31/05/10

L'anticristo secondo Vincenzo Romano

Nato il 1933 in Aversa, avvocato docente f.r. dell'Università di Napoli; è stato ordinato sacerdote nel 1970 ed è laureato in teologia dogmatica presso la Facoltà Teologica dell'Italia meridionale (Napoli).
Impegnato da più di due decenni ad esplorare nuove vie di comprensione dei testi biblici, secondo metodologie che si ricollegano alla Patristica, alla Mistica e alla Kabbalah, ha pubblicato, per l'editrice Dehoniana, due saggi ("Sia Luce" e "Una comunione per l'uomo solo") e, per le Edizioni Simone, nove Quaderni di riflessioni ed esegesi bibliche.

Proponiamo qui di seguito una sua interessante riflessione sull'anticristo.

L’ameba e l’anticristo

Suo malgrado, l’ameba che ci tiranneggia permette di vedere finalmente quell’anticristo relegato nel limbo dei meri concetti, o confuso col volto di qualche malvagio di turno. Oggi lo possiamo avvertire nella sua vastità, sicché la sfida con lui non può più eludersi. Lo vediamo materializzato in filamenti di poteri forti (economico, intellettuale, comunicativo etc); è avvertibile come forza impulsiva che controlla la quasi totalità dei comportamenti umani; ed infine sta assumendo una dimensione più raffinata che simula un qual forma di ‘mentale’.

Chi, con occhio smagato e con spirito di libertà, osserva la moderna società di tipo occidentale noterà che, attraverso il ‘progresso tecnologico messo a disposizione dell’uomo’, la grande ‘Ameba’ sta sostituendo alle pseudo teste già esistenti (Re, istituzioni, poteri forti etc), un quid di impalpabile del tutto nuovo. Essa (cioè l’anticristo) si autentica come centro intellettuale, come ‘sistema dell’esistenza’, ‘visione del mondo’, ‘struttura dell’uomo’; in una parola, habitat, significato, e finalità del singolo e dell’umanità.

Ora diventa più chiaro che cosa sia quel ‘Diavolo’, che altri si affannano a impuzzolentire di zolfo ed arrostire nelle fiamme; diventa evidente l’anticristo che tenta di sostituirsi alla trama vitale dell’universo (Xr. Istos), ponendosi come indiscutibile ed unica divinità da adorare.

Proprio questa crescente chiarezza dell’avversario chiama la Chiesa, nella sua piena complessità, a salvare la storia. Solo la Chiesa totale è infatti capace di reagire in modi diversi a questa deriva di morte. E ciò è possibile se si recupera la testimonianza di tutti e di ognuno, e se il cercare Dio e il predicarlo (teologia), diventa un implicito del cristiano, un sentimento che equiparerei a quello che spinge il cd. figlio di N.N. a cercare chi è suo Padre.

Si usa ripetere che il primo inganno del demonio consiste nel suggerire la propria inesistenza. Sarà pur vero, ma io guardo la cosa da un diverso punto di vista e scopro che, proprio chi, credendo di superare questa tentazione, parla continuamente dell’esistenza del demonio, concorre ad elevargli un monumento. Nella prassi ecclesiastica il diavolo si avvantaggia di spot pubblicitari molto più numerosi e cattivanti di quelli dedicati al Cristo; ed i teologi, per parte loro, sembrano timorosi di affrontare questo tema, sicché angeli (anime buone) e diavoli (anime dannate), latitanti nella loro riflessione, restano affidati spesso a predicatori da strapazzo.

Ma un altro dato mi intriga. Non ho mai sentito dire da un teologo che il diavolo è un grande idiota; al contrario lo si accredita (si perdoni il gioco di parole) come un essere ‘mefistofelico’, dotato di una mente sottile, capace di piani ‘diabolici’, e di una forza che tiene in scacco torme di esorcisti, che gli intimano di andar via in nome di Cristo. E lui pare che se ne rida e resta fin quando vuole.

Paolo confortava i suoi dicendo: “In forza di Cristo stravinciamo”; e Giovanni affermava: “Voi avete vinto il mondo”; noi preferiamo piuttosto esaltare la debolezza dell’uomo di cui sembra che il satana si possa impossessare quando e come vuole.

Proprio da questo tipo di pia predicazione prende forza l’Ameba, l’anticristo dei nostri giorni; essa si gonfia avanti a noi, i suoi occhi brillano di perversa intelligenza, e noi ci sentiamo sperduti avanti alle sue strade di morte. Noi che pure ‘abbiamo vinto il mondo’.

Certamente il Male è una forza terribile perché, in quanto proiezione dell’uomo, gli residua una parvenza di personalità, una parvenza di lucidità; e tuttavia è un quid di idiota, di imbecille. Imbecille sì, ma pericolosissimo, come lo potrebbe essere un bambino lasciato solo vicino al bottone della distruzione atomica del mondo. Il bambino è un essere umano, e tuttavia non è ancora un uomo responsabile dei suoi atti. Non a caso gli evangelisti lo chiamano ‘Di-Abolos’, cioè ‘Doppiamente infantile’.

Io credo che oggi bisogna insegnare al cristiano a non sottovalutarlo, come accade col mare, il deserto o la montagna, ed ancor più la malizia umana; ma, al tempo stesso, bisogna insegnargli a non temerlo. Egli infatti può distruggere, ma non ha la capacità di costruire una traiettoria che tenda ad un effetto di sconvolgimento totale; può scompigliare, può rompere, ma non può fare una ‘guerra’ coerente, capace di determinare una vittoria che consista nella distruzione del creato. Cristo lo ha redento una volta per tutte.

Lo ripeto, il Diavolo è come un bambino che può fare enormi danni agendo selvaggiamente, ma non può organizzare la distruzione dell’uomo e del mondo; perciò è un perdente per costituzione. E proprio questa sua debolezza (che troppi si affannano a trasformare in forza) deve diventare la chiave della nostra vittoria.

Fin quando il cristiano, sciolto nel tempo (dissilui in tempora), considererà la sua vita come una serie di distinti e sezionati fotogrammi, l’azione distruttiva del diavolo gli sembrerà invincibile; egli ha infatti la capacità di operare nei singoli fotogrammi, e di oscurarli, come un bambino capace solo di gestire il suo piccolo presente.

Ma se il cristiano si rende conto di essere oltre che corpuscolo anche Anima; se impara a riconoscere la indefettibile traiettoria del Cristo-Via; se scopre il Cristo-Vita come meta; se prende coscienza della comunione del Cristo-Folla Santa (Ale Teia), sarà allora come quel calciatore che può subire anche innumerevoli falli, ma sapendo di essere un Maradona, e di giocare una lunga partita, incrollabilmente crederà che alla fine metterà il pallone in porta.

Quando più appresso riproporrò la figura del Cristo astorico e sempre presente nella vicenda dei singoli e dei popoli (eucarestia), allora sarà chiaro quanto ora brevemente vado proponendo.

Cominciamo a predicarlo quel futuro del Cristo che con termine obsoleto viene detto ‘Novissimi’. E ciò perché, come già dicevo, forte dello scientismo imperante, l’ameba, per falsa e grossolana che sia suggerisce una sua prometeica e nebulosa ‘traiettoria’ ideale, una visione del mondo (quella tecnologica) molto fascinosa perché, rivestita dei panni del ‘mentale’, si appella alla isolata individualità dei soggetti, sembra dare all’uomo un senso al suo infuturarsi.

Se si vuole combattere l’anticristo, va predicato un chiaro e positivo fluire della Vita, nel quale il singolo possa inquadrare la sua vicenda personale, e che, facendosi forte della coscienza informata del gruppo, si opponga validamente alle fascinose traiettorie mondane.

Senza una ‘traiettoria’ vitale che guidi ad una ‘meta’ desiderabile, come dare slancio ai singoli ed alle strutture associative? L’assenza di questa deriva di animicità e di santità, ha portato l’azione missionaria della Chiesa a verniciare di cristianesimo popoli politicamente e militarmente sottomessi, e infine alla scristianizzazione dell’Europa stessa.

L’agire ‘morale’ che incarna la fede, non può più rimanere dimensionato sul singolo; deve decollare una morale sociale che investa le collettività. L’insegnamento della Scrittura si muove anche in questa direzione, quando evidenzia il ‘peccato del popolo’.

www.vincenzoromano.it


28/05/10

Algo sobre el poder y el poderoso

Alberto Buela (*)

A Germán Spano, que me lo obsequió

Se reeditó recientemente el pequeño Diálogo sobre el poder y acceso al poderoso del iusfilósofo alemán Carl Schmitt, que fuera publicado tanto en Alemania como en España en 19541, y que naciera como un diálogo radiofónico, que en un principio tendría el autor y el politólogo francés Raymond Arón o el sociólogo Helmut Schelsky o el filósofo Arnold Gehlen, pero los tres se rehusaron. Claro está la demonización mediática que pesaba sobre Schmitt era tal que cuando en el semanario Die Zeit, su jefe de redacción escribe a propósito del Diálogo: “En la República Federal de Alemania, el gran jurísta Carl Schmitt es una figura controvertida. Sin embargo, incluso sus enemigos deberían prestar atención cuando hace observaciones originales y sagaces…Nadie que se proponga escribir sobre el poder debería abordar el tema sin haber leído el texto de Carl Schmitt”(N° 9 del 2/7/54), al jefe de redacción lo echaron del trabajo y le prohibieron la entrada al edificio.


La naturaleza del poder


Se trata de hablar específicamente del poder que ejercen los hombres sobre otros hombres, pues el poder no procede ni de la naturaleza ni de Dios, al menos para la sociedad desacralizada de nuestro tiempo.

El poder establece una relación de mando-obediencia entre los hombres que cuando desaparece la obediencia, desparece el poder. Se puede obedecer por confianza, por temor, por esperanza, por desesperación que se busca junto al poder, pero “la relación entre protección y obediencia sigue siendo la única explicación para el poder”.


El acceso al poderoso


Como todo poder directo está sujeto a influencias indirectas, quien presenta un proyecto al poderoso, quien lo informa, quien lo ayuda o asesora ya participa del poder. Esto ha desvelado a los hombres que en el mundo han ejercido poder directo. Existen cientos de anécdotas al respecto, de cómo los poderosos han tratado de romper el círculo de influencias indirectas que los rodeaban. “Delante de cada espacio de poder directo se forma una antesala de influencias y poderes indirectos, un acceso al oído, un pasaje a la psique del poderoso”. Y cuanto más concentrado está ese poder en una cima, más se agudiza la cuestión del acceso a la cima. Más violenta y sorda se vuelve la lucha de aquellos que están en la antesala y controlan el pasaje al poder directo.

Quienes tienen acceso al poder ya participan del poder y como consecuencia no permiten u obstruyen el acceso de otros al poder. En una palabra, el poder no se comparte, solo se ejerce.

Maldad o bondad del poder

Si el poder que ejercen los hombres entre sí no procede de la naturaleza ni de Dios sino es una cuestión de relación entre los hombres ¿es bueno, es malo, o qué es?, se pregunta.

Para la mayoría de los hombres el poder es bueno cuando lo ejerce uno y malo cuando lo ejerce su enemigo. El poder no hace a los hombres buenos o malos sino que cuando se ejerce muestra en sus acciones si el poderoso es bueno o malo, que es otra cosa distinta.

Para San Pablo todo poder viene de Dios, y para San Gregorio Magno la voluntad de poder es mala, pero el poder en sí mismo siempre es bueno.

Pero actualmente la mayoría de las personas siguen el criterio expresado por Jacobo Burckhardt que “el poder en sí mismo es malo”. Lo paradójico que esto fue escrito a partir de los gobiernos de Luís XIV, Napoleón y los gobiernos populares revolucionarios surgidos a partir de la Revolución Francesa. Es decir, que en plena época del humanismo laico, de los derechos humanos del hombre y el ciudadano se difunde la universal convicción de que el poder es malo.

A que se debe este cambio de ciento ochenta grados en la concepción del poder que pasó de bueno hasta finales del siglo XVIII, a malo hasta nuestros días.

El avance exponencial de la técnica, transformada luego en tecnología y finalmente en tecnocracia ha hecho que sus productos se desprendan del control del hombre y por lo tanto el poderoso no puede asegurar la protección que supone el tener poder sobre aquellos que le obedecen. Se supera así la relación protección obediencia que caracteriza la naturaleza del poder.

El poder es se ha transformado en algo objetivo más fuerte que el hombre que lo emplea.

El concepto de hombre ha cambiado y es vivido como más peligroso que cualquier otro animal, es el homo homini lupus de Hobbes, autor reverenciado por Schmitt.

Nota bene:

Sin cuestionar la excelencia de este brevísimo diálogo, quisiéramos observar que aun cuando Schmitt quiere hablar sobre el poder en general, se limita sin quererlo al poder político pues no tiene en cuenta el poder que nace de la autoridad, esto es el poder que nace del saber o conocer algo en profundidad y que pueda ser enseñado. No es por obediencia, al menos primariamente, que un discípulo se acerca a un verdadero maestro, ni por protección que un maestro ejerce su profesión, sino en busca de la transmisión genuina del saber.

Es que la obediencia a la autoridad se funda en el saber de dicha autoridad, y no en la mayor o menor protección que pueda brindar dicha autoridad.


1 Revista de estudios políticos N° 78, Madrid, 1954

(*) arkegueta- UTN(Universidad Tecnológica Nacional)

alberto.buela@gmail.com


26/05/10

Io sono il Signore Dio tuo

Piero Coda, Massimo Cacciari, Io sono il Signore Dio tuo, Il Mulino, 2010, euro 12

Scrivere un libro a quattro mani con Massimo Cacciari, e su un oggetto come il primo comandamento: Io sono il Signore Dio tuo (il Mulino), è stato cogliere l’occasione per proseguire un dialogo di larghi orizzonti che ormai procede da più di vent’anni. A cose fatte, dopo aver letto il saggio scritto dal noto filosofo per questa occasione, mi è spontaneo annotare qualche riflessione e proporre qualche quesito. La prima cosa che mi pare doveroso sottolineare è che ci troviamo tra le mani un saggio significativo e impegnativo. Il filosofo indaga da par suo «le condizioni o ragioni per così dire a priori che rendono possibili» i "diversi destini" del monoteismo: la lotta per preservarne la purezza e assolutezza e insieme la relazione con l’esserci nella sua finitezza. «Tutto muta – egli precisa – se tale relazione è intesa come immanente allo stesso Uno-Dio, o se l’Uno-Dio viene equiparato alla pura sostanza, all’Essere-degli-esseri, o ancora se l’Uno-Dio viene exaltatum sopra ogni determinazione di essenza». In questa prospettiva, Cacciari rimarca che il significato rivoluzionario e universale della rivelazione mosaica non sta nel testimoniare l’irrompere di un Dio in lotta per l’egemonia ma nell’«identificare con questo Unico l’essenza stessa del theion (il divino)».

La questione nasce quando, muovendo da quest’assunto, si cerca «da filosofo» di «dare ragione del Dio vivente biblico». È a indagare questo formidabile problema che è chiamata il logos dell’uomo: si tratti del logos greco e di quello ebraico della diaspora ellenistica prima, di quello cristiano dei secoli fondatori dell’identità ecclesiale poi, di quello infine della modernità. Cacciari esamina e decostruisce, in particolare, le proposte teoretiche di quest’ultima: quella di Spinoza, quella di Hegel e soprattutto quella di Schelling, evidenziandone le rispettive aporie. Non mi soffermo su questa serrata scorribanda teoretica. Vengo subito, piuttosto, al punto di vista guadagnato da Cacciari, che condivido senz’altro come approdo e punto di un nuovo inizio. Si tratta della straordinaria invenzione (nel senso classico del concetto: e cioè come ritrovamento di un dato offerto al pensare nella rivelazione) del Deus Trinitas proposta dai Padri della Chiesa. «Tre ipostasi, una sola sostanza, ousía. Tour de force impossibile, grida la "ragione". Ma non si tratta di un teorema logico, si tratta di corrispondere con la massima esattezza al senso del Revelatum» poiché «è la stessa novitas dell’Annuncio [di Gesù e della Chiesa su di lui] a imporlo». È questa un’affermazione cruciale: la dottrina del Deus Trinitas è la via segnata dall’Annuncio di Gesù alla risoluzione – teoretica e pratica – del "problema" del monoteismo.

Fin qui la consonanza. Ma a questo punto si profila un’ulteriore, e delicata questione: quella di una pertinente intelligenza del Deus Trinitas. A questo riguardo capisco certo la formidabile e inaggirabile istanza cui Cacciari vuol rispondere: occorre salvaguardare, a un tempo – e proprio per rispetto al Revelatum – l’abisso del mistero di Dio e la libertà della relazione che in Dio vive, insieme alla libertà della creatura cui la relazione gratuitamente si rivolge. Ciò, a parere di Cacciari – e una ragione almeno in parte egli ce l’ha, per la negligenza di un certo pensare teologico – non è garantito quando la persona dello Spirito Santo, il terzo tra il Padre e il Figlio, è «ridotto, come si continua sostanzialmente a sostenere, a simbolo della relazione amorosa, reciprocamente accogliente, tra le altre due Persone... Non si comprende la Vita intradivina dell’Unico Dio senza caratterizzare il volto dello Spirito, che ne rappresenta il segreto più intimo». Ma qual è la caratterizzazione pertinente? «Lo Spirito – argomenta Cacciari – è il "volto" della Relatio che mostra "ciò" che la eccede. (...) Nella Relatio l’ipostasi dello Spirito è il fondamento della Persona paradossale che si ri-volge all’arché comune e inattingibile, all’eterno Passato dell’eterno Presente di quell’"Io sono" trasformatosi nell’"Unum sumus"», e cioè nell’«Io e il Padre siamo Uno» di Gesù nel quarto vangelo (cfr. Gv 10,30).

È qui, mi pare, che va posta la questione decisiva: la salvaguardia della relazione in Dio come libertà è collocata con pertinenza quando la si coglie nel riferimento alla differenza smisurata dell’Inizio (in Dio stesso) come libertà? La mia risposta è: penso di no. Lo Spirito non va "sciolto" dalla relazione per garantire la libertà e l’inesauribilità di Dio, ma va piuttosto seguito nel suo guidarci a penetrarne il mistero nel segno dell’amore: quell’amore-agape che è Dio stesso (cf. 1Gv 4,8.16) rivelato da Gesù Crocifisso e Risorto. Egli, lo Spirito, non è certo, come rischia certa ermeneutica teologica addomesticata di farci fraintendere, il "chiuso" soddisfatto della relazione tra Padre e Figlio, ma è piuttosto il non ritorno su di sé che in essa si esprime – da parte dell’uno e dell’altro – e, per questo, è lo sguardo e il soffio del e verso l’inesauribile di Dio nel segno di ciò che è sempre nuovo e aperto e al di là: nel donarsi e condividersi sempre di nuovo, in una pienezza che è sempre più piena, ma mai definitivamente raggiunta e posseduta dalla creatura.

In consonanza con questa discriminante precisazione, vengo a un ultimo spunto che mi pare del massimo rilievo per la prosecuzione del dialogo. Esso concerne la nozione di Revelatum a partire dalla quale Cacciari muove nella sua ricerca. Tale nozione, intesa così come mi sembra da lui intesa, rischia di pensare la rivelazione solo come un factum, un positum di cui occorre tener conto, indiscutibilmente: ma senza entrarvi dentro, senza prendervi parte. Il che significa, inevitabilmente, esercitare l’intelligenza rispetto al Revelatum senza però essere determinati (gratuitamente e liberamente) dall’evento stesso che la Revelatio è. Prendiamo il detto del Paraclito che troviamo nel Vangelo di Giovanni, nei discorsi della cena: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò cha avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-15). In questo detto, lo Spirito è presentato come colui che prende tutto ciò che Gesù ha ricevuto dall’Abbà e lo distribuisce con libertà e liberalità in vista della koinonía dei molti nell’Uno. Egli si mostra così come l’intimo di Dio che ne è al contempo l’estremo. È il darsi dell’Abbà nel Logos fatto carne e pane che è offerto dallo Spirito e nello Spirito come dono a chi lo riceve in quanto questi, a sua volta, lo possa comunicare.

Forse, Cacciari mi ribatterebbe citando 1Cor 2,10ss: dove si parla dello Spirito che scruta ogni cosa, anche «le profondità di Dio». Tale Spirito però – precisa subito Paolo – è proprio ciò che Dio ci ha donato per conoscere tutto ciò che da Dio viene, in «parole dello Spirito». È possibile dunque intelligere questo Revelatum senza che esso non stia più semplicemente "di fronte" al pensare, ma entri "nel" pensare stesso?

(Autore: Piero Coda)


24/05/10

Alle origini della «Fiera letteraria»

Diego Divano, Alle origini della «Fiera letteraria» (1925-1926), Un progetto editoriale tra cultura e politica, Società Editrice Fiorentina, 2010


Modello illustre del francese «Les Nouvelles Littéraires», aspirava a fornire una panoramica completa sugli eventi salienti dell’attualità culturale italiana. A fondarlo, e a dirigerlo per il primo biennio, fu la personalità eclettica di Umberto Fracchia (Lucca, 1889-Roma, 1930), già noto al grande pubblico per la sua attività di giornalista e di romanziere, nonché per la consolidata esperienza accumulata in campo editoriale come direttore della casa editrice di Arnoldo Mondadori.
L’analisi della documentazione edita e inedita compresa nell’archivio personale di Umberto Fracchia, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Genova, consente una precisa ricostruzione degli eventi che caratterizzarono il primo anno di vita del giornale – dalle fasi preliminari della sua progettazione alla sua definitiva affermazione sulla scena giornalistica nazionale –, lasciando emergere i retroscena più interessanti di una vicenda che, nel suo tormentato svolgimento, si pone come un convincente paradigma delle imprese editoriali sorte in quella concitata fase storica.
Finanziata dalle maggiori case editrici milanesi (la stessa Mondadori, dalla quale Fracchia aveva appena rassegnato le dimissioni, e la concorrente Treves), interessate a promuovere la propria produzione letteraria, e da Giovanni Treccani, attraverso l’istituto da lui creato per provvedere alla pubblicazione dei volumi dell’Enciclopedia Italiana, l’iniziativa di Fracchia, sostenuta anche dalla paziente opera di intercessione di un intellettuale dell’autorevolezza di Ugo Ojetti, poté così prendere il largo e dispiegarsi lungo le molteplici declinazioni immaginate dal suo ideatore.
Affiancato da una nutrita schiera di giovani redattori (Giovanni Battista Angioletti, Riccardo Bacchelli, Antonio Radames Ferrarin, Adolfo Franci, Guido Edoardo Mottini, Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa), coadiuvato da collaboratori e fiduciari sparsi nei principali centri culturali italiani (Anton Giulio Bragaglia, Alberto Cecchi, Arnaldo Frateili e Curzio Malaparte a Roma; Cesare Padovani e Raffaello Franchi a Firenze; Francesco Flora a Napoli), Umberto Fracchia impegnò «La Fiera letteraria» in una strenua battaglia per l’affermazione dei fondamentali valori della cultura nel quadro delle nuove istituzioni create dal nascente regime, scontrandosi – non soltanto metaforicamente – con i paladini più intransigenti dell’ortodossia fascista, contrari alla concessione di spazi anche infinitesimi di autonomia agli intellettuali “puri”.

http://www.sefeditrice.it/


20/05/10

Il Francesco d'Assisi di André Vauchez

Giovedì 15 aprile, nell'Oratorio dell'Immacolata Concezione della basilica di Santa Maria in Aracoeli, in un incontro organizzato dal Centro Cultura Aracoeli e dalla Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani, è stato presentato il volume Francesco d'Assisi (Torino, Einaudi, 2010, pagine 378, euro 35). Pubblichiamo qui ampi stralci della premessa scritta dall'autore.

di André Vauchez

"Ancora una Vita di Francesco d'Assisi!" si potrebbe esclamare aprendo questo libro. Ne esistono già tanti da far apparire la sua figura ben conosciuta, persino familiare: chi non ha sentito parlare di questo santo che amava la povertà, predicava agli uccelli e risulta essere il primo stimmatizzato?
Scrivere una biografia è un'impresa legittima quando essa consenta di togliere dall'oblio in cui è caduto un personaggio che nella sua esistenza ha giocato un ruolo importante, oppure di riabilitare la figura di un uomo o di una donna incompresi o maltrattati dagli autori che di loro si sono occupati.
Francesco non appartiene ad alcuna di queste categorie. Da tempo egli è celebre e universalmente riconosciuto come una delle grandi figure spirituali dell'umanità: lo ha dimostrato ancora di recente il fatto che nel 1986 i rappresentanti delle principali religioni si siano riuniti ad Assisi rispondendo all'appello di Papa Giovanni Paolo II, per pregare per la pace e riflettere insieme sui mezzi per realizzarla nel nostro mondo.
Tuttavia, malgrado la notorietà di Francesco e della sua città natale, non è affatto sicuro che molti dei nostri contemporanei - al di fuori dell'Italia dove rimane una figura popolare - sappiano realmente chi egli fosse.
Numerosi autori che di Francesco d'Assisi si sono interessati, sia nel passato sia ai giorni nostri, hanno cercato soprattutto di edificare i loro lettori presentandolo come un modello esemplare, oppure di far partecipare all'emozione, se non all'entusiasmo, che aveva suscitato in loro questo o quell'aspetto della sua personalità affascinante.
Più recentemente altri autori gli hanno consacrato saggi brillanti, talvolta nati da un'intuizione illuminante - penso a Francesco e l'infinitamente piccolo di Christian Bobin - oppure incentrati sullo studio del contesto sociale e culturale, come il Francesco d'Assisi di Jacques Le Goff, senza avere l'ambizione di offrire una nuova visione d'insieme della sua esistenza e del suo messaggio.
E non si dimentichino i numerosi film, più o meno romanzati, dedicati al Povero d'Assisi, in cui si tenta di ricostruirne la vita presentandone gli episodi principali. Salvo qualche rara eccezione - quale lo splendido Francesco, giullare di Dio del cineasta Roberto Rossellini (1950) - Si tratta quasi sempre di un simulacro o di un'illusione, in quanto la ricerca retrospettiva di una coerenza si rivela fittizia quando essa conduca a integrare con l'immaginazione le lacune della documentazione e a trasformare in destino unilineare un passato singolare segnato, al pari di quello di tutti gli esseri umani, dall'indeterminatezza e dalla discontinuità. Questi limiti nascono innanzitutto dal fatto che assai spesso coloro che si sono interessati di Francesco d'Assisi non sono risaliti alle fonti, del resto numerose e variegate, di cui potevano disporre, oppure ne hanno fatto un uso inadeguato.
In effetti, la non conoscenza della specificità dei testi agiografici e il rifiuto di considerarli in una prospettiva comparativa hanno condotto troppo sovente i biografi di Francesco d'Assisi a intessere una sorta di patchwork, attaccando l'una all'altra informazioni ricavate da scritti di ispirazione e di epoche differenti: cosicché l'immagine, in larga misura artificiale, che deriva da queste combinazioni più o meno arbitrarie, riflette la soggettività dei loro autori piuttosto che il clima dell'epoca in cui visse il Povero d'Assisi.
Uno dei maggiori problemi posti dalla biografia di Francesco consiste nel fatto che ciascuno crede di conoscerlo così bene da poterlo interpretare a suo piacimento, in quanto la sua personalità è così ricca da dar luogo a diverse letture: nel corso dei secoli si è celebrato in lui l'asceta e lo stimmatizzato, il fondatore di un grande ordine religioso e il paladino dell'ortodossia cattolica; poi, a partire dalla fine del secolo XIX, lo si è considerato soprattutto un eroe romantico, sostenitore di un cristianesimo evangelico e mistico schiacciato dall'istituzione ecclesiastica. Ai giorni nostri, si privilegia l'immagine del difensore dei poveri, del promotore della pace tra gli uomini e le religioni, dell'uomo amante della natura, difensore e patrono dell'ecologia, o ancora del santo ecumenico in cui i protestanti, gli ortodossi e pure i non cristiani possono riconoscersi: a ciascuno il suo Francesco, si sarebbe tentati di dire, come Paul Valéry parlava del "(suo) Faust", rivendicando perciò il diritto di interpretare a modo suo quel grande mito letterario. Una tale situazione, che attesta del resto l'importanza del personaggio e il fascino che non ha cessato di esercitare sugli spiriti, è senza dubbio inevitabile. Essa ben corrisponde al carattere poliedrico, se non polisemico, della personalità del santo d'Assisi, che si riflette nella varietà delle fonti che consentono di conoscerlo. Immancabilmente, davanti a siffatta confusione, lo storico si sente a disagio e volentieri lascia a volgarizzatori il compito di redigere sintesi poco soddisfacenti dal punto di vista scientifico, che, a eccezione di qualche dettaglio, non fanno che ripetersi. Inoltre, lo storico si mostra in tanto incline a rifugiarsi nell'erudizione e nella ricerca "pura" in quanto la recente storiografia è segnata da una profonda sfiducia di fronte alla possibilità effettiva di una ricostruzione biografica del personaggio di Francesco: ricostruzione biografica che allo stato delle nostre conoscenze risulterebbe assai lontana dal poter essere realizzata.
Invero, Francesco non è un mito né un personaggio leggendario, benché nel medioevo su di lui si siano scritte molte leggende. Neppure c'è ragione perché egli sia da ritenersi più inaccessibile dei suoi contemporanei san Luigi e Federico II, che sono stati oggetto di rimarchevoli biografie di cui nessuno mette in dubbio il carattere storico. Certo, dopo Henri-Irénée Marrou sappiamo che l'oggettività assoluta non esiste in questi ambiti di ricerca e che pretendere di conoscere le cose "come esse si sono realmente svolte" si rivela un'illusione.
Ciononostante, il problema del biografo, se vuole fare opera di storico, non è di rinunciare alla sua soggettività, poiché la biografia, come la storia, si scrive nel presente e riflette le attese della propria epoca. Essa è l'opera di un individuo appartenente a un tempo, a un ambiente e a una cultura che determinano necessariamente il suo modo di affrontare i problemi. L'autore di questo libro è ben cosciente di questi limiti: egli si è interessato e si interessa a Francesco poiché a lungo ha vissuto e lavorato in Italia, frequentando assiduamente Assisi e l'Umbria; ha potuto misurare l'impatto profondo del francescanesimo in questo paese, in cui ha incontrato numerose persone per le quali il santo d'Assisi rimane un riferimento vivo. In quanto medievista, ha dedicato le sue ricerche alla storia della santità e allo studio dei testi agiografici - leggende e raccolte di miracoli - che costituiscono l'essenziale della documentazione di cui disponiamo per conoscere la figura del Poverello.
Tuttavia, evidenziare i fattori che possono averlo influenzato non è in contraddizione con la ricerca di rigore metodologico: lo storico, anche e soprattutto quando dichiari il contrario, necessariamente è coinvolto nei temi della sua ricerca. Ciò non gli impedisce di fare onestamente il suo lavoro o, meglio, il suo "mestiere di storico", per riproporre una felice espressione di Marc Bloch, prendendo le distanze di fronte a tutte le leggende, auree o nere, e affrontando lo studio della documentazione, la più ampia possibile, con il massimo di oggettività, dimostrando quanto sia vero che la cosa migliore che noi abbiano "sta nella testimonianza e nella critica della testimonianza per accreditare la rappresentazione storica del passato".
Lo storico deve avere ugualmente l'umiltà di non pretendere di tutto dire e di tutto sapere sulla vita e sulla personalità del suo eroe, intorno a cui occorre riconoscere che certi aspetti - anche non secondari - ci sfuggono o rimangono nell'ombra. In effetti, poiché la documentazione relativa a Francesco comporta, come vedremo, certe lacune, forte è la tentazione di riempire i vuoti ricorrendo a congetture e di conferire alla sua esistenza una unità e una logica di cui essa era ovviamente priva. Pertanto lo storico deve fare attenzione a mettere l'accento sull'evoluzione del suo eroe e a non mascherarne, se del caso, le incertezze e le contraddizioni: compito tanto più difficile considerando che i testi agiografici relativi al Povero d'Assisi tendono a fare astrazione dal contesto temporale e a presentare la sua esistenza sotto forma di un racconto esemplare in cui l'individuo conta meno che il personaggio. Ciononostante, Jacques Le Goff ha ben mostrato nel suo San Luigi a qual punto le fonti medievali contemporanee del suo eroe, malgrado il loro carattere lacunoso e orientato, siano fondamentali per capire come sia stata costruita l'immagine del sovrano.
A proposito di Francesco, è importante analizzare con precisione le tappe della genesi tormentata della sua memoria storica e, nel medesimo modo, le interpretazioni, talvolta contrastanti, di cui la sua persona e la sua proposta religiosa furono oggetto nel corso dei primi secoli che seguirono la sua morte, e anche oltre. Se la documentazione di cui disponiamo raramente ci permette di raggiungere il Francesco "autentico", quale fu nella sua esistenza, essa mette in chiara evidenza l'impatto considerevole che egli ebbe sui suoi contemporanei e sulle generazioni successive.
Pertanto, questo volume non si presenta come una biografia classica, che si estende dalla nascita al decesso del proprio eroe; accanto alla descrizione delle principali tappe della sua esistenza terrena, essa fa largo spazio allo studio del destino postumo di Francesco e dell'impatto del suo messaggio attraverso i secoli, ossia, in sintesi, a tutto ciò che va sotto il termine di Nachleben. Infatti gli inizi non risolvono ogni cosa e la verità non è separabile dalla sua trasmissione. La storia del Povero d'Assisi non si è fermata il giorno della sua morte e si può dire che in un certo senso egli ha conosciuto una seconda vita in questo mondo dopo averlo lasciato.
Così, il Francesco "storico" - l'unico che possiamo cogliere - risulta da quanto egli fa conoscere di sé nei suoi scritti e, nel contempo, dalle diverse percezioni che sia i suoi contemporanei, sia tutti coloro che nel corso dei secoli di lui si sono interessati hanno potuto avere della sua persona e della sua esperienza.
L'approccio critico che ci sforzeremo di realizzare in questo libro mira non a produrre congetture - secondo una moda attuale - su un personaggio universalmente ammirato, ancor meno a mettere in discussione la sua grandezza in una prospettiva iconoclasta, bensì a tentare di ritrovarlo in ciò che in lui c'è di differente rispetto a noi: non un Francesco precursore dei tempi moderni, o l'eroe poetico di una fusione armoniosa tra l'uomo e la natura, ma un personaggio vissuto nell'Italia comunale al volgere dal XII al XIII secolo, di cui cercheremo di rintracciare l'esistenza in quanto ha di unico.
Il peggiore intoppo per lo storico è in effetti l'anacronismo: volendo a ogni costo che il Povero d'Assisi si unisca al nostro presente sotto pretesto di renderlo accettabile e interessante per i nostri contemporanei, si rischia di snaturarlo e, insieme, di far perdere di vista sia i suoi tratti originali sia quanto egli ha messo concretamente in gioco nella sua vita.

Come ha ben detto Peter Brown "non dobbiamo mai leggere Agostino come se fosse un nostro contemporaneo": attualizzare Francesco, secondo quanto si fa spesso, non è che un modo camuffato di parlare di noi stessi fingendo di parlare di un altro. Prima di tutto, cerchiamo di ricollocarlo nel suo tempo, senza nutrire l'illusione di ritrovare il Francesco d'Assisi che percorreva con qualche compagno "straccione" le strade dell'Umbria e il cui vissuto sempre ci sfuggirà.
La difficoltà maggiore consiste nel restituire a un lettore odierno un mondo che ci è divenuto estraneo e nel renderlo intelligibile, a dispetto della discontinuità insormontabile che esiste tra le sue categorie di pensiero, le sue forme di sensibilità e le nostre.
Soltanto dopo questo sforzo di distanziamento diviene legittimo chiedersi in che cosa la vita e la testimonianza del Povero d'Assisi possano ancora riguardarci.

N.B.

Le sottolineature sono a cura del Corriere metapolitico


18/05/10

La Chiesa e il Regno

Giorgio Agamben, La Chiesa e il Regno, Nottetempo, Euro: 3.00

Nella teologia cristiana la sola istituzione che non conosce fine né tregua è l’inferno. Per questo il modello politico odierno, che protende a un’economia infinita del mondo, è propriamente infernale.

Se la chiesa perde la sua vocazione messianica e il suo rapporto con la fine del tempo, essa non può che essere trascinata nella rovina che minaccia oggi tutti i governi e le istituzioni della terra.

Questa conferenza, pronunciata nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi l’8 marzo 2009, è una meditazione sul senso politico delle cose ultime.

Giorgio Agamben, docente di Filosofia teoretica all’Università di Venezia, ha pubblicato un’ampia opera tradotta in tutto il mondo, di cui ricordiamo Homo sacer (Einaudi 1995), La comunità che viene (Bollati 2001), L’aperto (Bollati 2002), Stato di eccezione (Bollati 2003), Il sacramento del linguaggio (Laterza 2008). Con nottetempo ha pubblicato i libri di saggi Nudità (2009), Profanazioni (2005) e nella collana sassi Il giorno del Giudizio, Genius, Che cos’è un dispositivo?, L’amico e Che cos’è il contemporaneo?.



17/05/10

Elogio degli antimoderni

Cesare De Michelis, MODERNO ANTIMODERNO, Studi Novecenteschi, Nino Aragno, 2010. Euro 40

Il Novecento è il secolo tragico e doloroso del genocidio e dei regimi totalitari, nel quale, ben oltre «il tramonto dell’Occidente», si è assistito al crollo di ogni umanesimo e alla morte della plurimillenaria civiltà contadina. Tuttavia è impossibile ignorare l’altra faccia della medaglia, che si concretizza nella conquista di un benessere inimmaginabile, nella crescita dell’attesa di vita, nell’accorciarsi delle distanze, nelle meraviglie dell’arte e della tecnica. Moderno Antimoderno vorrebbe descrivere quest’intima ambivalenza del secolo, questa sua sostanziale doppiezza, che coinvolge naturalmente i testi della letteratura, per un verso progressivamente radendo al suolo distinzioni di genere e di stile e per l’altro costringendo anch’essa a correre avanti con lo sguardo rivolto all’indietro verso le rovine di un passato travolto dal vorticoso vento del nuovo, come Walter Benjamin ha per sempre descritto l’angelo della storia, l’indimenticabile Angelus novus.


www.ninoaragnoeditore.it

14/05/10

Spirito nel Novecento

Breschi Danilo, Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione, Editore Rubbettino, 308 p., € 19,00

Una interessantissima biografia intellettuale di uno dei filosofi più geniali e atipici del Novecento. Allievo di Gentile, Spirito, attratto dal fascismo, teorizzò il superamento delle antinomie classiche capitale-lavoro e pubblico-privato attraverso la tesi della "corporazione proprietaria”. Interessato all'esperienza sociale tedesca tra le due guerre mondiali, nel secondo dopoguerra si avvicinò al comunismo, cercando conferme alle sue teorie, dapprima nella Russia di Kruscev, quindi nella Cina di Mao. Il suo percorso culturale lo ha reso, tra l'altro, uno straordinario testimone dei totalitarismi del Novecento. Il libro di Breschi consente di comprendere a fondo l'itinerario umano e filosofico di questo intellettuale che ha lasciato un segno indelebile nella storia intellettuale del XX secolo.


12/05/10

"Eurasia" ci segnala due nuovi libri

Siamo lieti di segnalare l'uscita di due nuovi libri, firmati da altrettanti redattori della rivista "Eurasia", entrambi per i tipi della Fuoco Edizioni di Roma.
Le due opere sono entrambe ordinabili dal sito dell'Editore, raggiungibile cliccando qui.

La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali è il primo libro di Daniele Scalea: 186 pagine, formato 14x20,6cm, prezzo €15,00, ISBN 9-788890-465826.

Dalla quarta di copertina:
La fine della Guerra Fredda provocò un’ondata d’ottimismo tale da indurre qualcuno a proclamare la “fine della storia”. Gli eventi successivi – dall’esplosione della Jugoslavia al conflitto russo-georgiano, dall’11 settembre alla “guerra al terrorismo”, dalle nuove tensioni tra Russia e USA alla crisi finanziaria – ci hanno riportati coi piedi per terra. La storia è ancora in corso, ed oggi come nel passato è storia anche di conflitti ed inimicizie. Nel panorama globalizzato del XXI secolo è in atto La sfida totale tra le grandi potenze. Sfida perché quello della geopolitica è un gioco a somma zero: se qualcuno sale nella gerarchia delle potenze, qualcun altro deve scendere. Totale perché al giorno d’oggi gli Stati non si fronteggiano più solo con le armi della diplomazia e della guerra, ma ricorrono anche all’economia, alla finanza, alla cultura, all’ideologia, ed il loro scontro non rimane più confinato entro determinate regioni ma si sviluppa su scala globale . Questo libro ci ricorda come, in un mondo in cui tutto sembra essere cambiato ed evoluto, alcune cose rimangono inalterate. È il caso delle costanti geopolitiche che, al di là di tutta la propaganda e la retorica, continuano ad influenzare e spiegare la lotta tra le grandi potenze. La sfida totale ci porta a spasso nella storia e per il mondo al fine di descrivere cosa sta succedendo oggi e cosa accadrà domani. Scopriamo le teorie dei maggiori geopolitici del passato e del presente, le strategie delle grandi potenze, le macro-dinamiche internazionali, fino a intravedere un futuro forse migliore dell’oggi, ma non privo d’inquietanti incognite e minacce”

Dalla prefazione del Generale Fabio Mini:
Si potrebbe tranquillamente dire che Daniele Scalea ha scritto un trattato di alta Geopolitica. Ha descritto il mondo attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie classiche della Geopolitica confermandone, e ce n’era bisogno, la validità metodologica. Ha preso in esame tutti i grandi attori mondiali e dopo una panoramica appassionata, non c’è nient’altro da dire. Il modo in cui l’esame geopolitico è stato condotto in questo libro, per mole, intensità, chiarezza e approfondimento, merita apprezzamento”

Per ulteriori informazioni cliccare qui.

L'Eurasia contesa. Energia, strategia e geopolitica del Cuore della Terra è il nuovo libro di Alessandro Lattanzio, pubblicato esclusivamente in formato elettronico.

Dalla quarta di copertina:
Il blocco continentale eurasiatico, dal peso preponderante sul piano geografico e demografico, rappresenta il Cuore della Terra. E visto anche che le due superpotenze economiche più dinamiche dell’età della globalizzazione, ossia la Repubblica Popolare di Cina e l’Unione Indiana, ne fanno parte, l’Eurasia è anche ridiventata il Motore della Terra. Evento, quest’ultimo, che ha suscitato e susciterà vieppiù, in futuro, apprensione presso i centri strategici occidentali della globalizzazione. Tanto più che il continente Eurasia si svela essere anche il Tesoro della Terra, con la scoperta di uno dei giacimenti d’idrocarburi più grandi del mondo. Non è un caso, perciò, che si sia scatenata un’accanita corsa al petrolio, per potersi accaparrare il controllo e la gestione del ’sangue del diavolo’, il vero elisir che permette al way of life e al dominio occidentale di sussistere. Way of life e riscatto storico, però, sono obiettivi perseguiti anche dai popoli e dalle nazioni eurasiatiche. Il Grande Gioco geostrategico e geoeconomico, avviato dagli USA al termine della Guerra Fredda, ha visto un ventennio di conflitti diretti o indiretti, di rivoluzioni o di pseudo-rivoluzioni, con l’impiego aperto o occulto di eserciti, servizi segreti, multinazionali e terroristi veri o inventati. Una partita che oggi vede il declino della potenza che l’ha avviata e l’ascesa di quelle che dovevano esserne le vittime.

07/05/10

Venerazione della Santa Sindone

VENERAZIONE DELLA SANTA SINDONE

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Piazza San Carlo
Domenica, 2 maggio 2010

Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. In diverse altre occasioni mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”.

Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di san Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.

Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.

Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.

E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.

In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.

Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - “Passio Christi. Passio hominis” -, da questo volto promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2010/may/documents/hf_ben-xvi_spe_20100502_meditazione-torino_it.html


06/05/10

Sostituirsi a Dio

KOJEVE ALEXANDRE, Sostituirsi a Dio, saggio su Solov'ev, a cura di Marco Filoni, traduzione di Luana Salvarani, Editore Medusa, pp. 96, euro 12,50

Alexandre Kojève entrò nel mito della cultura francese grazie al seminario hegeliano che tenne a Parigi negli anni Trenta avendo come allievi, fra gli altri, Jacques Lacan e Georges Bataille, Maurice Merleau-Ponty e Raymond Queneau, Eric Weil e Roger Caillois, Jean Hyppolite e Raymond Aron. Eppure vi sono pieghe del suo pensiero ancora da sondare. Come il rapporto con la religione; un rapporto che scandisce tutta la sua riflessione. Anzi: per tutta la vita Kojève fu letteralmente ossessionato dall’idea di Dio. A tal punto da spogliare la teologia del suo carattere divino. L’immagine speculare atea di un’interpretazione religiosa: questa è, in fondo, la sua famosa lettura di Hegel. Le origini di tale disposizione - che troverà una compiuta espressione nello scritto L’Ateismo del 1931 - affondano nella Russia e in Oriente. Kojève deve parte della sua formazione a Dostoevskij, Tolstoj, soprattutto al filosofo Vladimir Solov’ev, al quale dedicò nel 1926 la dissertazione di dottorato in Germania sotto la guida di Karl Jaspers. Il lavoro su Solov’ev, rielaborato e pubblicato nel 1934-1935, viene riproposto per la prima volta in queste pagine. E qui troviamo la prima importante indicazione sul rapporto con la religione: era già chiaro a Kojève che qualsiasi compimento della metafisica implicava il superamento della metafisica propriamente detta o religiosa. Ovvero: andare alla ricerca di un sostituto di Dio che fosse il libero risultato dell’azione umana nella storia, che permettesse cioè all’uomo di comprendere la propria storia in generale, e quella religiosa in particolare, senza il ricorso a Dio. Il libro si inserisce come una novità assoluta nel dibattito filosofico, tuttora accesissimo, sul tema dell’ateismo.
E vi si ritroveranno, in embrione, le idee e il metodo che attirano l’attenzione sul filosofo che annunciò la “fine della storia”.


04/05/10

Eric Voegelin: "Ordine e storia"

Eric Voegelin, Ordine e storia, Vol. I. Israele e la rivelazione. Vita e Pensiero, a cura di Nicoletta Scotti Muth, pag. 760, 2009, euro 35

Ordine e storia è una delle opere filosofiche più complesse e originali della seconda metà del Novecento, un intreccio ambizioso e al contempo rigoroso di indagine storica e riflessione teorica. La sua prima traduzione italiana integrale, che qui presentiamo, si avvale inoltre, per ciascuno dei cinque volumi di cui l’opera è composta, di apparati di note di aggiornamento e di autorevoli contributi di approfondimento critico. In particolare questo primo volume, Israele e la rivelazione, viene arricchito da saggi di Peter J. Opitz, politologo e direttore del Voegelin-Archiv, Peter Machinist, assirologo e Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, filosofa. Mediante la «traccia dei simboli», Voegelin intende ricostruire una «storia delle esperienze d’ordine» delle diverse forme di società umana; un progetto che lascia trasparire sullo sfondo un confronto serrato con alcune questioni oggi ancora cruciali: basta il concetto di ‘civiltà’ a rendere ragione della complessità della storia? In che misura gli ordinamenti politici sono espressione di una determinata posizione antropologica? E ancora: le analisi storico-filologiche delle opere che hanno educato l’Occidente – dalla Bibbia a Omero, dai tragici a Platone e Aristotele – sono in grado di spiegarci tali opere facendo affidamento esclusivamente sui propri metodi? In questo primo volume si parte dalle civiltà del vicino Oriente Antico, per arrivare al ‘cuore dell’ordine’: Israele. L’eredità perenne di Israele consiste nell’aver spezzato l’ordine cosmologico delle civiltà in virtù dell’esperienza della trascendenza di Dio. Nel ripercorrere la storia del Popolo Eletto facendo tesoro dei guadagni delle scienze storiche, Voegelin ci offre una straordinaria, ricchissima lettura del testo biblico che diventa espressione dell’universale ‘dramma dell’essere’. La sua filosofia delle forme simboliche, applicata alle Scritture, ne illumina il carattere costitutivo di esperienza dell’ordine per un intero popolo. Il libro di Voegelin offre un contributo determinante non solo per il pensiero filosofico ma anche per quello politico. L’ampiezza della prospettiva sulla realtà gli consente di ripensare le scienze politiche e sociali tenendo presente un orizzonte concettuale e simbolico ben più esteso rispetto alla grande maggioranza delle correnti di pensiero moderne e contemporanee, reintroducendo, all’interno del discorso scientifico, gli apporti ‘classici’ dell’ontologia e della metafisica messi al bando dai multiformi approcci moderni di stampo positivistico.


Eric Voegelin (Colonia 1901 - Palo Alto, California, 1985) si formò a Vienna alla scuola di teorici del diritto di orientamento positivista guidata da Hans Kelsen. L’urgenza di penetrare la morfologia profonda del dilagante fenomeno del totalitarismo lo spinse allo studio della genesi delle idee politiche in senso filosofico. A partire dal 1938, l’esilio americano gli dette l’opportunità di dedicarsi a un’intensa disamina storica, dalla quale lentamente maturò una diagnosi teorica affatto convenzionale. Frutto di decenni di ricerca sono le due monumentali opere History of Political Ideas (in 8 volumi di pubblicazione postuma) e, soprattutto, i cinque volumi di Order and History (1956-1987). Dal 1958 al 1969 ricoprì a Monaco la cattedra di Teoria della politica già appartenuta a Max Weber. Rientrato negli Stati Uniti, concluse la carriera accademica presso la Stanford University. La pubblicazione dell’opera omnia di Voegelin è stata di recente completata presso la Missouri University Press. Le sue opere più note in Italia sono, fino a oggi, il fortunato ciclo delle Walgreen Lectures, tenute a Chicago nel 1951 (La nuova scienza politica, Torino 1968) e la prolusione inaugurale tenuta all’Università di Monaco (Il mito del nuovo mondo, Milano 1976).

Fonte:

http://www.vitaepensiero.it/volumi/9788834312629


01/05/10

I miracoli del Sole


Santiago del Cile, ore 7 a.m. Est - Ovest

Il nostro corrispondente cileno, il prof. Rafael Videla Eißmann, ci informa di uno strano e inusuale fenomeno atmosferico che si sarebbe verificato martedì 20 aprile a Santiago del Cile. Diversi cittadini hanno assicurato di aver visto e in taluni casi anche fotografato un sole sorgente contemporaneamente a oriente e ad occidente. Gli scienziati interpellati si sono detti ovviamente increduli, ma le testimonianze incrociate e le foto confermerebbero l'evento senza tema di smentita.
Anomalia atmosferica, “segno celeste” o cos'altro?