28/09/12

Vintila Horia, l’esilio e il sogno di una grande patria europea



di Romano Guatta Caldini

Sono innumerevoli gli autori relegati nel limbo dell’editoria, un po’ perché le loro tesi sono considerate politicamente scorrette, dalla massa degli utili idioti che popolano il mondo della critica letteraria, un po’ perché questi scrittori vengono sempre etichettati come impresentabili, a causa dei loro percorsi esistenziali che non corrispondono al cliché dell’intellettuale “democratico”. Fra i dannati della letteratura, un posto di primo piano lo occupa sicuramente Vintila Horia, il déraciné per eccellenza.

Il tema dell’esilio – in Horia – è una costante. Lui, scrittore autenticamente di destra, è il simbolo di quella generazione di intellettuali che, dopo il tramonto dei fascismi e l’instaurarsi delle dittature comuniste nell’est Europa, passarono tutta la vita lontani dalla madre patria. Sebbene, durante la giovinezza, Horia non abbia mai contemplato l’ipotesi di tornare in Romania – il Paese d’origine che lo condannò ai lavori forzati con l’accusa di propaganda fascista – il richiamo della “terra dei padri” influì notevolmente sulla sua produzione letteraria. “Incominciò allora - scrive Horia - il mio vero esilio come un processo di anacoretismo, cioè come un processo di separazione da tutto quello che io ero stato”. Fra i suoi scritti ricordiamo: “Dio è nato in esilio”, “Gli impossibili”, “La rivolta degli scrittori sovietici”, “Il cavaliere della rassegnazione”, “La settima lettera” ed “Una donna per l’Apocalisse”.

Per un esiliato la vita è fatta di incessanti peregrinazioni, alla ricerca - forse inconsapevole - di un’Itaca perduta per sempre. Italia, Austria, Francia, Spagna: furono molte le mete toccate da Horia nel suo percorso di viandante, nell’Europa martoriata dal secondo conflitto mondiale prima e dalla guerra fredda poi. E sono proprio le persone incontrate sulla via i personaggi dei suoi romanzi, come Clara, la bella esule polacca co-protagonista – con Horia “Io narrante” - de “Gli impossibili”. Entrambi in fuga dal comunismo e dai fantasmi del passato, Vintila e Clara si incontrano a Losanna, città che ha dato da sempre rifugio ai perseguitati politici. “Due esiliati - scrive il curatore de Gli Impossibili, per le edizioni Il Borghese - due creature strappate dalla violenza della guerra e dalle aberrazioni della politica al loro Paese; ciascuno spera di ritrovare, nell’amore, la patria, cioè, la fine della solitudine”.

Clara entra nella vita di Horia come una cometa, come un bagliore sfuggente che illumina – per un brevissimo lasso di tempo, l’esistenza dello scrittore rumeno. Nella solitudine interiore di lei, Horia trova ristoro, nella sofferenza provocatale da un passato popolato di fantasmi, l’autore trova le proprie radici, un contatto, seppur effimero, con la lontana Romania. Ed è così, attraverso un viaggio a ritroso nel tempo che Horia ripercorre le tappe che lo hanno portato a Losanna. Un percorso angosciante che partendo dalla casa paterna - ormai spazzata via dal regime comunista – arriva fino all’avvenimento che segnò la svolta negli orientamenti politici dell’autore: l’assassinio, in mezzo alla folla, di tre legionari della Guardia di Ferro.

Come per i suoi connazionali, Emil Cioran e Mircea Eliade, anche per Horia il successo arriverà durante il suo soggiorno forzato all’estero. Nel “60, con la pubblicazione del suo capolavoro, “Dio è nato in esilio”, ad Horia venne assegnato il Premio Gouncourt, il più noto riconoscimento letterario di Francia. Eppure, anche questa volta, i fantasmi del passato tornarono a riscuotere il proprio tributo. Dopo la vittoria del Gouncort, Horia venne invitato a farsi fotografare con il funzionario, dell’ambasciata rumena a Parigi, addetto alle relazioni. Un tentativo, da parte del regime comunista, di riavvicinare lo scrittore. Horia, però, rifiutò l’esortazione e, a quel punto, dalle pagine de L’Humanité scattò una campagna stampa tendente a screditarlo. Il quotidiano marxista, imbeccato dall’inteligencja rumena, mise in atto un violento attacco che, ricordando i trascorsi fascisti dello scrittore, ebbe come risultato la restituzione del premio. “Se il libro di Vintila Horia meritava il Premio Goncourt - si legge nel retro di copertina della pubblicazione italiana del libro “Dio è nato in esilio” - perché i giudici, dopo averlo assegnato secondo tutte le regole, non seppero difendere la loro decisione? E se il libro non meritava il premio, perché gli fu assegnato? La Romania comunista ha cercato fino all’ultimo momento di recuperare Vintila Horia, che vive in esilio per non vivere in una Romania comunista. (…) Si ripeté per Vintila Horia la discriminazione già usata coi militari e gli intellettuali tedeschi: quelli che hanno aderito al comunismo sono illibati e stimabili, chi si rifiuta di farlo è reprobo”.
Aspetto poco conosciuto, dell’autore rumeno, è il suo stretto legame con l’Italia. Nel ‘39, infatti, appena ventiquattrenne ed in seguito alla laurea in giurisprudenza conseguita a Bucarest, Horia venne inviato a Roma, in qualità di addetto stampa della Legazione del Regno di Romania a Roma. Qui conoscerà Papini con cui, nel tempo, instaurerà un prolifico rapporto lavorativo, culturale e naturalmente, di amicizia. A Perugia lo scrittore avrà l’occasione di seguire i corsi di Letteratura e filosofia, almeno fino al suo trasferimento all’ambasciata di Vienna. Da qui, dopo la caduta del regime pro-Asse del Maresciallo Ion Antonescu e il conseguente instaurarsi - in Romania - di un governo filo-sovietico, venne rinchiuso in un campo di concentramento, per diplomatici del Terzo Reich, a Maria Pfarr, in Austria.

Liberato dagli inglesi, nel ‘45, Horia tornò in Italia, a Bologna. Ed è nel capoluogo emiliano che lo scrittore prese la decisione emotivamente più devastante della sua vita: non fare mai più ritorno in una Romania trasfigurata dal comunismo. Durante il periodo nel “bel paese”, lo scrittore collaborò a diverse riviste, come “L’Ultima” ed il “Perseo”, e ad alcuni quotidiani, tra cui “il Tempo” e “Roma”. Da menzionare sono i saggi - di Horia - sui pensatori anticonformisti italiani: l’amico Giovani Papini ed il Barone Julius Evola.

Moderno Ulisse, lo scrittore rumeno non smise mai di viaggiare, tenendo conferenze nelle università di Buenos Aires, Madrid, Parigi e Santiago del Chile. Come molti uomini legati ai fasti, dell’epopea rivoluzionaria nazionale dei regimi fascisti europei, anche Horia si trasferì in Argentina, più precisamente a Buenos Aires dove, grazie all’aiuto di Papini, poté trovare un’occupazione presso un’università locale. La morte lo colse in Spagna, dove aveva trovato rifugio, grazie al governo franchista.

Vintila Horia non tornò mai in Romania e, forse, fu proprio per la sua condizione di apolide che nel tempo sviluppò una sorta d’inter-nazionalismo di stampo europeista. Infatti, durante un’intervista rilasciata a Gianfranco De Turris, Horia dichiarò: “Mi considero uno scrittore europeo. Credo che la mia vera patria, e la patria di noi tutti, italiani, romeni, spagnoli o francesi, sia – in fondo – l’Europa”.
http://rinascita.eu/

Un sito web per San Michele Arcangelo curato da Marco Ponzalino

21/09/12

La spirale di Gabelentz

Lucio D’Arcangelo
LA SPIRALE DI GABELENTZ
Solfanelli, Chieti 2012
Pagg. 116 - Euro 10,00


Da una parte noto glottologo e linguista, dall'altra altrettanto noto ispanista, nella sua seconda veste Lucio D'Arcangelo è noto per la sua antipatia verso Gabriel Garcìa Màrquez, contro la cui "dittatura" scrisse un famoso pamphlet, "La vittoria della solitudine". Il lettore di questo testo coglie subito che un'analoga antipatia nel campo della linguistica D'Arcangelo la rivolge a Noam Chomsky, la cui grammatica trasformazionale è da lui considerata nient'altro che un ritorno alla lingua mentalis di Leibniz, se non agli universali della Scolastica.
«Nel
mentalismo chomskyano rispunta un'idea obsoleta: quella del linguaggio come fenomeno o epifenomeno del pensiero: sua più o meno prescindibile veste. Certe affermazioni di Chomsky secondo cui parole semplici come “tavola”, “persona”, “convincere”, farebbero parte di “un insieme innato di nozioni”, verrebbero facilmente confutate da una qualunque persona bilingue.»
Sebbene il testo sia molto per specialisti, già questa accusa che un guru del terzomondismo altermondialista come Chomsky quando passa dal suo hobby ideologo alla sua professione di linguista si trasformerebbe in un reazionario anglocentrico è per lo meno gustosa.
In opposizione alla tesi di Chomsky che «la diversità dei fenomeni linguistici è illusoria», D'Arcangelo pone invece in esergo all'Introduzione l'idea di Andre Martinet secondo cui «il fatto che le lingue siano diverse non è un deplorevole accidente, ma un tratto sintomatico della natura del linguaggio.»
Con le 6.500 lingue diverse oggi esistenti, le 72 vocali e 116 consonanti che ci sono solo nelle 10 lingue più parlate al mondo, i 921 suoni individuati nelle 450 lingue più rappresentative, gli stessi concetti di soggetto e oggetto che tendono a perdere importanza al di fuori delle lingue indoeuropee, «la diversità delle lingue, così come si sono sviluppate e adattate, è un fenomeno vitale manifesto che reclama l'attenzione teorica. Diventa sempre più difficile per i teorici del linguaggio continuare a confondere l'equivalenza potenziale con la diversità reale.» A meno di non essere «linguisti da tavolino».
Unica proposta di sistematizzazione, resta appunto quella “spirale di Gabelentz” proposta dal linguista tedesco dell'800, secondo cui la morfologia delle lingue evolverebbe ciclicamente dall'isolante all'agglutinazione e poi alla flessione, per poi ricominciare. Ma anche questo è un processo che nell'ambito dei millenni non può essere affatto verificato con la regolarità di una vera e propria legge.
«Si è parlato spesso, specie nei media, della presunta “rivoluzione” chomskyana, ma la vera rivoluzione, cominciata negli anni Settanta, sta nell'ampliamento planetario dell'orizzonte scientifico con lo studio di lingue fino a quel momento sconosciute come quelle aborigene dell'Australia e l'esplorazione, tuttora in corso, di territori sotto questo profilo ancora vergini come la Nuova Guinea e il Sudamerica tropicale: un fatto mai avvenuto in proporzioni così estensive, che ha prodotto un terremoto delle conoscenze devastante per tutte le teorie che si sono succedute nell'ultimo cinquantennio.»
Ovviamente, non tutti possono permettersi di diventare esploratori linguistici. Ma in fondo basta già il semplice spruzzo di esempi di questo libro, tra morfemi turchi, agglutinazione dravidica, incorporazione tiwa, lessicalizzazione hmong, polisinteticità eschimese, radici arabe, “lingua macedonia” dei navajo, a dare al lettore un senso di affascinante vertigine sull'infinita possibilità di autoorganizzazione che la mente umana riesce ad avere.

15/09/12

Una nuova interessante rivista: L'Eterno Ulisse

La Rivista

In linea con la figura del mitico viaggiatore, la rivista si propone di esplorare, insieme ai suoi lettori, il mare sconfinato della ricerca, quella ricerca che ruota intorno ai grandi interrogativi umani, ancora perlopiù irrisolti. Incognite a cui neanche la Scienza del Terzo Millennio è ancora in grado di dare risposte soddisfacenti ed esaustive e che anzi spesso vengono rimosse dalla nostra cultura, o relegate in contesti 'borderline'.
L'eroe Omerico al quale la rivista si ispira e da cui ha tratto il nome, è l’archetipo dell’eterno e instancabile ricercatore, assetato di conoscenza, che nel corso del suo avventuroso viaggio si arricchisce sempre più di esperienza e di saggezza. Ulisse è l’emblema dell’impavido cercatore che sfida l’ignoto spinto da un inestinguibile bisogno di avventura e di sapere, ma è anche il prototipo di chi è artefice e padrone del proprio destino, grazie all’iniziativa e all’ingegno, e di chi è costantemente in cerca della trama della propria vita.
Oggi più che mai è opportuno tener conto del fatto che la cosiddetta 'Scienza' mostra il fianco, e rivela la fragilità delle certezze acquisite. L'Eterno Ulisse, pertanto, vuole essere una innovativa proposta editoriale rivolta a tutti coloro che non si accontentano delle risposte elargite dalla Ricerca Scientifica, Storica e Culturale contemporanea.

L'Eterno Ulisse

L'Eterno Ulisse è un periodico trimestrale a carattere culturale, storico e scientifico edito dalla Ludica Snc. La rivista nasce da un’idea di Maria Pia Fiorentino - che è stata ideatrice e direttrice anche di alcune qualificate testate su temi di metafisica e cultura, quali Abstracta e MagicaMente –, e di Daniel Tarozzi - giornalista e documentarista, attualmente direttore responsabile del giornale online Il Cambiamento.it -, con il supporto di Luca Asperius, progettista web dalle mille risorse, e di Claudia Bruno, giornalista e blogger con lunga esperienza di redattrice web.
L'Eterno Ulisse nasce come rivista acquistabile online in formato pdf o cartaceo on demand (su richiesta) ed è supportata da questo sito internet al cui interno confluiscono estratti e anticipazioni dei contenuti dei numeri in uscita, affiancati da aggiornamenti e servizi online volti a creare uno spirito di comunità e dibattito attorno ai temi trattati.