbo fuo, che a sua volta viene dal greco phyoo=generare, il cui sostantivo è physis=natura. Così ci si aspetta che questo futuro dell’uomo prima di Cristo accada all’interno di un normale processo fisico, vincolato più che altro alla speranza quotidiana e mondana di un avvenire determinato dalla natura.

(3) Voegelin, Eric: El asesinato de Dios y otros escritos politico, Ed. Hydra, Buenos Aires, 2009, p.179.

(traduzione dallo spagnolo di Aldo La Fata)