30/03/16

Madonne Nere, un'origine veritiera?

Da un punto di vista strettamente storico-religioso, cioè di quel ramo delle scienze storiche che si dedica allo studio delle religioni, una delle caratteristiche del cristianesimo è la sua provata storicità. Sull’esistenza storica di Gesù, come d’altronde su quella di  Giuseppe Flavio o di Paolo di Tarso, esiste una vasta documentazione probante. Su Maria di Nazaret invece, si sa davvero molto poco e si può fare affidamento solo su quel che ne dicono incidentalmente i quattro Vangeli e gli Atti degli Apostoli.  Non ci sono insomma, né biografie, né cronache di eventi che la riguardino.
Tuttavia, la letteratura religiosa cristiana ha consacrato a questo personaggio migliaia di pagine e, com’è noto, persino la tradizione islamica gli ha riconosciuto un ruolo preminente.
Un discorso a parte andrebbe fatto  per le cosiddette apparizioni della Vergine di cui abbiamo notizia fin dal IV secolo, che però non ci dicono nulla sulla Sua biografia o sulle Sue umane fattezze. Molti veggenti del XX Secolo ce La descrivono come una specie di star di Hollywood di razza caucasica  e qualche volta dai tratti nordico-arii (bionda con gli occhi azzurri). Evidentemente uno stereotipo, un “adattamento” soggettivo del veggente, oppure una frode, come a me sembra il caso delle presunte apparizioni di Medjugorje. Qui della Madonna viene fornito addirittura un preciso identikit antropometrico: la “Regina della Pace” è “slanciata”, ha un “viso ovale”, un colore della pelle “bianco e roseo sulle gote”, le labbra “belle e sottili” e gli occhi “meravigliosi, spiccatamente azzurri”. Più coerente e spiritualmente verosimile mi sembra il racconto di Bernadette a cui la Madonna appare sì con i tratti di una giovane donna, ma di una bellezza eccelsa e sublime, impossibile da descrivere. Da qui la fatica che lo scultore Joseph Fabisch dovrà fare per realizzarne la statua. Una rappresentazione, tra l’altro, di cui Bernadette non si dichiarerà mai pienamente soddisfatta. Al contrario, la statua della Madonna di  Medjugorje viene volutamente fatta somigliare, come  con irriverente sarcasmo fece notare il solito Umberto Eco, alla nostra Monica Bellucci!  La verità è che nelle apparizione autentiche non c’è materia per gli etnologi. A Fatima  la Madonna si manifesta come una giovinetta di grande bellezza ma “trasparente e luminosa come un cristallo”.
Ma torniamo alla storia umana e a una interessante e originale proposta che ci viene dall’amico Emilio Spedicato. Laureato in fisica, dottorato in matematica computazionale a Dalian (Cina), ammiratore di Immanuel Velikovsky e studioso di catastrofi planetarie, Spedicato da diversi anni affronta la Bibbia cercando di dimostrarne la storicità. Lo aiutano le sue notevoli conoscenze geografiche, linguistiche ed etnologiche. Il testo è piuttosto lungo, le conclusioni controverse e spiazzanti, ma assicuriamo che vale la pena leggerlo per intero.

A.L.F.

"Ho visitato solo alcuni dei santuari mariani nel mondo, in Italia e in altri paesi, fra cui quello della Madonna di Guadalupe o Morenita, vicino a Città del Messico. A questo fu assai devoto il grande tenore dell’ Ottocento, Federico Gambarelli, che scampato a un naufragio dopo aver rivolto alle onde l’immagine della Morenita, si fece sacerdote. Investì quindi i suoi copiosi risparmi nel santuario dedicato alla Morenita, ad Albino, vicino a Bergamo, contenente il ritratto cui attribuì l’esser scampato al naufragio; vedasi Spedicato (2013). Ricordo fra gli altri santuari da me visitati, dove si trovano Madonne Nere:
-         Quello di Oropa, fondato da Sant’Eusebio di Vercelli nel quarto secolo, con una statua lignea della Madonna con Bambino, la cui immagine è sotto. Eusebio portò altre due statue, una ora a Cagliari, una a Crea, in Piemonte, dove è tradizione fare nove giri del santuario in senso antiorario (sinistrorso). Eusebio avrebbe portato le tre statue, attribuite a Luca evangelista, da Gerusalemme. Quella di Oropa è intatta, senza alcun segno del tempo passato, anche sul piede pur molto toccato dai pellegrini.
-         L’icona del Sacro Monte di Varese,  santuario fondato forse da Sant’Ambrogio nel 381. Dal santuario e dal piccolo villaggio che gli sta attorno, proseguendo si raggiunge  sulla cima del monte Campo dei Fiori l’osservatorio astronomico fondato da Salvatore Furia, cui collaborai e dove scrissi nella solitudine la mia tesi di fisica nel 1969.
-         Quello di Loreto nelle Marche, con una statua di Madonna e Bambino, notevole per la presenza della piccola casa che secondo tradizione fu quella di Maria a Nazareth di Galilea, e che angeli avrebbero portata a Loreto nel 1291; secondo uno studio recente le pietre della casa, smontate e numerate, sarebbero da una nave appartenente alla famiglia Angeli, con la ricostruzione della casa in loco  
-         L’icona di San Luca a Bologna, forse ridipinta su una sottostante più antica. Il santuario è del dodicesimo secolo. Si trova sulla cima del Colle della Guardia dominante la città, raggiunto da un portico di 666 archi, simbolo del serpente schiacciato dalla Madonna. L’icona sarebbe stata portata da Costantinopoli da un pellegrino, è nera non molto scura
-         Quello di Montserrat, dominante Barcellona da 720 metri di altezza, con una statua detta anche la Moreneta, di Madonna con Bambino. Si trova in un monastero benedettino dell’undicesimo secolo, ma era già venerata dal nono secolo. Il monastero ha una scuola di canto considerata la più antica in Europa. Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti, si sarebbe convertito durante una visita, leggendo un libro sulla passione di Gesù. La statua sarebbe stata trovata nel 880 in una grotta da alcuni bambini e quella attuale sarebbe una copia romanica. Ne esiste una copia a Sassari, città che fu per un certo periodo sotto controllo catalano. Il volto della Madonna è di carnagione scura, altre parti del corpo sono dipinte con oro.
-         Quello di Einsiedeln, in Svizzera, costruzione ora del Settecento, ma risalente al decimo secolo, frequentato dal XIV secolo per la statua della Madonna Nera. La statua originaria fu distrutta nel 1465 da un incendio, e sostituita dalla presente proveniente da altra località svizzera; fu poi ridipinta in nero dopo i danni subiti durante la rivoluzione francese. Einsiedeln appare nelle memorie di Giacomo Casanova, che, affascinato dalla biblioteca ivi presente, decise di farsi monaco. Iniziò quindi una lunga confessione, non terminata, poiché l’arrivo di due belle  nobildonne inglesi gli fece perdere il santo proposito. Casanova era giunto a Einsiedeln a piedi da Zurigo, dove sarebbe tornato la sera, percorrendo quindi in una giornata oltre 80 km.
-         Quella del santuario polacco di Jasna Góra (= Monte Chiaro) a Częstochowa,  datata al 1382 con restauri del 1430-1434 dopo sfregi, anch’essa attribuita originariamente a San Luca. Sotto foto del santuario, forse il più suggestivo visitato da chi scrive, e dell’altare con la Madonna, scattate dal mio compagno di liceo e germanista Antonio Del Mare in un suo viaggio in loco poco prima della Pasqua 2016.
Una affascinante presentazione delle Madonne Nere si trova nel libro Il culto delle Madonne nere, Jorio (2008). Le Madonne Nere sono nel mondo circa 450, fra quelle di cui esiste la statua originaria medioevale, quelle di cui si ha una copia, quelle di cui esiste il culto ma non si è certi che esistesse in passato, e quelle il cui culto è sparito. In Francia i santuari con statua originaria sono concentrati nella regione del massiccio centrale, in Italia in Piemonte. In Wikipedia troviamo un elenco parziale dei santuari con Madonne Nere, da cui prendiamo i seguenti numeri:
-         In Belgio 5
-         In Francia 180
-         In Italia 95, di cui 25 in Piemonte, 35 nell’Italia peninsulare, spesso portate da monaci greci nel secolo dodicesimo, per salvarle dagli iconoclasti nel territorio bizantino.
-         In  Spagna 13
-         In Svizzera 7.
-         Altre informazioni interessanti si trovano in Begg (2006), da cui riporto:
-            -  La più antica raffigurazione della Vergine sembra sia la Vergine scura nella catacomba di Priscilla a Roma, datata al secondo secolo, da alcuni tuttavia considerata una raffigurazione di Iside, dea il cui culto in migliaia di anni ha avuto varie evoluzioni
-         -   nel 438 l’imperatrice Eudocia, moglie di Teodosio, donò alla imperatrice reggente Pulcheria, sorella maggiore di Teodosio e santa per le chiese ortodosse e cattoliche, una icona della Madonna Nera dipinta da San Luca
-         -   nel 1255 San Luigi portò dalla crociata in oriente varie immagini  di Nostra Signora intagliate in legno nero. Furono lasciate nella provincia francese di Forez,  fra Alta Loira e Massiccio Centrale
-         -   molte Madonne Nere furono distrutte prima dagli ugonotti, verso la fine del Cinquecento, e due secoli dopo durante la rivoluzione francese
-         Nella prossima sezione consideriamo alcune proposte sull’origine di tali raffigurazioni. Diamo quindi la nostra spiegazione, mai stata considerata nella letteratura, basata su una recente scoperta scientifica e su dati in un libro alquanto dimenticato del viaggiatore spagnolo del dodicesimo secolo, il rabbino  Beniamino da Tudela.
Origine delle Madonne Nere, nella letteratura e nella cultura popolare
È opinione corrente che le Madonne Nere non abbiano nulla a che vedere con l’aspetto attuale di Maria madre di Gesù. La letteratura inerente alle centinaia di santuari o immagini della Madonna Nera è vastissima, sia come libri che come articoli. Quasi ogni santuario ha vari libri sulla sua storia, spiegando quindi, di solito in poche parole, perché la Madonna appaia in colore nero, o comunque molto scuro. Quanto segue si basa sui libri citati di Jorio e di Begg (2006), nonché su quanto al sottoscritto ha sentito da preti, guide e venditori di souvenir in alcuni santuari.
Le opinioni più diffuse e meno approfondite sono le seguenti:
-         Il colore nero non esisteva in origine, è dovuto al passaggio del tempo, per la interazione con inquinanti nell’atmosfera, in particolare con fuliggine dalle candele accese nel santuario per secoli
-         Il colore è dovuto all’utilizzo di un supporto nero, ad esempio l’ebano dell’India, di difficile accesso tuttavia nel passato, o quercia stagionata, di colore scuro, o…
-         Il colore è nero come segno di dolore
-         Il colore è nero per fantasia del pittore o scultore.
Contrariamente alla diffusa credenza che con il passare del tempo  icone e statue da chiare diventerebbero scure o nere, uno studio di Saillens (1945) mostra che una statua o icona nera diventerebbe con il tempo grigia o giallastra.
Accanto alle credenze citate che banalizzano il colore nero, motivazioni più approfondite sono presenti nella letteratura, ma sempre tali da non riconoscere un riferimento autentico a Maria madre di Gesù. Una ampia presentazione di tali approcci più sofisticati si trova in Begg (2006), studioso di vari temi esoterici e mitologici e già domenicano. Fra tali approcci notiamo:
-         L’ipotesi che le Madonne  Nere siano immagini cristianizzate di divinità pagane, in particolare celtiche. Si veda lo studio di Durand-Lefèbvre (1937), sulla continuità fra dee pagane e Madonne nere. Si noti il colore nero in divinità come Atena, vedasi il classico Black Athena, di Martin Bernal  (1997), o nella dea Kali dell’India, dove Kali con la a breve significa in sanscrito nero, e nera in particolare è la lingua di Kali, una delle sette fiamme del dio Agni. Stando ad Ackerman (1996.1998), il dio Agni corrisponde alla prima fase, quella più calda, del materiale emesso da Giove dopo l’impatto con un grande corpo, vedasi anche Spedicato (2015), materiale poi divenuto il pianeta Venere. Kali con la a lunga significa sangue, e si può vedere una relazione fra i due significati nel contesto considerato
-         L’associazione con sacre Pietre Nere. Di queste una famosa, sacra alla dea Cibele,  fu inviata a Roma nel 205 AC da Attalo, re di Pergamo, la città in Anatolia occidentale nota per la biblioteca, seconda solo a quella di Alessandria, e per l’invenzione della pergamena. Cibele era una divinità anatolica, associata alla Dea Madre. I suoi sacerdoti, detti Coribanti, all’equinozio di primavera svolgevano un rito speciale, in cui si mutilavano. Il significato di tali riti è enigmatico. Potrebbe relazionarsi agli eventi seguiti all’impatto che Giove subì, avvenuto secondo certi argomenti durante un equinozio di primavera. Ricordiamo anche la Pietra Nera in Arabia, vicino alla Mecca, nel santuario della Kaaba, sulla cui origine vedasi Boubakeur (1999), da associarsi al santuario duale, anch’esso con 360 statue ma con una pietra bianca, sito a sud della Mecca, in Asir. Tale santuario fu rispettato da Maometto ma fu distrutto da Ibn Saud  quando prese il potere verso il 1920. Ibn Saud  distrusse anche le tombe di Maometto alla Medina, quella di Eva a Jeddah, e sterminò i 700.000 sciiti nel territorio da lui controllato.
-         La discendenza da una esoterica Sapienza Nera, ipotizzata dal grande mitologo Robert Graves (1965)
Nella prossima sezione sosterremo che le Madonne Nere riflettano l’effettivo colore della pelle di Maria. Luca, medico, amico di Paolo di Tarso ed evangelista, ne era a conoscenza e lo rispettò nella sua qualità di pittore veritiero.
Madonne Nere, una origine veritiera
 In questa sezione utilizziamo nuovi argomenti per affermare che il colore nero, o comunque scuro, delle icone e delle statue delle Madonne Nere non sia dovuto ai motivi considerati nella precedente sezione, ma rifletta una caratteristica effettiva della pelle di Maria. Fatto poi dimenticato, o per il perdersi dell’informazione, o per il privilegiare il colore bianco o comunque chiaro degli europei o nord africani, presso i quali il cristianesimo si diffuse principalmente,  nelle terre dell’impero romano.
I nostri argomenti si basano su una ipotesi, accettabile per molti ma rifiutata da altri, e su due fatti scientifici.
L’ipotesi è che l’immagine che appare sul telo della Sindone, ora a Torino, sia quella del corpo di Gesù, creatasi nella tomba dove il telo lo avvolse. I due fatti sono il primo la scoperta, dovuta al medico legale Pierluigi Baima Bollone, che l’uomo della Sindone ha le caratteristiche antropometriche di un maschio arabo-yemenita, e il  secondo l’affermazione, del viaggiatore spagnolo del XII secolo, il rabbino Beniamino da Tudela, che la metà degli ebrei da lui conteggiati, dalla Spagna all’India, si trovassero nello Yemen.
Quanto sopra suggerisce l’ipotesi che Maria fosse di nascita una arabo-yemenita e quindi avesse la pelle del colore tipico di tale popolo, ovvero nero e comunque molto scuro. Colore la cui origine non è dall’ Africa bantu, ma dalle popolazioni dravidiche, che un tempo occupavano, oltre all’India, gran parte dell’ Asia sud occidentale e forse anche parti della regione mediterranea. Popolazione dalla pelle nera, anche se con variazione rispetto al colore dei bantu, più opaca, meno lucente. Ricordiamo che gli abitanti dell’ India erano correntemente chiamati etiopi, ovvero dalla pelle bruciata (dal sole), denominazione frequente nell’epica Dionisiache di Nonno di Panopoli sulla guerra di Dioniso contro l’India. Tale guerra è considerabile un fatto storico, di poco  precedente l’esplosione di Fetonte con diluvio di Deucalione, verso il 1450 AC, vedasi Spedicato (2014).
Partiamo dalla Sindone, su cui vasta è la letteratura, vedasi in particolare Baima Bollone (2015) per informazioni su un tema dove nuovi risultati continuano ad arrivare da sofisticate ricerche scientifiche. Ci limitiamo ad alcuni fatti:
-         Dai Vangeli sappiamo che il corpo di Gesù, deposto dalla croce, fu unto con sostanze aromatiche, fra cui aloe e mirra. Poi fu avvolto in un lenzuolo, che Pietro e Giovanni, testimoni, dopo Maria Maddalena,  della scomparsa del corpo, videro vuoto
-         È tradizione che il lenzuolo, su cui era visibile una immagine, fu portato ad Edessa, città ora chiamata Urfa Sanluri e sita nella Turchia meridionale,  dal re Abgar, che, dopo una corrispondenza epistolare con Gesù, lo ebbe in dono e si convertì; le lettere furono viste da Egeria figlia di Teodosio, come lei afferma nel suo resoconto di viaggio verso il monte Sinai, riscoperto in tempi recenti in un libro dove il testo di Egeria era stato sovrascritto con inni religiosi
-         Nascosto il lenzuolo in una cavità delle mura di Edessa durante un difficile periodo, fu ritrovato dopo un terremoto e venduto dai persiani allora in potere ai bizantini
-         Conservato per secoli nel palazzo imperiale delle Blacherne a Costantinopoli, con occasionale ostensione, scomparve durante la IV crociata guidata dal doge Enrico Dandolo di Venezia, cieco e vecchissimo, quando Costantinopoli fu gravemente saccheggiata con perdita di tante opere, fra cui grandi statue romane in bronzo fuse per fare cannoni. Il lenzuolo fu rubato probabilmente da un nobile crociato francese e, passando da Atene, arrivò in Francia, dove nel 1353, a Lirey, Goffredo di Charny annunciò di esserne in possesso
-         Consegnato ai Savoia nel 1453, si trova ora a Torino. Fu consegnato nel 1983 alla Santa Sede. È sopravvissuto a due incendi, il più grave nel 1532, il secondo nel 1997. I primi raffinati studi scientifici sono iniziati dopo la guerra, fra i quali quelli sul polline del criminologo svizzero Max Frei e su vari temi del medico legale di Torino Pierluigi Baima Bollone.
Conferme alla tradizione di cui sopra, includono fra l’altro:
-         Tessuto di lino naturale, con ordito a spina di pesce, e lavorazione speciale del tempo di Gesù
-         Presenza di polline dalle regioni dove il tessuto è passato, secondo la storia di cui sopra, in particolare di piante xerofili della zona del Mar Morto, e di una pianta endemica delle mura di Gerusalemme; pollini inoltre negli unguenti usati, tipici dei seppellimenti dell’epoca di Gesù
-         Variazione dell’iconografia bizantina di Gesù, anche nelle monete,  dopo il ritrovamento del lenzuolo e suo trasporto a Costantinopoli; effetti anche sull’iconografia in altre regioni
-         Scoperta di particelle di sangue, aloe e mirra, con presenza di bilirubina di color scarlatto, sostanza elaborata dal pancreas, di colore giallo ma che diventa rossa in caso di stress; sostanza molto stabile, ritrovata anche in ossa di uomo di Neanderthal
-         Mancanza di pigmenti e di altri effetti che spieghino la colorazione del lenzuolo in corrispondenza delle immagini, colorazione della quale il fisico Giancarlo Cavalleri (2014) ha dato una sofisticata spiegazione al momento della resurrezione, quando il corpo scomparve, lasciando il lenzuolo vuoto. Si noti la tradizione tibetana su una simile evaporazione del corpo in relazione alla morte di Marpa e di sua moglie. Marpa, maestro di Milarepa, possedeva secondo tradizione la tecnica, forse originata da Utanapishtim, vedasi Spedicato (2001,a,b), di far passare la propria anima ad un altro corpo, di cadavere recente, umano o animale
-         L’immagine è un negativo, come emerso con grande sorpresa nelle foto di Secondo Pia, 1898, e di Giuseppe Enrie, 1930. Immagine in negativo sono sconosciute nella pittura precedente e sono quasi inconcepibili in assenza della fotografia
-         Tridimensionalità dell’immagine, emersa in studi a partire dal 1977, vedasi Giovanni Tamburelli di Torino ed altri
-         Quasi certa impronta di moneta emessa da Tiberio nel 29 e posta sugli occhi, secondo una tradizione di allora, evidenziata da sofisticata elaborazione dell’immagine.
L’obiezione principale contro l’autenticità della Sindone è la datazione al radiocarbonio, effettuata nel 1988 presso i laboratori ETH di Zurigo, e le università di Oxford e di Tucson in Arizona. Tale datazione pone il materiale esaminato fra il 1260 e il 1390. Esistono tuttavia obiezioni alla correttezza di tale datazione. Lasciando da parte le accuse di errori nella elaborazione statistica dei dati, per non dire della sostituzione del campione esaminato con uno preso dagli archivi del British Museum, da un lino appartenuto a San Luigi, si possono considerare le seguenti giustificazioni per una datazione errata:
-         Il tessuto esaminato proveniva da una zona laterale del lenzuolo, con depositi carboniosi dall’incendio del 1532
-         In certi tessuti sulle fibre possono depositarsi batteri di origine anche recente, ringiovanendo il materiale organico. Tale effetto appare nelle  mummie egizie, dove sono state osservate differenze anche di un migliaio di anni fra il corpo della mummia e il tessuto che l’avvolge; la pulizia effettuata sui tessuti esaminati si suppone tuttavia che abbia eliminato materiale estraneo
-         Se l’immagine fosse stata originata da un flusso di neutroni al momento della resurrezione, come proposto da Cavalleri, allora i neutroni avrebbero portato ad un aumento del  C14  originario. Cavalleri calcola che sarebbe bastato un aumento del 18%  del C14 per ridurre l’età del telo da 2000 anni a 650.
Stabilire in modo definitivo che l’immagine della Sindone sia autentica e che sia quella del corpo di Gesù al momento della resurrezione, è al di là della scienza odierna, e forse di sempre, ed un fattore opinione o fede è inevitabile.  Osserviamo tuttavia che se la tesi di Cavalleri fosse corretta, si sarebbe in presenza di uno straordinario miracolo, prova della resurrezione di Cristo e quindi della sua divinità.
 Per proseguire in questo studio assumiamo come ipotesi di lavoro che l’ immagine sia autentica e sia quella del corpo di Gesù.
Il secondo punto è basato sull’analisi antropometrica del corpo la cui immagine appare sulla Sindone, effettuata da Baima Bollone (1990). Le caratteristiche osservate sono quelle tipiche di un maschio dell’ Arabia, in particolare dello Yemen, che è sempre stato la parte più popolata della penisola arabica (22 milioni nel 2008, contro i 16 milioni della ben più grande Arabia Saudita nel 2006, tralasciando i 9 milioni di immigrati provvisori… rapporto di popolazione in passato forse ancora più favorevole allo Yemen). 
La parte più ricca come agricoltura e allevamento nella penisola arabica è l’ Arabia felix,  dalla Mecca allo Yemen, con l’altopiano dell’ Asir, ricco di fiumi e laghi grazie ad un ramo del monsone che vi porta piogge. Secondo lo storico libanese Kamal Salibi, che usa argomentazioni geografiche molto pertinenti, la biblica Terra di Canaan non è la Palestina, ma la parte dell’ Arabia sud est comprendente l’Asir, vedasi Salibi (1988, 1996, 1998). Terra di burroni e di città sulla cima di monti quasi imprendibili, come descritta in Esodo dalla spedizione che Mosè vi inviò e di cui fece poi uccidere i componenti, avendo la loro descrizione terrorizzato gli altri. Tale parte è sempre stata intensamente abitata, anche da popoli di diverse stirpi e lingue, almeno sino all’arrivo di Ibn Saud, che ha chiuso l’Asir per circa 80 anni, con conseguenze non note di distruzioni archeologiche e della popolazione; si noti che nel vicino Dhofar, terra del migliore incenso e ora afferente all’ Oman,  vivono quattro stirpi di lingue diverse, non semitiche e non indoeuropee.
Fra le popolazioni nell’ Arabia Felix vanno citati gli ebrei, i discendenti di Abramo. Gli ebrei non sono semiti, ma forse ariani in origine, stando alla dimenticata affermazione di Clearco da Soli: gli ebrei discendono dai sapienti dell’India. Affermazione in accordo con chi scrive, per cui Abramo migrò dalle città di Uri e Haran non del Medio Oriente, ma del Kashmir, Spedicato (2016b). Fra la popolazione dell’Arabia Felix, in generale cospicua per le buone condizioni climatiche, alto era il numero degli ebrei. Questi, stando alla Bibbia ed alla datazione dell’ Esodo al 1447 AC, arrivarono verso il 1400 AC, conquistando la Terra di Canaan sotto la guida di Giosuè. Parte della popolazione locale migrò, per sfuggire al totale sterminio operato da Giosuè, verso l’ Africa del nord, divenendo i Berberi, stando a storici arabi medioevali e a tradizioni ancora vive nei villaggi berberi.
Dopo la scomparsa di Salomone, verso il 930 AC,  e la fine del suo grande regno, reale e non una finzione, vedi Spedicato (2015),  gli ebrei si divisero in due parti spesso in guerra fra di loro, la tribù di Giuda e Simeone nel sud e le altre dieci tribù nel nord, formanti il regno d’Israele. Le dieci tribù furono deportate nel 722 da Sargon II re di Assiria in una regione dell’impero assiro detta di Halah, con la città di Habor e il fiume Gozan. Tale regione è identificabile con parte dell’ Afghanistan e Kashmir, da cui Abramo era partito, vedendo in Habor una forma per Kabol o Kabul, in Gozan una forma per Gihon, attuale Amu Darya, e in Halah il Kabulistan.
Quando l’impero babilonese fu conquistato dal re persiano Ciro, questi permise ai popoli deportati di ritornare nella loro terra. Quelli della tribù di Giuda andarono in parte in Palestina, crocevia dei commerci fra Persia ed Egitto, dove lavorarono per i persiani.  Iniziarono la ricostruzione del Tempio, completato nel 515 AC.  Con Ezra verso il 450 AC furono scritti i 94 libri sacri, 24 quelli del canone ebraico, per il popolo, e 70 per i grandi sacerdoti, quelli apocrifi, conservati nel Tempio in un armadio speciale, vedi Sacchi (2011). Con Neemia furono esclusi dal Tempio i sacerdoti privi di antenati che fossero stati in prigionia a Babilonia, escludendo quindi chi facesse parte delle dieci tribù. Parte dei discendenti delle dieci tribù tornarono nella originaria terra di Canaan, comprendente lo Yemen. La Bibbia, erede della divisione fra regno del sud e del nord,  ignora le dieci tribù dopo la loro deportazione. Ma sappiamo che la loro esistenza era ben nota, dato che verso il 250 AC Tolomeo Filadelfo volle, per  la famosa Settanta, traduzione della Bibbia consonantica in greco (da quale testo non è certo…),  sei esperti da ciascuna delle dodici tribù. Ed è facile considerazione che i traduttori dalle dieci tribù, essendo in maggioranza, abbiano imposto la loro versione, spiegandosi così le migliaia di varianti fra la Settanta e la successiva Bibbia ebraica, o Testo Masoretico.
Dalla ipotesi che l’uomo della Sindone fosse Gesù, e che fosse un maschio del tipo arabo-yemenita, consegue che la madre fosse quasi certamente anche lei del tipo arabo-yemenita. Ora le popolazioni di tale parte dell’ Arabia sono generalmente di colore scuro, di un nero che si ritrova in India e nell’Iran centrale (zona di Kerman), tipico delle popolazioni dravidiche, il cui habitat un tempo era assai più esteso. Una ipotesi dove si ignora l’apporto paterno, se Gesù nacque senza intervento di un padre.  Fatto questo che va oltre l’analisi in questa sede.
 Maria può quindi essere considerata una donna ebrea proveniente dallo Yemen, o vicinanze, dalla pelle di colore scuro o nero. Fatto che fu forse  uno dei problemi per Giuseppe quando la accolse al termine del suo lavoro di filatrice per la tela di ricambio del Tempio, di cui ad apocrifi. Il colore scuro doveva essere ben noto a Luca, autore del primo dipinto, se non attraverso una sua esperienza personale, da quanto Paolo gli disse al ritorno dall’ Arabia. Sappiamo infatti che Paolo, dopo un breve incontro a Gerusalemme con gli apostoli, si recò in Arabia, per motivi oscuri. Alla luce della teoria di Salibi (2007),  secondo cui Giuseppe sarebbe vissuto in Arabia, nel Wadi Jalil, ovvero Valle di Galilea, per andare solo dopo in Egitto  a Nazareth di Galilea in Palestina, ha senso che Paolo si sia recato in tale zona per avere ulteriori informazioni su Gesù. Le informazioni sulla origine di Maria e sul suo colore della pelle, Luca, discepolo e amico di Paolo, potrebbe averle avute quindi da Paolo, anche se è probabile che abbia incontrato Maria personalmente. Luca è santo patrono degli artisti, avrebbe dipinto anche  i ritratti di San Pietro e di San Paolo.  Secondo Iacopo da Varazze, Luca sarebbe l’autore inoltre della immagine dipinta su legno di Gesù seduto in trono, benedicente con la mano destra e con il rotolo del Vangelo nella sinistra, collocata nella cappella della Santa Scala presso la Basilica di San Giovanni in Laterano. Icona veneratissima, fu portata sulle spalle da papa Stefano II, secondo il Liber Pontificalis, al tempo dell’invasione dei Longobardi. Il colore originario del volto non è noto, causa i vari restauri e la copertura del volto con un tessuto di seta applicato all’originale nel secondo restauro sotto Alessandro III, fine dodicesimo secolo".
Emilio Spedicato

24/03/16

Il nuovo libro di Carlo Gambescia: "Sociologi per caso"


di Aldo La Fata



“Sociologi per caso” è il titolo dell’ultimo libro di Carlo Gambescia, appena uscito per i tipi dell’editore di Piombino (Livorno) “Il Foglio”. Sulla copertina è stato riprodotto un bel quadro del pittore impressionista Gustave Caillebotte dal titolo “Rue de Paris, temps de pluie”. La Parigi di quel tempo è già diventata la spengleriana “città assoluta”, la città mondiale, cosmopolita, monumentale, fatta di pura pietra e per scopi esclusivamente economici. I suoi abitanti vestono elegantemente (vezzo tipicamente parigino) e sono borghesi nel corpo e nell’anima, capitalisti al loro esordio.  Forse – ma è solo una mia interpretazione -  il quadro vuole suggerirci che è proprio in quel contesto, per molti aspetti plumbeo (vedi la pioggia), ma anche ricco di speranze e di avveniristiche previsioni (la grandiosità delle strade con larghe vie di fuga, la serena e spensierata tranquillità dei passanti) che nascono le cosiddette scienze sociali, con il parigino (anche lui) Auguste Comte a fare da apripista.
Ma veniamo ai contenuti.

Il testo è una collatio di saggi (alcuni già editi, ma di non facile reperibilità, altri inediti) dedicati ad autori annessi con intelligenza da Gambescia tra le file dei sociologi che non seppero di esserlo, appunto dei “sociologi per caso”. Nell’ordine: Dante, Machiavelli, Evola, Jünger, Mann, Tolstoj e Pasolini. Alla cui analisi, Gambescia fa  precedere un capitolo introduttivo “sul metodo”, ossia dedicato al filo conduttore -  quello di una sociologia capace di farsi via letteratura, politica e metapolitica -  che unisce, per concetti e regolarità, gli autori indagati.
L’inserimento dei primi due, Dante e Machiavelli, a tutta prima può sembrare una forzatura, ma scopriamo subito che non è così. La “Commedia” ha una struttura triadico-trinitaria che ricorda molto da vicino il paradigma tripartito della sociologia strutturale e dinamica di un Sorokin; la descrizione così razionale e lucida, ai limiti del cinismo, che  Machiavelli fa delle burrascose vicende politiche del suo tempo, ricorda molto da vicino l’approccio di un moderno sociologo. E siamo così ai lineamenti di una preistoria e protostoria della sociologia, sia pure per frammenti, ma che verrebbe voglia di ricostruire sistematicamente.
Certo, come riconosce Gambescia, qui si tratta solo di assonanze, di identità parziali, di connessioni tra le parti di un discorso a più voci e quindi di variazioni sul tema, di differenti modi di interpretare un discorso che ha per “oggetto” la diversità e complessità delle relazioni politiche e umane nel loro fattuale divenire. Tra passato e presente si possono dunque trovare  concordanze logiche e persino metodologiche,  fermo restando che tra quel passato pre-industriale, pre-democratico e pre-moderno e il nostro presente post-industriale, post-democratico e post-moderno, se di analogie si può parlare, è sempre e solo nel segno della pura casualità. Quel che diceva un Platone non è proprio esattamente quel che diceva il neoplatonico Bergson, posto che tra i due esista una qualche specie di ideale e filosofica continuità.
Ma Gambescia è studioso serio, preparato e scaltro e sa mettere sempre “fenomenologicamente” tra parentesi l’identità storica,  politica, ideologica e culturale degli autori che tratta per occuparsi esclusivamente di quelle tracce, appunto “casuali”, di sociologia presenti nelle loro opere.
Tra i moderni il filosofo tradizionalista Julius Evola. “Sociologo per caso” secondo Gambescia soprattutto quando si occupa di “regressione delle caste” o di élites al potere, anche se siamo in presenza di una prospettiva normativa e metastorica, da filosofia e da teologia della storia, che poco o nulla avrebbe a che vedere con le classiche categorie spazio-temporali delle scienze sociali. Ma qui è l’oggetto di studio e di indagine ad essere propriamente “sociologico” e non la sua interpretazione in chiave tradizionale o metafisica, come d’altronde spiega sempre molto bene Gambescia. Tra l’altro scopriamo (ce l’eravamo francamente dimenticato) che Evola non disdegnava affatto la sociologia e che anzi vedeva in essa “un importante campo di lavoro” potenzialmente utile al pensiero di Destra. E qui Gambescia pesca dalla copiosissima produzione pubblicistica di Evola il pezzo a più colonne che il nostro dedicò a Vilfredo Pareto (apparso in seguito nell’antologia “Ricognizioni uomini e problemi”, Roma 1974). La scelta di Evola andava nella direzione di un sociologo “anticonformista e antidemocratico”, ma non si deve dimenticare che Evola non disdegnava, pur criticandolo, un Max Weber molto presente nelle sue opere di rivolta.
Altro “sociologo per caso”, a “metà”, “dilettante ma di genio” osserva Gambescia, è il noto scrittore  e filosofo tedesco di fama mondiale Ernst Jünger, qui definito  “l’anti-Weber”. Leggendo il denso capitolo che lo riguarda abbiamo forse compreso quanto il nostro sia stato frainteso, soprattutto da una destra giovanile e militante che ne ha fatto uno dei suoi idoli marziali, ignorandone invece la complessità, la varietà delle idee, a volte inclassificabili a volte persino ingenue e comunque non sempre coerenti e non sempre riconducibili al pensiero della Konservative Revolution. Comunque, la conclusione di Gambescia è che la perorazione di Jünger per il conflitto e per la guerra (un fattore sociologico questo di prim’ordine) risulta alla fine sbilanciata e fuori asse. La sua opera passata “al setaccio della teoria sociologica” è “L’operaio”, “una autentica miniera di pepite conflittualiste” (altro punto fermo della moderna sociologia) dice Gambescia e non solo. Scopriamo così, un nuovo filone d’indagine nella vasta produzione letteraria del “contemplatore solitario” di Wilflingen.
Restando nell’ambito della letteratura tedesca del Novecento, l’altro autore che compare nella lista dei “sociologi per caso”, ma stavolta  senza se e senza ma, è il grande  Thomas Mann. Il suo capolavoro, “I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia”, è secondo Gambescia “una specie di anticipazione  a Capitalismo, socialismo, democrazia di Joseph A. Schumpeter”. Il capitalismo familiare al centro della vicenda romanzata, segnerebbe, spenglerianamente, il cruciale passaggio dalla Kultur alla Zivilisation.  Scrive a questo proposito Gambescia: “I vigorosi e creativi ‘animal spirits’ del capitalismo di cui parla Keynes, a poco a poco, cedono il passo a una scialba e sempre più fiacca dialettica tra passioni e illusioni” (p. 66). E’ il cosiddetto “fattore Buddenbrook”, come lo denomina Gambescia (suo il copyright)  una fondamentale e imprescindibile chiave interpretativa che deve essere acquisita dalla sociologia moderna.
Dalla letteratura tedesca alla letteratura russa. L’altro grande scrittore e romanziere reclutato da Gambescia nelle file dei “sociologi per caso” è Leone Tolstoj. Un sociologo creativo? un “profeta”? Forse entrambe le cose. Il nostro avrebbe fornito involontariamente un importante contributo alla “teoria sociologica dell’ordine spontaneo”, “ossia di un ordine sociale quale esito di imprevedibili processi interattivi tra milioni di individui” (p. 76). Insomma, il maestro russo avrebbe suggerito ai sociologi una cosa fondamentale, ovvero l’importanza per la comprensione e la previsione dei processi storici e sociali, dello studio degli  imprevedibili effetti non  intenzionali  delle azioni individuali.
Come tra gli uomini di lettere ci sono i “sociologi per caso”, così pure ci sono quelli
non tanto per caso ma per scelta ponderata e deliberata.  Pier Paolo Pasolini fu sicuramente uno di questi. Tuttavia, la sua fu una sociologia “impressionistica”, di scarsa o nulla scientificità, quindi poco convincente e un po’ d’antan. Gambescia la definisce “sociologia dell’austerità” a base di demonizzazione del capitale in chiave marxiana, arcaismo contadino e “modernismo reazionario”. Lascio al lettore la scoperta delle inedite consonanze tra Pasolini ed Enrico Berlinguer.
Qualche parola per finire.
Intanto, sia ben chiaro che in queste righe ho solo accennato e per sommi capi ai contenuti del libro, la cui densità concettuale non è riassumibile nello spazio angusto di una recensione. Si pensi solo, all’idea, certamente discutibile dal punto di vista della visione panunziana,  ma comunque  degna di riflessione, di una sociologia capace di farsi politica e metapolitica  attraverso il dialogo con la grande letteratura.  Non è infatti di un libro facile che stiamo parlando, come  in generale mai lo sono i libri di Gambescia che, ultimamente, suppongo per esigenze editoriali, si costringe dentro esigue cento pagine.  
La sociologia, in quanto tale,  poi, non è quel cliché al quale ci hanno abituato i media con i “sociologi della domenica”, ma una disciplina severa, che richiede adeguata preparazione storica e cultura generale di buon livello (diciamo sicuramente di livello universitario). Un buon sociologo deve attingere agli ambiti disciplinari più diversi, dalla psicologia alla storia, dall’economia all’antropologia,  dalla politologia al diritto alla statistica, e deve, per riprendere una suggestiva espressione di Gianfranco Miglio, esser capace di “pensare per millenni” e quindi volare molto alto. Da qui l’obbligo, culturale e professionale,  di aggiornamenti e studi continui. 
Non va dimenticato altresì che in sociologia sono moltissimi i testi e gli autori di riferimento e tra questi ultimi non sono pochi quelli che contendono terreno ai  maggiori filosofi speculativi. Con Gambescia potremmo fare i nomi, ad esempio, di Robert Michels, Pitirim Sorokin, Edward Shils, Roberto Nisbet e Giuseppe Palomba.
Ma certo nell’arco di una sola vita non è che si possa leggere tutto. E allora, piuttosto che accarezzare progetti di lettura tanto ambiziosi quanto improbabili, meglio selezionare al massimo. In questo senso i libri di Carlo Gambescia sono sempre una garanzia.