31/03/15

Michel De Jaeghere; "Gli ultimi giorni. La fine dell'Impero romano d'Occidente"





di Massimo Introvigne

Si può parlare male della Francia finché si vuole, ma bisogna riconoscere ai francesi la capacità di promuovere dibattiti culturali che vanno al di là delle banalità quotidiane. Ne è un buon esempio la vasta discussione che continua sul libro dello storico e giornalista Michel De Jaeghere «Gli ultimi giorni. La fine dell'Impero romano d'Occidente» (Les Belles Lettres, Parigi 2014). Nel febbraio 2015 il mensile cattolico «La Nef» ha dedicato a questo tomo di oltre seicento pagine un numero speciale con diversi articoli pertinenti, ma del libro si continua a parlare negli ambienti più diversi, talora con toni molto accesi.
Perché appassionarsi nel 2015 alla caduta dell'Impero romano? Si tratta certo di uno degli eventi più importanti della storia universale. Ma in realtà il dibattito francese è divenuto rapidamente politico, perché le vicende finali dell'Impero romano ricordano da vicino - lo aveva del resto già notato Benedetto XVI - quelle di un'altra civiltà che sta morendo, la nostra.

L'IMPERO ROMANO NON CADDE PER COLPA DEL CRISTIANESIMO
De Jaeghere ripete anzitutto quello che è ovvio per gli storici accademici, anche se talora è negato da propagandisti dell'ateismo e nostalgici del paganesimo - forse più presenti e molesti in Francia che altrove -: l'Impero romano non cadde per colpa del cristianesimo. La tesi secondo cui i cristiani, con il loro messaggio di amore e di pace, avrebbero reso l'Impero imbelle di fronte ai barbari - per non risalire a polemisti pagani dei primi secoli come Celso - è stata diffusa dall'Illuminismo, con Voltaire e con lo storico inglese Edward Gibbon. Ma, come ricorda De Jaeghere, è totalmente falsa. Agli inizi del quinto secolo i cristiani nell'Impero romano d'Occidente sono solo il dieci per cento. Sono maggioranza nell'Impero d'Oriente, ma questo resisterà alle invasioni e sopravvivrà per mille anni. Ed è il dieci per cento cristiano che cerca di mantenere in vita Roma e la sua cultura, con vescovi e intellettuali come Ambrogio e Agostino ma anche con generali che si battono fino allo spasimo per difendere l'Impero, come Stilicone ed Ezio, e con tanti soldati cristiani protagonisti di fatti d'arme eroici.
Accantonate le sciocchezze sul cristianesimo, resta la domanda su come l'immenso Impero romano sia potuto cadere. Oggi gli storici sono molto cauti nell'usare la parola «decadenza». È vero che, nell'attuale Italia, negli ultimi secoli dell'Impero duecentomila capifamiglia avevano diritto a somministrazioni gratuite di cibo, che lavorassero o meno, e che i cittadini romani che lavoravano, militari esclusi, avevano centottanta giorni di vacanza all'anno, allietati da spettacoli spesso di dubbio gusto o crudeli. Ma di questa decadenza gli scrittori e i filosofi avevano cominciato a lamentarsi all'epoca di Gesù Cristo, quattrocento anni prima che l'Impero cadesse, in un'epoca in cui Roma le sue battaglie le vinceva ancora.
Alla categoria di «decadenza», suggerisce De Jaeghere, non si può rinunciare a cuor leggero. Ed è giusta l'osservazione di molti storici secondo cui le spiegazioni che attribuiscono la caduta dell'Impero a un'unica causa sono ideologiche. Ma questo non significa che ci si debba arrendere e dichiarare l'evento inspiegabile. Al contrario, De Jaeghere parla di un «processo», che lega le diverse spiegazioni proposte tra loro.

IL CONTROLLO DELLE NASCITE
Ancora come Benedetto XVI - senza citarlo - lo storico francese identifica come causa principale che sta all'origine del processo la denatalità. Il controllo delle nascite presso i romani non ha i mezzi tecnici di oggi, ma dilagano l'aborto e l'infanticidio, e aumenta il numero di maschi adulti che dichiarano di volere avere esclusivamente relazioni omosessuali. Il risultato è demograficamente disastroso: Roma passa dal milione di abitanti dei secoli d'oro dell'Impero ai ventimila della fine del quinto secolo, con una caduta del 98%. Le statistiche sulle campagne sono meno sicure, ma dal trenta al cinquanta per cento degli insediamenti agricoli sono abbandonati negli ultimi due secoli dell'Impero, non perché non siano più redditizi ma perché non c'è più nessuno per coltivare la terra.
Quali sono le conseguenze della denatalità? Sono molte, e tutte negative. Dal punto di vista economico, meno popolazione significa meno produttori e meno soggetti che pagano le tasse. L'Impero romano cede alla tentazione di tanti Stati che si sono trovati in condizioni simili. Aumenta le tasse, fino ad ammazzare l'economia: e anche fino a incassare meno tasse, anche se non ci sono economisti per spiegare in termini matematici la curva per cui, se le imposte aumentano troppo, lo Stato finisce per incassare di meno, perché molti vanno in rovina e non pagano più nulla. La caduta dell'Impero è annunciata nel suo ultimo secolo da una rovinosa caduta del novanta per cento degli introiti fiscali. Nelle campagne molti piccoli proprietari che non possono più pagare le tasse vanno a ingrossare le fila, fiorenti, della criminalità e del banditismo.
Roma è alla testa di un sistema che prevede la schiavitù, e la soluzione alla denatalità dei liberi è cercata anzitutto nell'accrescere la natalità degli schiavi, cui è fatto divieto di praticare l'aborto e che sono incitati con le buone e con le cattive a fare più figli. Nell'ultimo secolo dell'Impero nell'attuale Italia il 35% della popolazione è costituito da schiavi. Gli schiavi, però, non pagano tasse, lavorano in modo poco zelante e non hanno alcun interesse a difendere in armi i loro padroni attaccati. L'economia schiavista degli ultimi secoli dell'Impero diventa anche statalista. Sempre di più è lo Stato a gestire grande imprese agricole dove lavorano esclusivamente schiavi.
Sia pure con caratteristiche diverse, il loro contributo scarsamente entusiasta all'economia ricorda quello dei lavoratori e dei contadini sovietici.

LA MASSICCIA IMMIGRAZIONE
Se scarseggiano i cittadini a causa della denatalità, e gli schiavi non risolvono i problemi, l'altra misura cui gli Stati e gli imperi ricorrono di solito per ripopolare i loro territori è la massiccia immigrazione. Si parla molto delle invasioni barbariche. Ma si dimentica, suggerisce De Jaeghere, che la più grande invasione non è avvenuta per conquista ma per immigrazione. L'invasione di Alarico, per esempio, porta all'interno dell'Impero ventimila visigoti. Ma le misure prese per invitare popolazioni germaniche a immigrare, non solo legalmente ma con facilitazioni, per fare fronte al problema della denatalità, portano nel territorio imperiale in trentacinque anni, dal 376 al 411, un milione di immigrati. Certamente i «barbari» emigrano nell'Impero, o lo invadono, perché a casa loro non si sta bene a causa della pressione degli Unni venuti dall'Asia Centrale, una delle cause della caduta di Roma che non possono essere imputate alle classi dirigenti romane. Ma il non governo dell'immigrazione è colpa loro.
Così come la decisione fatale di reclutare gli immigrati per l'esercito - se qualcuno protesta perché non sono cittadini romani, si concede loro rapidamente la cittadinanza - che snatura le legioni. All'inizio del quinto secolo l'esercito romano non è piccolo. È grande più del doppio rispetto ai tempi di Augusto: da 240.000 uomini si è passati a oltre mezzo milione. Il problema è che più della metà sono immigrati di origine germanica: e dichiararli frettolosamente cittadini romani non cambia la loro condizione. È vero, sono «barbari» in maggioranza i legionari, ma sono romani i comandanti e romani gli imperatori da cui prendono ordini. Senonché a un certo punto i «barbari» si rendono conto appunto di essere la maggioranza dei soldati, la maggioranza di coloro che faticano e muoiono. Perché dovrebbero farsi comandare dai romani? Così, alla fine, uccidono i generali romani e li sostituiscono con uomini loro, si uniscono agli invasori etnicamente affini anziché respingerli e, nell'atto conclusivo, marciano su Roma e pongono fine all'Impero.
Del resto, secondo De Jaeghere, da secoli Roma verso le popolazioni germaniche aveva rinunciato ad avere una «politica estera» che non fosse l'invito all'immigrazione. Le foreste del Nord sembravano ai romani un mondo caotico, dove bande e capi diversi e imprevedibili si uccidevano tra loro, e un mondo con poche ricchezze da portare a Roma. Di qui la decisione - gravemente sbagliata - di disinteressarsi di una vasta area nord-europea, lasciando che lì si formassero lentamente le forze che avrebbero aggredito e distrutto l'Impero, anche perché la globalizzazione dei commerci - pur senza televisione e senza Internet - informava questi «barbari» delle favolose ricchezze di Roma, e scatenava i loro appetiti.
Si comprende come questa sequenza che vede le cause della caduta di Roma in un processo che va dalla denatalità alla persecuzione fiscale dei cittadini, allo statalismo dell'economia e all'immigrazione non governata non piaccia a qualcuno. A De Jaeghere è stato opposto che l'immigrazione è una risorsa, che gli imperatori avrebbero dovuto valorizzare, e che il vero problema fu la loro incapacità di pensare l'Impero in termini nuovi e multiculturali, non l'aumento degli immigrati. È evidente che queste obiezioni «politicamente corrette» nascono dal timore del paragone con l'Europa di oggi, paragone cui lo stesso De Jaeghere non si sottrae, pur invitando alla cautela.
Nello stesso tempo, il suo libro offre una risposta alle obiezioni che allarga il quadro. A Roma venne meno un tasso di natalità capace di sostenere un Impero, con conseguenze a cascata sull'economia e la difesa. Ma perché questo avvenne? Perché a un certo punto i romani scelsero la strada di quello che, con riferimento all'Europa dei giorni nostri, San Giovanni Paolo II avrebbe chiamato «suicidio demografico»? Il libro sostiene che vennero lentamente meno i due pilastri della cultura romana, la «pietas» e la «fides», la lealtà alle tradizioni morali e religiose trasmesse dai padri e la fedeltà alla parola data e agli impegni assunti come cittadino romano nei confronti della patria.

LE CAUSE SONO MOLTEPLICI
Le cause di questa «decadenza» - in questo senso la parola non va abbandonata - sono molteplici. Intorno all'epoca di Gesù Cristo l'aristocrazia romana si trasforma da élite guerriera e militare a élite terriera e latifondista, che riceve a Roma i proventi di possedimenti che spesso non ha neppure mai visitato. Questa nuova élite è più interessata ai piaceri che alla difesa dell'Impero, che considera comunque eterno e invincibile. E comincia a non fare figli: tutte le famiglie tradizionalmente aristocratiche dell'epoca di Gesù Cristo si estinguono prima del 300 d.C. tranne una, la gens Acilia, che si converte al cristianesimo. L'esempio delle classi dirigenti, come sempre accade, fa proseliti. La moda del figlio unico, o di nessun figlio, arriva fino alla plebe.
L'obiezione degli storici, soprattutto inglesi e americani, che negano la tesi della decadenza, è che tutto questo riguarda soprattutto Roma o comunque le grandi città, mentre ancora nell'ultimo secolo dell'Impero l'85% della sua popolazione vive nelle campagne. Ma anche qui, nota De Jaeghere, vengono meno la «pietas» e la «fides». Perché l'Impero, troppo multiculturalista e cosmopolita e non troppo poco, è percepito come una lontana burocrazia che prende decisioni incomprensibili e si fa viva soprattutto per aumentare le tasse. Il piccolo proprietario di campagna nel migliore dei casi è disposto a battersi per difendere il suo villaggio, non i remoti confini di un Impero che percepisce come lontano e verso il quale non sente più nessun «patriottismo», nel peggiore accoglie i «barbari» come liberatori dal fisco romano che lo sta mandando in rovina.
Certamente De Jaeghere potrebbe dedicare più attenzione alle ragioni strettamente religiose del declino, studiate in chiave sociologica da Rodney Stark. Il declino della religione pagana, non più persuasiva per nessuno, è alle origini del declino della «pietas». Avrebbe potuto sostituirla il cristianesimo - di fatto lo farà, ma più tardi - che, come dimostra anche solo una rapida lettura di Sant'Agostino, sapeva trovare in sé le ragioni per difendere l'Impero e la cosa pubblica, di cui non si disinteressava affatto. Ma nell'Impero Romano d'Occidente, anche quando lo professavano gli imperatori, il cristianesimo era minoritario.

CONCLUSIONI PER L'OGGI
Le lezioni per il nostro mondo sono ovvie. Con tutte le cautele che richiede ogni paragone fra epoche diversissime, la caduta di Roma mostra come grandi civiltà possano finire, e che il modo della loro fine normalmente è demografico. Gli imperi cadono quando non fanno più figli, e la denatalità innesca una spirale diabolica di tasse insostenibili, statalismo dell'economia, immigrazione non governata ed eserciti imbelli. Per capire la pertinenza della parabola romana rispetto ai giorni nostri non servono troppi libri, basta aprire le finestre e guardarsi intorno.
Su un punto, peraltro, i critici di De Jaeghere hanno qualche ragione. Gli immigrati e gli invasori di Roma avevano un vantaggio rispetto a immigrati e «invasori» di oggi. In gran parte germanici, non erano portatori di una cultura forte. Riconoscevano la superiorità della cultura romana: cercarono di appropriarsene e finirono anche per convertirsi al cristianesimo. Attraverso secoli di sangue, sudore e fatica la caduta dell'Impero romano d'Occidente prepara così la cristianità del Medioevo.
Oggi gli immigrati e gli «invasori» - invasori tramite l'economia, o aspiranti invasori in armi come il Califfo - sono portatori di un pensiero fortissimo, sia quello islamico o quello cinese: non pensano di dovere assimilare la nostra cultura ma vogliono convincerci della superiorità della loro. La crisi che potrebbe seguirne potrebbe essere ancora più letale di quanto fu per l'Europa la caduta di Roma. Per questo, discutere sulle ragioni della caduta dell'Impero romano d'Occidente non è un puro esercizio intellettuale.

Fonte: La nuova Bussola Quotidiana, 23 febbraio 2015

25/03/15

La strategia metapolitica di Alain De Benoist. Una critica mirata

 

La rivista “Metapolitica” in passato si è occupata a più riprese del fenomeno della “Nuova Destra” francese (Nouvelle Droite), del Grece (Gruppo di Ricerca e di Studi per la civiltà europea) e del suo principale animatore Alain de Benoist (1943); rimandiamo in particolare agli articoli “A Parigi si rumina”, (n. 1-2, 1980) e “Sole di Roma e nebbie parigine” (3-4, 1980), vergati entrambi da Silvano Panunzio. 
Alain De Benoist è senza dubbio, come ebbe a definirlo Pierre-André Taguieff, un “intellettuale atipico” e la sua intelligenza e il suo imponente bagaglio culturale sono fuori discussione. Anche i suoi numerosi saggi (una trentina di titoli) costituiscono un patrimonio di cultura e di analisi di cui non ci si può sbarazzare facilmente. Arriviamo anche a dire che la cosiddetta “Nuova Destra”, anche nella sua versione italica con Marco Tarchi in testa, rappresenta forse uno degli sviluppi più interessanti e originali del pensiero conservatore; qualcosa di paragonabile, servata distantia, alla “Scuola di Francoforte”  degli Horkheimer, Adorno e Marcuse. Tuttavia, andando più a fondo, se ne debbono anche indicare limiti ed errori; errori non di poco conto sui quali è doveroso soffermarsi.
Il saggio che segue, a firma Primo Siena, giunge pertanto a proposito non solo per rimettere le cose in chiaro sul fenomeno politico-culturale (in realtà parapolitico e per certi aspetti paraculturale) della N.D., ma anche per indicarne una volta per tutte gli errori “ideologici” che – sia chiaro, dal nostro punto di vista - rappresentano uno sviamento dalla metapolitica e un tradimento del vero e autentico agire metapolitico.
A.L.F.


di Primo Siena

1.   “Il gramscismo di destra” come strategia politico-culturale

Il concetto di metapolitica ha iniziato a diffondersi ampiamente soprattutto nell’ambito della cultura europea, durante la seconda metà del XX Secolo (all’incirca negli anni settanta), per merito del circolo ideologico francese denominato "Grece" (Groupement de Recherche et d'Étude pour la Civilisation Européenne), organizzazione culturale che si presentava come una scuola di pensiero ispirata a una prospettiva metapolitica, meglio nota come “Nuova Destra“ (“nouvelle droite”). L’intellettuale più importante del gruppo è stato ed è l’illustre saggista e politologo Alain de Benoist che già nel 1968 aveva affermato: “Abbiamo sempre situato la nostra azione sul piano metapolitico o transpolitico, culturale e teorico allo stesso tempo; e questa è una vocazione alla quale non sapremmo rinunciare” (1).
Fin dalla sua nascita (seminario nazionale di Lione, 11/12 novembre 1968) il Grece aveva posto la domanda: che cos’è la metapolitica?
Alain de Benoist stesso risponde descrivendo una strategia culturale che definisce “gramscismo di destra”. InVu de Droite(Copernic, Parigi 1977, edizione italiana Akropolis, Napoli 1981), il saggista francese riconosce nel comunista italiano Antonio Gramsci un “teorico dell’egemonia culturale il quale aveva postulato la necessità di impadronirsi dei mezzi culturali e d’informazione come presupposto per la successiva conquista del potere politico: Gramsci ha dimostrato che la conquista del potere politico passa attraverso la conquista del potere culturale” (2).
Pertanto De Benoist propone di denunciare la strategia culturale gramsciana come una forma di “terrorismo intellettualedella sinistra marxista europea, e consiglia di agire successivamente in modo da realizzare un contro-potere culturale (ideologico, simbolico, persino linguistico) capace di opporsi vittoriosamente, sul suo stesso terreno, a quella sinistra identificata come il "nemico ideologico".
Tutto ciò stava a indicare la necessità di considerare il ruolo assiale delle idee nel divenire della storia come aspetto prevalente rispetto all’economia, situandosi così in una prospettiva opposta sia al marxismo che al liberalismo (entrambi imbevuti di un economicismo radicale determinante nel sistema socio-politico delle nazioni), al fine di condizionare totalmente la volontà e l’azione umane.
Da questa prospettiva, la “nouvelle droite” non entra concretamente nell’arena politica e non prende posizione in alcun senso poiché considera che i partiti politici siano stati superati dai mezzi di comunicazione di poteri concreti piuttosto occulti, i quali stanno trasformando il mondo in un campo di battaglie ideologiche; dunque è qui che bisogna intraprendere la battaglia delle idee per mezzo di un nuovo atteggiamento intellettuale.
La stessa denominazione “Nuova Destra” risultava discutibile fin da principio, nel senso che venne scelta perché non si adattava alle forme di pensiero della sinistra ed era anche lontana dai postulati abituali della destra storica (tradizionalisti, liberali o conservatori).
Ma dopo  l’implosione e il conseguente crollo del comunismo sovietico e la caduta del muro di Berlino, l’anticomunismo della “Nouvelle Droite” degli anni settanta venne riformulato.
Come giustamente ha fatto notare l’intellettuale croato Tomislav Sunić nel discutere le fondamenta del “pensiero politicamente corretto” della cultura occidentale (3), la decadenza politica già denunciata a suo tempo da Carl Schmitt e la crisi finanziaria del 2008, aprono ulteriori spazi di opportunità alla Nuova Destra (ND) europea: il ruolo dello Stato è ormai considerato dal “politicamente corretto” come qualcosa di obsoleto; il liberalismo economico e il liberalismo politico, propugnati dagli intellettuali “che passarono da Mao al Rotary Club”, dimostrano adesso tutta la propria incapacità di articolare una visione ideologica atta ad affrontare i problemi culturali e sociopolitici dei tempi nuovi.
Il marxismo è tutt’ora stigmatizzato dalla ND, non tanto nel suo senso materialista-economicista, ma come “estrema espressione dell’egalitarismo”. La critica alla modernità è focalizzata, senza ansia di restaurazione, verso quella “metafisica della soggettività” che riassume in sé le categorie dell’“individualismo-universalismo” nonché del “nazionalismo” o dell’“etnocentrismo”; aspetti di un centralismo rifiutato in favore di un federalismo integrale basato sulla sussidiarietà e sulle autonomie locali, nel quale possano trovare spazio differenze ed identità collettive che riescano ad esprimersi attraverso una democrazia partecipativa.   
Nel manifesto de La nuova destra dell’anno 2000, redatto con Charles Charpentier, Alain de Benoist definisce con maggiore precisione la sua concezione metapolitica in termini che differiscono  da quelli della posizione più esplicita del “gramscismo di destra” degli anni settanta:
La metapolitica non è un altro modo di fare politica. Non è affatto una strategia che cerca di imporre un’egemonia intellettuale; non pretende nemmeno di squalificare altre posizioni o altri atteggiamenti possibili. Semplicemente la metapolitica riposa sulla costatazione che le idee giocano un ruolo fondamentale nella coscienza collettiva e, in forma più generale, in tutta la storia umana. Eraclito, Aristotele, Agostino, Tommaso d’Aquino, René Descartes, Immanuel Kant, Adam Smith o Karl Marx provocarono importanti rivolgimenti nel loro tempo e con le loro opere, i cui effetti si sentono ancora oggi”.
L’amico argentino Alberto Buela, acuto ed originale cultore della metapolitica, riconosce in questa affermazione di Alain de Benoist una funzionalità mai raggiunta prima; vale a dire: “la funzione di esplicitare ciò che è implicito nelle grandi categorie che condizionano l’azione politica e il pensiero”(4). Ma allo stesso tempo Buela imputa  a de Benoist–  sia pure amichevolmente - che “il suo grande limite è stato quello di fare metapolitica senza politica, quando invece la conseguenza naturale di questa disciplina è quella di arrivare all’azione politica”.
Sia l’affermazione di Alain de Benoist secondo la quale “la metapolitica  non è un altro modo di fare politica” che la considerazione di Alberto Buela (a mio modesto parere un po’ contraddittoria), secondo la quale questa posizione costituirebbe un grande limite della metapolitica formulata dal pensatore francese, suggeriscono una riflessione critica sul vocabolo politica; vocabolo al quale la semantica classica conferisce il significato di arte di governare (secondo il greco classico: politiké associato a tekné). Si tratta di un’arte sostenuta, nel suo senso più nobile ed autentico, da principi e valori profondi e non da semplici opinioni soggette all’impero delle maggioranze, classificate da Gian Giacomo Rousseau come l’espressione di una volontà generale che gode inoltre del privilegio dell’infallibilità.
Nei tempi moderni, il tema della politica viene considerato normalmente sotto tre aspetti:
a)     Scienza politica o politologia, che studia in senso ampio i fatti politici, includendo le aspirazioni, i fini e i progetti dell’azione politica;
b)    Filosofia politica, che studia i concetti usati dalla scienza politica nel suo carattere sostantivo e nelle sue valutazioni espresse come dottrina politica o ideologie politiche, da quando Destutt de Tracy (1754-1836) coniò il termine “ideologia” per rimpiazzare la parola “metafisica” (1976);
c)     Azione politica, che si rapporta con forme, strutture e attività dei governi, dei partiti e delle istituzioni sociali in generale.
Secondo questi tre aspetti non si può escludere l’azione culturale di Alain de Benoist e dei suoi continuatori dalla categoria della politica,  pur se tale azione si svolge lontana  da qualunque attività di partito o dalle organizzazioni partitiche, essendo innegabile l’influenza del suo pensiero sull’attuale cultura politica ed i suoi riflessi indiretti sulla stessa azione politica. 
Quando questo modo di pensare presenta un modello di  “società comunitaria” alternativa all’individualismo, quando critica con forza radicale la categoria del “mondialismo” come ordine guidato dal modello americano, quando imposta una concezione alternativa della democrazia e dello Stato moderno e propone un quadro di difesa delle identità etnico culturali dei paesi in contrapposizione all’uniformità di un progetto planetario del pensiero unico, non v’è dubbio, secondo la mia opinione, che Alain de Benoist espone problematiche (per altro, condivisibili) che influiscono concretamente sulla filosofia politica, sulla politologia e sull’azione politica.
L’ideologo francese non coltiva, quindi, un’archeologia ideologica; i suoi interessi e le sue preoccupazioni intellettuali si rivolgono ai problemi e alle sfide che ci propone una post-modernità ancora inquieta e confusa, avvolta nei tentacoli di un capitalismo planetario apolide che eleva al cubo l’utilitarismo individualista infrangendo il senso comunitario e unitario in pro di un pensiero unico totalitario.

2. Limiti e contraddizioni del neopaganesimo di Alain de Benoist

Ma c’è un aspetto importante nel pensiero di Alain de Benoist che suscita uno sguardo critico nonché profonde riserve e ricusazioni.
Si tratta della questione religiosa risolta – come osserva con chiarezza José Javier Esparza (5) - “con una critica acerba del cristianesimo e con la rivendicazione di un paganesimo di nuovo conio”.
Anche se inizialmente molti collaboratori della rivista “Nouvelle École” erano cristiani, la “deriva pagana” del pensiero della ND, in special modo per quanto riguarda la posizione dottrinale di Alain de Benoist, è diventata “canonica” attraverso la ricerca dell’origine intellettuale dell’egalitarismo, dell’individualismo e dell’universalismo.
Egli attribuisce al cristianesimo tre colpe essenziali: a) l’egalitarismo, perché proclama tutti gli uomini uguali davanti a Dio creatore e assegna un’anima uguale ad ogni uomo; b) l’individualismo, perché il cristianesimo predica che l’uomo possiede un’anima individuale per cui la sua salvezza si situa su un piano esclusivamente personale tra la creatura umana e Dio creatore; c) infine, l’universalismo, perché – come predicava San Paolo - dopo la Rivelazione di Cristo Gesù “non c'è più né giudeo, né greco, scita, né barbaro, uomo, donna. Tutti siamo una sola cosa in Cristo”.
Queste caratteristiche essenziali del cristianesimo si troverebbero all’origine del mondo moderno, delle sue debolezze e dei suoi errori, facendosi quindi seme della sovversione che affligge la contemporaneità e di fronte alla quale si rende necessaria una “ribellione pagana” capace di provocare una rottura simultanea con le ideologie moderne considerate prolungamenti del messaggio evangelico e di proporre al loro posto un neopaganesimo politeista.
I punti di partenza di questa posizione anticristiana di Alain de Benoist sono, tra gli altri, il pensiero del filosofo positivista Luis Rougier (che si rifà al documento del romano Celso contro i cristiani della fine del II Secolo d.C.), e il tormentato ultimo Nietzsche che formula una critica radicale del nostro mondo moderno, ma rimanendone all’interno.
Il neopaganesimo di Alain de Benoist viene esposto in successive formulazioni, la più brillante delle quali è raccolta nel libro L’eclissi del sacro: dialogo tra lui e il pensatore cattolico ungherese Thomas Molnar (già collaboratore della ND negli anni della sua fondazione).
La scelta del neopaganesimo si propone la riabilitazione di una mentalità precristiana essenzialmente diversificatrice, pluralista, che si distingue per il suo senso gioviale dell’esistenza, la libertà dei costumi e il pluralismo intellettuale, interpretata da una moltitudine di dèi che, a loro volta, indicherebbero una pluralità sociale e umana come opzione di vita; il tutto in opposizione a una cosmo-visione cristiana ipoteticamente rinchiusa in una mentalità ristretta, monista, omogeneizzatrice, dominata totalmente da un Dio unico.
Questa deriva pagana contiene aspetti contraddittori meritevoli di alcune osservazioni. La prima concerne il fatto che essendo il cristianesimo portatore nel mondo dell’idea di uguaglianza degli esseri umani davanti a Dio,  costituirebbe la radice dell’attuale egalitarismo, la cui conseguenza sarebbe il democratismo burocratico, lo statalismo e la soppressione di ogni responsabilità individuale.
Ma esiste un abisso evidente tra l’uguaglianza degli uomini davanti a Dio e l’egalitarismo moderno: la prima è essenzialmente spirituale e trascendente, mentre il secondo, sordo ad ogni istanza spirituale, è totalmente immanente.
Al riguardo, l’eminente e acuto filosofo italiano Sergio Sarti (1920-2004), commenta: “Se volessimo cercare nell’antichità un precedente dell’egalitarismo attuale, potremmo trovarlo nello stoicismo che emerse e si affermò durante il tardo paganesimo per cui poté essere incorporato senza problemi; e quando il cristianesimo riuscì a realizzarsi in forme politiche concrete, non creò una società egalitaria, ma piuttosto si organizzò come società fortemente differenziata e gerarchizzata” (6).
Inoltre – segnala opportunamente il filosofo italiano - mentre l’antico paganesimo si estingueva per esaurimento interno, il cristianesimo ne assorbiva gli elementi vitali.
Non si può dimenticare che se il cristianesimo ha distrutto meraviglie pagane, le ha sostituite con meraviglie cristiane; che se ha seminato lutti intensi ha suscitato anche profonde consolazioni alternando tempi di intolleranza con la pratica del perdono.
José Javier Esparza considera che la questione dell’egalitarismo risulta cruciale nel pensiero di Alain de Benoist perché parte da un errore iniziale, ovvero deduce dalla critica generale del giudeo-cristianesimo (considerato la “matrice di ogni pensiero egalitario”) un’identificazione tra uguaglianza metafisica ed egalitarismo politico; operazione arbitraria, poiché il cristianesimo predica l’esistenza di un’anima uguale per ogni uomo, ma rileva altresì  una differenza altrettanto importante  quando sostiene che gli esseri umani possono salvarsi o meno in base al proprio comportamento etico nella vita.
Alain de Benoist ricorre al “panteon pagano” per riattualizzare “il modo di pensare lo spirituale in rapporto al sociale”, riconfermando così la sua  fedeltà alla tradizione europea, come osserva ancora Esparza, che subito dopo si chiede: “Perché il pantheon pagano dovrebbe essere più tradizionale del santorale cristiano? Perché è autoctono, senza contaminazione di elementi extraeuropei? Forse che San Giorgio, San Benito e San Bernardo, le processioni della Madonna o lo spirito della Crociata o i mistici tedeschi o spagnoli non sono esclusivamente europei?”(7).
Cercare di separare l’identità dell’Europa dal cristianesimo è un altro errore nel quale incorre de Benoist. Come ci hanno insegnato Joseph de Maistre e Novalis, è impossibile separare due concezioni affini come il cristianesimo e l’Europa.
L’Europa non sarebbe esistita senza il cristianesimo del sacro Impero romano-germanico del Medio Evo; e non si può scegliere o l’una o l’altro poiché entrambi formano una sintesi tra l’immanente e il trascendente. Fuori dal cristianesimo – osservava Vintila Horia - l’Europa si troverebbe spinta nella selva oscura che impediva a Dante l’accesso all’aldilà, ovvero alla conoscenza ultima. Fu necessario l’intervento del sapiente precristiano Virgilio affinché il poeta cristiano potesse avvicinarsi al regno del Paradiso dove poi, guidato da Beatrice, rimase abbagliato dalla luce del mistero trinitario; mistero di un Dio che si manifesta in tre persone uguali e distinte contraddicendo il carattere di monismo assoluto che de Benoist attribuisce al cristianesimo.
Il paganesimo viene così rivestito dell’essenza spirituale della novità cristiana, alla quale appartengono le tre correnti del cristianesimo, presenti e attive in Europa: cattolici, ortodossi, evangelici. Persino alcuni Padri della Chiesa dimostrarono la massima comprensione per culti ed elementi simbolici delle civiltà precristiane.
L’osservazione puntuale di Vintila Horia è rafforzata  a sua volta da Esparza: “Nella storia dell’Europa precristiana troviamo esempi di pluralismo intellettuale e di chiusure fanatiche, di buona politica e di corruzione generalizzata, di allegria vitale e di oscuro terrore superstizioso, di libertà di abitudini e di austerità morale. E allo stesso modo, nella storia dell’Europa cristiana, non mancano (anzi, abbondano), gli esempi di rilassatezza morale, di giovialità esistenziale, di pensiero audace, di istituzioni politiche sane; soprattutto se facciamo le dovute differenze tra il colorato universo cattolico mediterraneo e il tenebroso mondo protestante, per esempio, anglosassone”.
Inoltre, la tesi politeista di Alain de Benoist richiama l’oscuro ricordo di quel paganesimo al quale cercò di tornare il nazismo tedesco: una superstizione assurda che aveva la pretesa di attualizzare una visione religiosa esaurita, consistente nella divinizzazione dei fenomeni naturali e di una razza umana da restituire alla purezza delle sue origini ariane, elevandola alla categoria di idolo.
I difensori del neopaganesimo benoistiano obiettano ai loro contraddittori che non si tratta di resuscitare gli antichi dèi, non avendo la deriva neopagana una funzione teologica, ma simbolica ed estetica; spiegazione un tantino arbitraria e poco convincente.
Come insegna padre Dante, il senso religioso non si può limitare ad una cosmo-visione culturale ed estetica, bensì deve manifestarsi come partecipazione piena del sacro che si eleva a mistero divino.

3. La metapolitica orizzontale di Alain de Benoist versus la  metapolitica verticale

La cosmovisione benoistiana ha aperto indubbiamente nuovi orizzonti con le sue proposte critiche nei confronti della modernità, specialmente rispetto all’occidentalismo americano-centrico. In questo modo, con un’operazione intellettuale senza troppi riguardi, egli – come ebbe ad osservare Marcello Veneziani – ha messo in difficoltà le vecchie destre che vacillavano tra l’apocalissi e l’adattamento, ovvero, tra l’ipercriticismo e l’acrasia pragmatica. Il salto di Alain de Benoist è stato notevole, ma – aggiunge Veneziani - l’atterraggio è stato sicuramente barcollante (8).
Questo barcollamento si avverte quando la postulazione dei valori del sacro si alterna con concezioni nichiliste di sapore nominalista, quando si nega l’esistenza dell’uomo naturale in pro della formazione di un uomo nuovo, insinuando in questo modo la tesi totalitaria di un self-made man tutto da inventare. Si scorge nel pensiero di Alain de Benoist un faustismo dal quale dissentiamo tutti noi che consideriamo la metapolitica in senso diverso, specialmente quando da questo faustismo affiora uno scientismo applicato all’evoluzionismo e all’hybris tecnologica.
Cercheremo di spiegare alcune differenze rispetto al pensatore francese a cominciare dalla sua opzione iniziale di un “gramscismo di destra”, definizione che consideriamo impropria. Sorvolando sul criterio metodologico di Gramsci – che mira a dominare la società civile partendo dal controllo del potere culturale per conseguire il potere politico - non bisogna dimenticare che il gramscismo è un’attualizzazione del pensiero materialista nella sua versione illuminista: “un Illuminismo di massa” realizzato dalle élites che si propongono la riforma intellettuale e morale della società in senso laicista-progressista.
E’ nell’ambito di quel “gramscismo di destra” che la “metapolitica” benoistiana si contrae nei limiti di una mimesi linguistica risolvendosi in un mero momento di contropotere opposto alla cultura dominante; vale a dire, in un’azione culturale che precede la politica per assoggettarla a nuovi valori e a nuovi parametri al fine di conquistare successivamente il potere politico. Questi limiti – a mio giudizio - permangono nella visione ideologica benoistiana malgrado il superamento del suo gramscismo iniziale.
Un altro motivo di disaccordo con la metapolitica di Alain de Benoist è il suo carattere nominalista. Secondo lui non esiste una natura in sé, poiché l’uomo crea i propri valori, i propri dèi e le essenze universali della vita; da qui una concezione filosofica nutrita di immanentismo vitalista, di soggettivismo eroico e di relativismo che risale ad alcune radici anti metafisiche della filosofia europea che da Occam arriva fino ai giorni nostri. Leggendo Nietzsche in chiave di soggettivismo eroico, Alain de Benoist si avvicina a Stirner e arriva a Marx passando per Feuerbach e per l’idealismo tedesco perché - come ha osservato opportunamente sempre Marcello Veneziani - l’idea che l’Essere sia solo il nome di una proiezione del soggetto è una caratteristica dell’umanesimo del giovane Marx estrapolata da Feuerbach, così che il niccianesimo benoistiano risulterebbe essere la versione aristocratica del suo immanentismo antropocentrico versus la versione plebea ed egalitaria di Carl Marx (9). 
Quando il “maitre a penser” delle Gallie sostiene che la finalità dell’essere umano consiste nel costruirsi in conformità con l’idea che si è fatto di sé, aderisce implicitamente alla concezione secondo la quale l’uomo crea se stesso come vuole il modello borghese e capitalista del self-made men al quale invece il pensatore francese cerca di opporsi.
Ma la discrepanza più grande in Alain de Benoist è la sua fuoriuscita dall’ambito della metafisica, il che gli impedisce di cogliere l’essenza specifica, religiosa e metafisica di una Metapolitica superiore. Quando la concezione del sacro dipende unicamente dalla volontà umana, diventa un mero convenzionalismo che degrada la dignità del Numen (del Divino) alla meschinità del nomen. Di conseguenza la metapolitica benoistiana cerca di andare aldilà della politica, ma non in senso superiore bensì rimanendo a un livello orizzontale precisamente perché manca di una dimensione metafisica.
L’autentico senso semantico del vocabolo metà-politika (ovvero, aldilà della politica) consente di stabilire un ineludibile collegamento tra “metapolitica” e “metafisica della politica”, quando la politica stessa viene considerata come scienza non esclusivamente teorica, ma piuttosto come una concezione del bene comune che si realizza concretamente laddove il metapolitico agisce, come ha sostenuto a suo tempo il pensatore hindo-spagnolo Raimon Panikkar: “Dal livello evolutivo del metapolitico, la politica attuale, arte o scienza della gestione, si trasforma in un vivere la pienezza di ciascun essere umano”. In questo senso, asseriva Panikkar, lo studio della natura quale fondamento dell’azione politica, non deve più passare attraverso il filtro della ragione razionalista, ma piuttosto deve elevarsi a un più alto livello di coscienza, fino ad arrivare a scorgere la realtà in una nuova prospettiva. La politica, insisteva ancora Panikkar, risiede nel mito, vale a dire, in un concetto che ci induce  a cambiare la visione del mondo imposta dal moderno scientismo riduzionista, altrimenti non potremo mai superare la crisi che attualmente ci avvolge. Panikkar concludeva dicendo che la metapolitica riunisce due mondi precedentemente incomunicanti, il religioso e il politico, dove l’azione etica dell’uomo è sostenuta da principi spirituali trascendenti (10).
Il principio della trascendenza risulta, inoltre, implicito nella politica concepita come un ramo etico della convivenza umana organizzata nel suo senso sociologico e giuridico, che raggiunge infine la metafisica, come insegnava il mio illustre maestro Marino Gentile nell’antica Università di Padova (11).
Svolgendo un corso accademico su “Il filosofo di fronte allo Stato” (1960), Marino Gentile affermava: “Una filigrana naturale collega l’uomo allo Stato perché non esiste ordine giuridico senza morale come non c’è ordine fisico senza metafisica”. Formato alla scuola patavina di Marino Gentile, mi risulta naturale considerare metafisica e metapolitica come sorelle gemelle, essendo la metafisica una “metafisica applicata” il cui proposito non è sostituire o indebolire la politica, bensì consolidarla e rafforzarla per mezzo di una operatio aesthetica, ovvero, per mezzo di un’azione nobile sostenuta da valori concreti (recte agere) e ispirata da principi spirituali profondi (recte scire). 
Secondo questa prospettiva, nell’azione politica interviene una delicata mediazione tra i principi etici e le situazioni concrete della vita sociale ordinate alle esigenze dell’uomo, al fine di trovare nei codici etici un senso ultimo della vita delle persone e delle comunità. Ma l’etica non appartiene al dominio della fisica (ovvero, della materialità), mentre la politica presenta un fondamento antropologico collegato all’éthos, il quale a sua volta riprende l’essenza dell’essere umano nella sua alta e profonda dignità di creatura.
Una metapolitica così concepita risulta non già una scienza profana e antimetafisica, ma piuttosto una scienza sacra capace di abbordare – secondo la lezione magistrale di Gian Battista Vico - il mistero escatologico della storia “ideale ed eterna”, che guida gli uomini e le nazione nel corso del tempo. E qui risiede il fondamento metafisico di ogni dottrina sociale, posto che ciascun rapporto tra l’uomo e la comunità che egli integra risulta possibile solo quando è percepito e sostenuto dal rapporto tra l’essere umano in quanto creatura e Dio suo Creatore. In questo duplice rapporto consiste uno dei tratti della metapolitica:  estrapolare la storia cosmica dalla storia umana cercando l’immutabile nei diversi piani della fenomenologia.
Allora la metapolitica, mediante la ricerca fenomenologica, cerca di scrutare nei cicli storici per cogliere in essi l’intervento divino negli accadimenti umani, come c’insegna sempre Gian Battista Vico, il quale con la sua “Scienza Nuova” ha dimostrato l’esistenza di uno stretto rapporto tra religione e civiltà.
In questo senso, la metapolitica non può ignorare, nella dimensione escatologica dell’essere umano, la presenza di una escatologia civile rappresentata simbolicamente dal fuoco profano (che distrugge la ingens sylva primordiale per dare spazio alla civilizzazione della terra), collocato al lato del fuoco sacro che arde sull’altare come simbolo divino, per proteggere la civiltà e la cultura.
Si tratta di una concezione interpretata secondo l’approfondimento sistematico di Silvano Panunzio (12), la cui caratteristica consiste nella radicale contrapposizione tra la metapolitica e la criptopolitica, essendo la prima concepita come una scienza sintetica che in sé riassume la metafisica (scienza dei principi primi), la politica (scienza dei mezzi) e l’escatologia (scienza dei fini ultimi).
In contrapposizione alla prima, la criptopolitica è l’espressione di poteri  occulti, oscuri e nefasti che, con la maschera della politica, stanno occupando progressivamente gli spazi che erano appartenuti alla politica nobile del “Buon Governo”, plasticamente affrescata dal pittore medievale Ambrogio Lorenzetti sui muri del Palazzo Comunale di Siena, secondo una visione teocentrica della civiltà sostenuta da Giustizia e Concordia, qualità che forniscono alla società umana la felicità della vita e la serenità del lavoro.
L’espansione ogni giorno più imbarazzante della criptopolitica esige pertanto l’azione decisa della metapolitica allo scopo di riposizionare l’autentica politica sloggiata surrettiziamente dal suo naturale contesto dalla cinica modernità che ci opprime.
Ciò comporta principalmente, la ricerca di una concezione organica del Potere e dello Stato che, stante la divisione illuminista dei tre poteri (legislativo, giudiziario ed esecutivo), suscitata dalla mentalità individualista di Locke e Montesquieu, le contrapponga una concezione unica del Potere mediante la coordinazione delle sue diverse espressioni e funzioni; coordinazione che secondo la lezione della giurisprudenza romana ex facto oritur ius, associa alle tre funzioni classiche (legislativa, esecutiva, giudiziaria), una quarta: la funzione corporativa, raccolta nei corpi sociali intermedi che assicurano la presenza attiva della sovranità civile accanto alla sovranità politica.
In quest’ottica, la metapolitica sviluppa una dialettica feconda tra la graduazione dei valori etici e le istanze pratiche della politica, orientandosi verso una soluzione positiva del problema della vita (veritas salutaris) ispirata da una metapolitica verticale che mira alle mete più alte.
Per questo, mentre i metafisici si occupano di “conoscere”, Silvano Panunzio incita i metapolitici, cultori della metafisica applicata, ad agire. Così, la politica spesso degradata esclusivamente alla ricerca di vantaggi materiali oppure ossessionata dal dominio cinicamente perseguito, potrà recuperare la nobiltà del suo valore essendo restituita alla sua autentica missione pro ari et focis: suscitare nuovamente nell’inquieta società del terzo millennio la libera riunione di uomini liberi secondo la tradizione romano-cristiana, dove affiora un progetto di civilizzazione che permetta all’umanità post moderna del ventunesimo secolo di intraprendere il cammino della conciliazione personale e dell’armonia sociale. Vale a dire, di procedere nella dantesca diritta via che conduce verso un modello sapiente della politica capace di elevare l’arte del buon governo della Civitas Hominum alle vette luminose della metapolitica ispirata ai principi trascendenti del Regnum Dei.

Note

(1) A. de Benoist, Orientacions pour des années décisives. La Labyrinthe, Paris 1982, p. 12.
Secondo una diligente ricerca storico-filologica del filosofo spagnolo Gustavo Bueno Martínez, il vocabolo “metapolitica” risale indietro nel tempo fino al 1600, essendo usato dal monaco cistercense madrilegno Juan Caramuel, definito il “Leibnitz spagnolo”, che fu vescovo di Vigevano, città del nord Italia (1606-1682).
(2)  A. de Benoist, op. cit. p. 11.
(3) Tomislav Sunić, Contra la Democracia y la Igualdad. La Nueva Derecha Europea, ed. Fides, Tarragona 2014.
Quest’opera è la versione castigliana dell’originale inglese scritto originariamente come tesi di dottorato nel 1988.  Tomislav Sunić (Zagabria, 1953) è Dottore in Scienze Politiche presso l’Università della California Santa Bárbara. Autore di diversi libri tra i quali: Homo americanus  (ed. castigliana 2008) e Croniques Des Temps Postmodernes (ed. francese, marzo 2014). Saggista e conferenziere vivace, è un’originale interprete della nuova destra europea.
(4) A. Buela, Metapolítica y Disenso en Alain de Benoist (breve saggio ancora inedito, dicembre 2014).
(5) J.J. Esparza, La Cuestión religiosa y la “Nueva Derecha” in: www.josejavieresparza.es, 14 luglio 2014.
(6) S. Sarti, L’uomo assiale. Ed. Japadre, Roma 1986, p. 253-254.
(7)  J.J. Esparza, op. cit., p. 7. Le citazioni seguenti di J. Javier Esparza sono estrapolate dallo stesso testo.
(8)  M. Veneziani, Processo all’Occidente, Sugarco, 1990, p.178.
(9)  M. Veneziani Op. cit., p.169-170.
(10) R. Panikkar,  El espiritu de la Política: homo politicus. Península ed., Barcelona 1999.
(11) Marino Gentile (1906-1991), fondatore della “scuola patavina di filosofia”, impegnata ad     attualizzare la filosofia aristotelica e a riscattare la metafisica classica.
(12) S. Panunzio, Metapolitica. La Roma Eterna e la Nuova Gerusalemme. II volumi, ed. Babuino, Roma 1979, p. 918. Dello stesso autore anche: “La conservazione rivoluzionaria (dal dramma politico del Novecento alla svolta metapolitica del Duemila)”, ed. Il Cinabro, Catania 1996, p. 198.