30/01/10

Carlos Alberto Disandro: aedo dell’America Romanica


di Primo Siena

Due destini incrociatisi a Roma

Non ebbi la ventura di conoscere personalmente Carlos Aberto Disandro in vita, ma tra il 7 ed il 9 marzo del 1975 mi incrociai con lui a Roma durante il congresso della Associazione Internazionale per la Cultura Occidentale (AICO) sul tema “La cultura del post-comunismo” e al quale l’eminente filologo argentino partecipava, accompagnato da altri due accademici del suo Paese: Hugo Bauzá dell’Università de La Plata ed Enrique Zuleta Álvarez dell’Universdità di Cuyo.

In quell’occasione assistii al alcune sessioni del congresso, però a quell’epoca non conoscevo ancora la meritata fama del filologo argentino per cui la sua figura fisica passò inosservata. Non così invece fu per il suo intervento, riassunto il giorno dopo in una cronaca del quotidiano Il secolo d’Italia, che archiviai diligentemente.

La cronaca riportata dal citato quotidiano presentava quel suo intervento con queste parole: <L’argentino Carlo Alberto Disandro, filologo classico di fama mondiale, rilevò in una esposizione appassaionata, che la semantica marxista ha invaso la cultura ad ogni livello, pertanto una cultura del post-comunismo dovrebbe ristabilire la giusta connessione tra la tradizione linguistica e le tradizioni popolari completamente travolta dal marxismo. Disandro indicava quindi tre orientamenti propri dell’ateismo posteriore al rinascimento che hanno alimentato il maxismo: uno di carattere teologico-filosofico, il secondo nell’ateismo del homo potens rerum, derivato dal razionalismo critico dei secoli XVII e XVIII, ed il terzo nell’ideologia ateista socio-politica contemporanea. Dinnanzi alle delusoni sofferte da certi strati dell’umanità per le oppressioni dell’ideologia marxista ed i suoi fallimenti, Disandro ha sollecitato il recupero delle autentiche fonti della nostra cultura classica nutrita del mistero teandrico del cristianesimo romano. Il dottor Disandro crede nella forza catartica di una semantica poetica in grado di aprire nuove vie al recupero ed all’instaurazione della creazione lirica sognata da molti poeti. Egli conclude il suo appassionato intervento riaffermando la convinzione che “il regno inviolabile delle Muse (quale inabitazione del Logos nel mondo), saprà affermarsi ancora una volta sui detriti di una ragione tecnificata sparsi dallo strutturalismo marxista nei campi della scienza linguistica”>.

Trascorsero lunghi anni (nel frattempo, per ragioni professionali mi ero trasferito stabilmente nell’America Latina) prima che mi fosse offerta l’occasione d’incontrarmi con Jorge Disandro, figlio di Carlo Alberto deceduto l’anno prima ad Alta Grazia, localià “serrana” nella provincia argentina di Còrdoba. Fu durante il “Terzo incontro iberoamericano di metapolitica” - organizzato dalla rivista cilena Ciudad de los Cesares a Viña del Mar (agosto 1995) - che attraverso il figlio venni introdotto gradualmente nel pensiero originale del filologo argentino, approfondito quindi successivamente mediante il contatto permanente con la comunità umana degli allievi e seguaci di Carlos Alberto Disandro, raccolti attorno alla “Fondazione culturale Decus” con sede nella città de La Plata.

Il provvidenziale incontro con Jorge Disandro, ravvivó in me, con il ricordo del fugace incrocio romano, l’interesse per ampliare ed approfondire il pensiero di suo padre che evocava quello di autori europei a me cari, politicamente e culturalmente scorretti come Giovanni Gentile, Oswald Spengler, Romano Guardini, Julius Evola, Charles Maurras, Attilio Mordini, Silvano Panunzio che avevano nutrito le inquietudini spirituali dei miei anni giovanili.

Nella metá del Novecento, il mio incontro con Guido Manacorda – campione della cultura alternativa dell’Italia postebellica, nutrito di solida patristica sotto severa disciplina aristotelico-tomista – aveva suscitato in me una intensa curiosità per la semantica; disciplina che poi – incamminato sul viale dell’autunno della vita – avrei approfondito appunto attraverso lo studio degli scritti di Carlos Alberto Disandro.

Il magistero di Guido Manacorda, associato alle lezioni di Marino Gentile seguite durante i miei studi nell’antica Università di Padova, aprì la mia mente al filone d’oro della cultura umanista in una società abbagliata dal mero progresso economico e tecnologico, ma debbo all’incontro intellettuale con l’opera di Carlos Alberto Disandro se la mia vocazione docente scavò nel profondo significato interiore di una educazione radicata nelle linee di una cultura umanistica che, iniziatasi storicamente nell’antichità, perdura nel tempo come categoria esemplare dell’umano, il cui midollo consiste nella profondità essenziale della parola quale logos fondante della linguistica.

Il nostro mondo interiore - afferma Disandro - come il nostro ámbito spirituale è colmo delle espressioni linguistiche del mondo classico e da esse noi dipendiamo come dalla terra e dal cielo. L’educazione precisamente si propone di risuscitare queste radici, rendendoci coscienti di esse col fecondare in profondità tutto ció che emergeva in superficie, tornando ad inserire la parola con le sue irraggiungibili profondità, nel mondo interiore del bambino e dell’adolescente. Questo compito di seminare le radici, di approfondirle e d’interiorizzanrle è il primo e capitale elemento dell’educazione classica o umanistica>.

Il dominio della natura si dà mendiante la fisica – continua Carlos Alberto Disandro – ma il dominio dell’uomo si manifesta per mezzo della linguistica> essendo la linguistica quella scienza che assume il “carattere pneumatologico” della parola che s’inscrive inoltre in una femenologia che suppone una eskatologia della parola stressa, la quale reclama i diritti dell’antica sentenza con la quale si apre il Vangelo di San Giovanni:In principio esisteva già la Parola e ció che era Parola stava con Dio ed era Dio. Stava dall’inizio con Dio e per mezzo suo, Dio fece tutte le cose; nulla di ciò che esiste fu fatto senza di Lui”.

Qui l’insegnamento di Disandro s’innesta nel pensiero del mio Maestro metapolitico Silvano Panunzio quand’egli afferma che per l’alessandrino Filone – grande ammiratore di Platone e del suo purissimo idioma – il Logos interiore (Pensiero) approfondisce il Logos exteriore (Parola); per cui lo stesso Panunzio da ciò ricava la seguente conclusione: <Nella sua massima espressione il Logos giovanneo è Parola interiore, Verbo non pronunciato che si fa visione rivelata>.

Con il senso trascendente e sacro del linguaggio concorda altresì Attilio Mordini – che mi fu grande e buon amico oltre che maestro insigne – quando nel suo aureo libro Verità del linguaggio (pubblicato postumo presso l’editore Volpe, in Roma nel 1974), appoggiandosi sull’autorità dell’opera principale di San Isidoro da Siviglia (Etimologiae), sostiene l’origine divina del linguaggio umano con queste parole: <Il linguaggio scaturisce dall’ineffabile perché nella sua essenza intima esso è circostanziale all’anima dell’uomo; e si manifesta quando la voce divina dell’Essere sorge sulle labbra del primo uomo dalla profondità del suo cuore e si deposita sugli animali e sulle cose>.

Alla ricerca di una geopolitica americana

Prima di giungere in territorio iberoamericano, avevo appreso qualcosa sulla geopolitica attraverso il pensiero di Karl Haushofer e Hans Wigert; ma la comprensione autentica dei traguardi umanistici di quella scienza la debbo all’insegnamento di Carlos Alberto Disandro; il quale in questa terra australe mi fece comprendere il suo significato romanico; un significato che appartiene agli abitanti di questo subcontinente americano sia per la tradizione semantica che per il destino di una stirpe di fondatori. Tale senso romanico si contrappone tanto ad un marxismo capitalista come al marxismo comunista, ambedue strumenti di una “geopolitica esoterica, tracciata in definitiva contro la terra e quindi contro l’uomo; geopolitica che rappresenta l’ irreggimentazione di una divinità mondiale infeconda che trasferisce all’uomo il dominio degli abissi del mondo con il pretesto di una supposta dignità dell’uomo, della ragione e della scienza”.

Fu attraverso il contributo intellettuale di Carlos Disandro che riuscii a comprendere il pericolo, nelle sue diverse sfaccettature geopolitiche, della “rivoluzione culturale” nordamericana propagata dai nefasti alchimisti del Council on Foreign Relations e che – spiega Disandro - <ha coperto l’utilizzazione delle guerriglie contronazionali sotto l’innocente e pomposo nome di diritti umani, diritti di Caino opposti al cadavere innocente di Abele; di quel Caino che per Tubalcan è il padre di qualunque geopolitica tecnocratica>.

Disandro in primo luogo rileva che in senso cosmografico, geologico e geografico l’America è un continente segnato da una intensa polarità, con caratteristiche opposte: boreali ed australi, artiche ed antartiche; caratteristiche che determinano la separazione tra gli oceani Atlantico e Pacifico. Secondariamente questo continente non ha né lingua né stirpe fondante, perché ció che in esso esiste non è originario ma derivato; non v’è in esso sacralità fondante, ma piuttosto una disponibilità ed apertura ad una sacralità recuperata da spazi diversi. Di conseguenza: <quando questo contesto entra nella storia universale – tra i secoli XV e XVII – lo fa nello spazio geopolitico aperto dall’impero romano e dai suoi risultati medievali, ma altresì nello spazio circoscritto dalle tensioni religiose di questi secoli>.

Quando il secolo XVIº segna la convergenza tra storia e geografia, le terra dell’Iberoamerica occupano lo spazio interno dell’impero romano, mentre l’America anglofona (coincidente più o meno con il Nordamerica) si estende alla periferia dello spazio suddetto. Da qui sorge la opposizione polare tra un’America ispana romanizzata e lo spazio dell’America britannica “ separata da quasi tutto l’orbe restante, come a suo tempo osservò il romano Virgilio a proposito dei britannici e degli iberici.

L’America Iberica abbraccia un territorio che dall’anno 1861 si conosce comunemente come America Latina; denominazione questa apparsa nella Revue de Races Latines di Parigi, ma risalente sia al francese Michel Chevalier, ideologo della teoria “Panlatina” di Napoleone IIIº, come al liberal-progressista cileno Francisco Bilbao, il quale la utilizzò in una conferenza dettata nel 1856 in Francia.

Il concetto di ”America Latina” costituì l’arma per rompere con le radici culturali ispaniche, identificate dagli indipendentisti “criollos” iberoamericani più radicali con la sudditanza allo straniero dell’epoca coloniale considerata come “epoca barbara”.

Osservo, a questo riguardo, che la denominazione di America Latina, a causa delle sue origini polemiche si è andata progressivamente logorando, mentre altre espressioni (come America Ispana o Iberomaerica) risultano alquanto riduttive rispetto d’ una realtà geopolitica più intensa e profonda essendosi essa proiettata in uno spazio interno romanizzato, come seppe intuire a suo tempo Tomas Stearn Eliot; il quale per quanto concerne il continente americano affermò:

<Quali eredi della civiltà europea, siamo tuttora cittadini dell’impero romano>.

Tale espressione giustifica la definizione del territorio iberoameircano di America Romanica coniata da Carlos Alberto Diosandro.

L’America Romanica e l’America Fenicia

Il concetto di Ispanicità che domina lo spazio iberoamericano si riconnette – a mi avviso – al significato di Impero Ecumenico Universale, per cui tale ispanicità nulla ha a che vedere con il nazionalismo illuminista alla francese o con l’ imperialismo dominatore degli anglosassoni. L’ispanicità rivela invece affinità evidenti con l’idea indoeuropea e romana dell’imperium, così ben chiarita dal tradizionalista italiano Julius Evola.

In coincidenza con Evola, anche Carlos Alberto Disandro sostiene che Roma fu sempre imperiale, sia nella sua lontana epoca monarchica come nella successiva era repubblicana perché questa era la vocazione del suo destino provvidenziale.

L’uso romano di lanciare ponti con arpioni dalle sue navi per agganciare i navigli nemici, permetteva di combattere nel mare come su una terraferma in miniatura. Analogamente, per gli Iberici – come già per gli antichi Romani – navigare significava conquistare, cioè: sbarcare in terraferma e farla propria. Navigare i mari, per gli Iberici come per i Romani costituiva un mezzo, non un fine.

L’impero romano aprí gli spazi dove si affermarono successivamente le lingue romanze. Questi spazi vennero assunti quindi dalla geopolitica iberica in una traiettoria transoceanica e transemisferica sulla quale navigò Cristoforo Colombo proiettando sull’impero iberoamericano gli archetipi atlantici dell’ecumene cristiana: abbondanza, sapienza, felicità.

La vocazione imperiale dei conquistatori iberici si manifestò in terra americana mediante l’assunzione del Diritto Romano e nella diffusione delle loro lingue romanze derivate principalmente dal latino dei Romani.

La lingua castigliana e il portoghese degli Iberici, propagandosi ai popoli conquistati, - come ricordava in un lontano 14 dinovembre del 1947 un colto uomo d’arme trasfornatosi in uomo politico, Juan Domingo Perón - <contribuì ad universalizzare e a rifondare nel mondo conosciuto la cultura greco-romana, matrice della civiltà occidentale>.

Lo spazio geopolitico dell’Impero Romano-Iberico (coincidente con i Paesi del Vicerame delle Indie Occidentali conquistato dagli spagnoli e l’Impero portoghese del Brasile) si colloca necessariamente in una posizione diversa e perfino antagonica rispetto allo spazio geopolitico del Nordamerica occupato ampiamente dagli Stati Uniti; i quali dinnanzi alle caratteristiche dell’America Romanica assumono in ragione delle loro radici storiche e antropologiche le caratteristiche di una America Fenicia.

Infatti lo spazio dell’America del nord fu colonizzato in maggioranza da puritani evangelici europei ed anglofoni guidati dalla legge mosaica del Vecchio Testamento interpretata fanaticamente. Considerandosi come “razza eletta”, essi si sentirono partecipi dello stesso spirito che animò gli antichi Israeliti contro i Filistei e praticarono quindi una politica di annichilamento radicale verso le tribú indigene degli indios pellirossa.

Di conseguenza questa America puritana ed anglofona si sviluppó secondo una geopolitica talassocratica di tipo fenicio, influita da una inclinazione commerciale di tipo marittimo ed associata alla dottrina religiosa del calvinismo secondo cui “il successo economico è un segno della predilezione di Dio”.

Esistette un’America, quella del sud, fedele alla sua anima celta, aliena quindi dallo spirito moderno, vincolata ad una cultura organica che univa l’uomo bianco all’indio, che coltivò la preferenza per le radici rurali e gli spazi aperti delle motagne e dei boschi, ma fu sconfitta dagli americani yankee, sedotti dallo spirito commerciale della rivoluzione industriale progressista nata in Inghilterra.

I nordamericani odierni sono gli eredi, nella loro maggioranza, dell’America commerciale ed urbana uscita vincitrice dalla guerra di secessione contro l’America rurale dei confederati. Per quest’America - come per gli antichi Fenici - navigare significa soprattutto commerciare secondo una modalità di dominio alla quale, se fallisce, si sostituisce la forza militare.

La figura del Nordamerica odierno non è quella, quindi, di una nuova Roma – come suggerisce una interpretazione superficiale – ma piuttosto la brutta copia di una Cartagine resuscitata.

Qualcosa di assai diverso occorse nell’America Iberica, nella quale il cattolicismo predominante e l’eredità ispanica favorirono la visione di una geopolitica territoriale di tipo romanico dove il navigare significa dirigersi verso la terraferma e farla propria per condere urbem, fondare insediamenti nuovi, gettare radici di nuove convivenze, costituendo questo obiettivo lo scopo e la finalità principale del navigante.

Disandro rileva che i conquistatori iberici delle terre americane applicavano il concetto romano del tueri terram, dell’amministrare la terra dandole un ordine secondo un bagaglio di saggezza implicita, perché nella etimologia di tueri (derivata dal verbo latino intueri) affiora appunto la parola intuizione che racchiude in sé i germi della sapienza.

Le considerazioni di Disandro mi hanno indotto a riflettere sulla differenza dei modelli di navi usate dai fenici e dai romani. I primi (i Fenici) navigavano su scafi snelli, rapidi che quasi si confondevano con le onde del mare; i secondi invece (i Romani), navigavano su scafi robusti e massicci, quasi dei fortilizi marittimi, la cui possanza si ritroverà nei galeoni spagnoli che solcheranno l’Atlantico ed il Pacifico per prendere possesso di territori americani ribattezzati con la denominazione di “Indie occidentali”.

I conquistatori iberici battezzavano le popolazioni dei territori conquistati trasformandoli ipso facto in cristiani elevati allo stesso livello etico dei conquistatori; e ciò accadeva perché lo sterminio programatico non entrava nel loro piano strategico di conquista. Di conseguenza gli abusi dei conquistatori (che ci furono) erano delitti gravi secondo il codice etico-legale del mondo iberico fondato sul trinomio libertà, carità, giustizia, princìpi del De Monarchia di Dante, successivamente adulterato dalla rivoluzione francesa che sostituirà la carità per la fratellanza e la giustizia per l’ uguaglianza.

Disandro, con un’ardita interpretazione, vincola la conquista iberica delle Indie occidentali all’umanesimo latino radicato nell’uomo romano definito come homo conditor, cioè l’uomo fondatore d’imprese profondamente aderito alla terra “giacchè aggiunge ad essa un ámbito di sacralità che nasce dall’uomo medesimo: l’agricoltura”. E qui il filologo Disandro ci ricorda che il vocabolo agricoltura è eminentemente latino, trattandosi di un vocabolo collegato con i riti di fondazione che nella cultura arcaica romana sono collegati all’operazione agricola di segnare nel terreno con l’aratro il traccciato delle mura entro le quali erigere la civitas.

Attraverso il rito sacro di fondazione, l’homo conditor eleva il suo atto umanistico agli spazi della trascendenza perché, annota Disandro: <Ogni atto umano fondamentalmente è sempre un’azione sacra e pertanto, quando apre le vene della terra come quando ne raccoglie i frutti , il romano percepisce il sacro nell’agricoltura e per mezzo di essa egli compie un rito sacro che attraverso questa modalità lo vincola allo spazio cosmico>.

Qui, l’uomo romano, definito homo conditor da Disandro, richiama alla memoria la proiezione storica dell’eroe di cui ci parla Giovanbattista Vico nella sua famosa Scienza Nuova; cioè l’uomo primitivo che brucia la ingens sylva per ridurla a terra coltivabile e dar inizio così ai cicli storici secondo una propspettiva religiosa che trova la sua matrice nell’altare sul quale arde il fuoco sacro che scalda ed alimenta la vita. L’umanesimo latino dellhomo conditor romano s’innesta perfettamente sulla figura del conquistatore iberico che in terra americana consolida la sua conquista fondando città, popolando i territori conquistati e integrandosi progressivamente nelle popolazioni indigene mediante un processo che darà vita ad una stirpe meticcia sorta dalla fusione di culture e razze tra gli indigeni ed i conquistatori: mistura di guerrieri, monaci ed avventurieri che costituisce il segno distintivo dell’uomo indoamericano che fonde in sé le caratteristiche psico-spirituali dell’idalgo iberico e dell’indio locale. Infatti nello spazio dell’America di lingua romanza, il processo d’integrazione razziale costituisce, più che una questione di pelle, un processo di osmosi vitale e socioculturale mediante il quale ispanismo e indigenismo si amalgamarono nella latinità romanica.

Mescolandosi i conquistatori con le popolazioni indigene attraverso un processo di assimilazione culturale e religioso culminato nel crogiolo della cristianità romana, si forgiò una razza che il messicano José Vasconcelos definì cosmica, analoga alla razza rossa atlantidea, gli elementi caratteristici della quale prevalgono negli elementi somatici delle popolazioni mesoamericane e dell’America andina integratesi nella civiltà romana dei conquistatori iberici con i quali hanno formato una nuova civiltà.

Questa civiltà risulta dalla fusione dell’uomo ellenico – definito da Disandro homo theoreticus, coltivatore di un amore costante per la verità – con le caratteristiche del vir romano, coltivatore della terra e fondatore di città. L’elemento di questa fusione è dato dall’homo mediator che fa dell’abitante dell’America Iberica un suscitatore di simboli secondo l’etimologia greca della parola (syn-balléin) derivata da un verbo che significa “porre in contatto, riunire” e di un termine che esprime il tutto, sicchè il vocabolo “simbolo” abbraccia la totalità per estenderla, quindi, ad una relazione dinamica tra il visibile e l’invisibile

Non a caso il condor, signore delle altezze celesti, nella mitologia andina è considerato “messaggero del sole”, simbolo di quella nuova stirpe cosmica che popola l’America Romanica.

Mi sembra interessante, rilevare a questo punto, che il processo d’assimilazione religiosa e culturale culminato nel crogiolo di una razza cosmica euroindia, trova il suo simbolo nell’apparizione misteriosa della Vergine di Guadalupe; simbolo per cui il fatto della conquista è assunto non come un atto di subordinazione dei sudditi ai loro conquistatori, bensì come un rito reso attraverso il tributo offerto al re di Spagna; rito inteso come un atto sacrificale incruento, estraneo a qualunque valore venale di scambio.

Il cattolicismo prevalente nella società iberoamericana, ha radicato – come commentava a suo tempo Carl Schmitt – l’America Romanica ad una visione geopolitica continentale quale elemento decisivo del suo destino.

Il simbolo guadalupegno – come intuì altresì Carlos Alberto Disandro – ci indica il destino escatologico e metapolitico preconizzato nella polarità iniziatica delle terre dell’America Romanica; e in questo simbolo Michele, l’Arcangelo guerriero, assume un ruolo protettore, quello di un katekón; cioè della forza che impedisce la tentazione di espandere nello spazio dell’America Romanica le potenze acherontiche che tentano di ridurre ed occultare la nostra concezione religiosa della vita, come sta accadendo nei Paesi occidentali dell’emisfero boreale dove sta prevalendo un eccesso di razionalismo e di vitalismo materialista.

Tutte le caratteristiche dello spazio umano, storico e geopolitico dell’America Romanica, nei secoli XVIIIº e XIXº si sono adulterate per l’influenza del movimento concettuale e politico dell’illuminismo europeo; influenza esercitatasi sullo sviluppo del processo d’indipendenza del continente americano che, distorsionandosi, s’ imbastardì.

Simon Bolivar, Antonio José de Sucre, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Juan Manuel de Rosas, coltivarono un progetto incompiuto d’indipendenza dell’Iberoamerica volto a conservare gli spazi imperiali e linguistici dell’America Romanica per proiettarli sull’ incrocio dell’asse polare, il cui destino è il Sud, e l’asse emisferico il cui destino è un manifestarsi nello spazio geopolitico continentale che abbraccia i due oceani, l’Atlantico e il Pacifico. Ma con il trascorrere del tempo si andò spegnendo l’orgoglio dei padri fondatori dell’indipendenza americana. La maggioranza della classe dirigente iberoamericana progressivamente si rassegnò a vivere in un rapporto di dipendenza culturale ed economica foranea. L’imitazione di modelli xenofobi è purtroppo all’origine del dramma storico-sociale delle nazioni iberoamericane, le quali tagliarono i loro vincoli con le proprie radici tradizionali sommergendosi in una ricorrente oscillanzione tra regimi tirannici e periodi d’anarchia, tra una democrazia ridotta a puro formalismo e pseudocesarismi civico-militari: forme mascherate di vassallaggio verso la dominazione straniera.

Carlos Alberto Disandro, affrontando questa perniciosa realtà – definita come “Invasione globale” - e navigando come sempre contracorrente - ha osato elevare la sua voce potente e sapiente per bandire una seconda guerra d’indipendenza contro l’imperio dell’usocrazia e di una ecumenicità apatrida, antiteandrica e antiperborea. Al tempo stesso ha indicato un cammino metapolitico in grado di rinnovare in terra americana l’antico rito del condere urbem onde rivivere nuovamente la tradizione romana dell’atto di fondazione mediante la quale collocare la pietra angolare del regime fisico-semantico della Res publica nello spazio profondo e concreto della vita politica e della cultura: spazio orientato dai punti cardinali di una geopolitica bioceanica volta a dominare il mare non secondo le regole del commercio, ma quelle classiche del conquistatore marittimo che considera romanamente il mare come corpus e pontus.

Disandro riproponeva insomma l’etica del “navigare necesse” osservata dai popoli ancorati alla terra e che trova la propria proiezione nell’avventura marittima di Enea e Cristoforo Colombo, edotti nella semantica del governare, orientare la rotta per dominare l’ignoto, dirigere le volontá dei popoli iberoamericani verso il progetto emancipatore della seconda indipendenza.

Fu con una visione di futuro nutrita di cultura classica che il grande filologo argentino volle ribattezzare la mistica terra sudamericana come America Romanica della quale egli, vigoroso pensatore olistico, auspicava la rinascita nel senso romano-italico che fluiva dalla antiche radici dei suoi antenati

Per tutto questo, e per molto di più, Carlo Alberto Disandro ha meritato il titolo di aedo, secondo il significato autentico del vocabolo greco (derivazione di aoidós); cioè il titolo di cantore della antica tradizione epica che egli ha recuperato e rinnovato nel secolo ventesimo. Aedo metapolitico, quindi, secondo una prospettiva sacra e trascendente della costante conversione vichiana del Factum nel Verum mediante la idea-forza del mito che in tempi di confusione babelica riafferma il decoro del Verbum con il decoro dello spirito nell’anima e nel cuore dell’uomo americano; e gli apre contemporaneamente l’erto cammino ascendente verso quel principio iberboreo in cui - come cantò lo stesso Carlos Disandro – “se vive incólume, en la incólume edad de oro de aquella fiesta que convivió Perseo”.

Cantore epico, dunque, di quella metapolitica che costituisce la sublimazione spirituale, concettuale ed estetica della politica reintegrata nel suo spazio luminoso, trascendente dell’Arte del Buon Governo, così ben raffigurata dagli affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti sulle pareti del Palazzo Comunale di Siena.

Sulla sua tomba, custodita sulle colline di Alta Grazia – nome altamente simbolico del luogo che raccoglie nel suo nome, il patrimonio incalcolabile del suo legato spirituale e culturale – sta inciso, nel suo castigliano sonoro, questo verso poetico:

He cantado piadosamente el fuego

En tiempos de su reino oscurecido

Quel fuoco, pietosamente cantato da lui, riscalda ed illumina il bivacco dove restano fraternamente riuniti tutti coloro che coltivano il suo magistero, in attesa vigilante di una rinnovata aurora dell’America Romanica.

1)Carlos Alberto Disandro, umanista e poeta, fu il maggiore filologo classico dell’Argentina nel secolo XXº. Nacque il 2 giugno del 1919 nella città di Córdoba (Argentina). Cattolico militante fin da giovane, autore di libri che segnano con una indelebile impronta personale la cultura argentina della seconda metà del Novecento, visse una traiettoria académica accidentata. A causa della sua adesione al Movimento peronista fu espulso dalla cattedra universitaria dai governi che succedettero alla caduta di Perón (16 settembre 1955); vi fu reintegrato solo con il ritorno di Perón alla presidenza della nazione argentina il 23 settembre del 1973, ma fu nuevamente epurato dopo la morte del generale ed il ritorno di una dittatura militare (24 marzo 1976). Continuó con tenace volontà e coerenza il suo magistero fondando istituzioni culturali private; tra esse merita d’essere ricordata soprattutto la “Fondazione Culturale Decus”. Morì nella località cordovesa di Alta Gracia il 25 gennaio del 1994.

2)Jorge Disandro, docente di materie tecnologiche nell’Università de La Plata, ha assorbito dal padre una forte cultura umanistica (domina perfettamente il greco classico e la lingua latina, coltiva il canto gregoriano). Presiede con acume e capacità organizzativa la “Fundación Cultural Decus” dedicata alla diffusione del pensiero del padre e, nel solco di quello, alla coltivazione della cultura umanista classica nello spazio dell’America Romanica. Il contatto con Jorge Disandro e La mi fu facilitata dal fraterno amico Vittorio Di Girolamo, scrittore, pittore, architetto, eminente docente universitario, emigrato in Cile dalla sua Roma natale nel 1948 e da me conosciuto a Santiago nel 1995.

3)L’affermazione di Eliot si trova in On Poetry and Poets , Farrar, Strauss, New York 1957, p. 135-148; e precisamente nel cap. “Virgil and the Christian World. Una sua traduzione italiana si trova c/o Bompiani, Milano 1960 , sotto il titolo “Virgilio e la Cristianità” in: Sui Poeti (p. 133-45).

4)Traduzione italiana: Ho cantato pietosamente il fuoco / nei tempi del suo regno oscurato. Questo verso appartiene al lungo poema intitolato Sonetos a la gloria del fuego. Ed. Hosteria Volante, La Plata, 1972. Pag. 132.

26/01/10

Sobre el disenso como método

di

Alberto Buela (*)

Los filósofos como los científicos más que probar teorías, disponen de teorías para explicitar lo implícito en el caso de la filosofía y para ampliar los alcances de la ciencia en el caso de los científicos.
Esta verdad que resulta una verdad a plomo, que cae por su propio peso, que es evidente por sí misma ha sido y es de difícil aceptación pues, en general, se dice que se tienen teorías o se quiere probar una teoría. Lo cual no es correcto.

El hecho de darse cuenta, que uno puede disponer de una teoría facilita el trabajo de investigación pues la teoría se transforma allí en un medio de acceso a la verdad y no un fin en sí misma como erróneamente es tomada.
La realidad, los entes para hablar filosóficamente, son la consecuencia del proceso de investigación y las prácticas científicas que vienen a convalidar la teoría. Así, si esa teoría es verdadera confirma esa realidad, esos entes.La atribución de verdad, de realidad, de coherencia, de consistencia, de adecuación es lo que permite avanzar en el camino del conocimiento. En una palabra, no se avanza justificando teorías sino que se avanza disponiendo de teorías que las prácticas científicas en el caso de la ciencia o las prácticas fenomenológicas en el caso de la filosofía pueden atribuir verdad .
La ciencia, y la filosofía lo es, puede ser pensada en este sentido como un conjunto de representaciones que se manifiestan como teorías (Aristóteles), paradigmas (Kuhn), programas (Lakatos), modelos (Popper), tradiciones (MaIntayre) que se confirman en las prácticas y no meramente en la representación.
Nosotros, en nuestro caso, hemos dispuesto de una teoría: La teoría del disenso a partir de la cual intentamos explicar al hombre, el mundo y sus problemas desde una mirada no conformista y alejada del pensamiento único, típico de nuestra época.
El disenso entendido como otro sentido al dado y establecido nos ha permitido crear teoría verdaderamente crítica y no “nominalmente crítica” como ha sucedido en definitiva con la Escuela neomarxista de Frankfurt.
Recuerdo a Conrado Eggers Lan lo enojado que estaba cuando en Estados Unidos lo recibió Marcuse del otro lado de un soberbio escritorio judicial, cómodamente apoltronado y criticando al capitalismo, siendo que era un satisfecho del sistema capitalista como pocos.
La producción de teoría crítica desde el disenso exige un compromiso no solo político sino existencial. Es que el otro para la teoría del disenso no es el del ómnibus, colectivo o subte es aquel que me opugna y disiente y al que “localizo” existencialmente. En este sentido el disenso rompe el simulacro de la mentalidad ilustrada de “hacer como si tengo en cuenta al otro” por una exigencia civilizada cuando en realidad lo que busco es distanciarme sin que se de cuenta. La filantropía, como alejada ocupación del otro (por ej. con un cheque un filántropo salva su conciencia, aun cuando ese dinero termine en los bolsillos de un sátrapa en compra de armas para matar a quienes se dice ayudar) reemplazó en la modernidad a la caridad que es la ocupación gratuita del otro, pero entendido como singular y concreto. Por ello se habla en el catolicismo de “las caridades concretas” y nuestros viejos padres criollos nos exigían incluso “tocar físicamente” aquel a quien se auxilia.
Es sabido que todo método es un camino para llegar a alguna parte, en este sentido el disenso como método no se agota en el fenómeno como la fenomenología sino que además privilegia la preferencia de nosotros mismos. Parte del acto valorativo como un mentís profundo a la neutralidad metodológica, que es la primera gran falsedad del objetivismo científico, sea el propuesto por el materialismo dialéctico sea el del cientificismo tecnocrático. Rompe con el progresismo del marxismo para quien toda negación lleva en sí una superación progresiva y constante. Por el contrario, el disenso no es omnisciente, pues puede decir “no sé” y así se transforma en un método también del saber popular, que se caracteriza por no negar la existencia de algo que es o existe sino que cuando niega, sólo niega la vigencia de ese algo.
En cuanto a la preferencia de uno mismo siempre se realiza a partir de una situación dada, un locus histórico, político, económico, social y cultural determinado. En nuestro caso el dado por la ecúmene iberoamericana. Esto obliga a pensar el disenso como un pensamiento situado que tiene como petición de principio el hic Rhodus, hic saltus (aquí está Rodas, aquí hay que bailar) de Hegel al comienzo nomás de su Filosofía del Derecho.

Esto nos ha permitido establecer un pensamiento de ruptura con la opinión pública, que hoy no es otra que la opinión publicada.
Este pensamiento de ruptura, o mejor, pensamientos de rupturas, nos ha permitido dar respuestas breves a esa multiplicidad de imágenes truncas que nos brinda la postmodernidad respecto de la vida hoy. A esos analfabetos culturales locuaces (Fayerabend) que son los periodistas y locutores que hablan de todo sin decir que nada es verdadero o falso o, peor aun, cuando lo hacen siempre se encuentran del lado de la falsedad. Ello es así, porque son simples voceros del pensamiento único y políticamente correcto. De esta forma de ver y pensar las cosas y los problemas que nace desde los grandes gestores culturales (los famosos en cada disciplina) que no buscan otra cosa que la consolidación del estado de cosas tal como está. Es que la realidad tal como se da en todos los órdenes es la que les permitió ser lo que son, y la metafísica enseña que todo ente busca perseverar en su ser.
La ruptura por parte del disidente, en general rebelde y marginado, de este círculo hermenéutico (de interpretación de lo que es) se ha transformado así en una masa compacta e impenetrable pues si se atacan las teorías de los famosos (en filosofía el humanismo, en ciencia el objetivismo, en arte el subjetivismo caprichoso y arbitrario, en religión el ecumenismo de todos por igual, en política el progresismo democrático) sale uno del mundo, queda marginado, alienado, cuando no demonizado.

Sin embargo, la única posibilidad que se vislumbra es la creación de teoría crítica a partir del disenso como método que es quien rompe el consenso de los satisfechos del sistema tanto en las sociedades opulentas como en las otras.
(*) alberto.buela@gmail.com

23/01/10

Laudatio di Raimon Panikkar

Qui di seguito riporto verbatim dal sito
http://www.raimon-panikkar.org/italiano/biografia.html

la: Laudatio di Raimon Panikkar Alemany durante la solenne sessione accademica della sua investitura a Doctor Honoris Causa dell’Università di Girona presentata dal Prof. Josep-Maria Terricabras, padrino del nuovo dottore.

È per me un onore poter esporre, oggi, in questa solenne sessione accademica, i meriti di Raimon Panikkar Alemany in occasione della sua nomina a doctor honoris causa della nostra Università. Raimon Panikkar è, senza dubbio, il pensatore catalano vivo più noto a livello internazionale. La sua vita e la sua opera provano, infatti, l’enorme portata tematica, geografica e linguistica del suo pensiero che presenterò ora in sintesi.

Raimon Panikkar è nato il 3 novembre 1918 a Barcellona da padre indiano e hindù e da madre catalana e cattolica. Fin da bambino, dunque, poté adottare, coltivare e parlare di tradizioni diverse nelle quali non si è mai sentito estraneo e forestiero. Fu ordinato sacerdote nel 1946 anno in cui conseguì il dottorato in filosofia; nel 1958 ottenne la laurea in scienze, sempre all’Università di Madrid, e nel 1961 la laurea in teologia all’Università Laterana di Roma. È vissuto in India, a Roma (dove è stato libero docente dell’Università), e negli Stati Uniti. Nel 1966 fu chiamato ad Harvard in qualità di Visiting Professor e per tutto il periodo dal 1966 al 1987 alternò la sua docenza negli USA per un semestre con la sua ricerca in India. Dal 1971 al 1987 ha coperto la cattedra di Filosofia comparata delle Religioni all’Università di California, a Santa Barbara, di cui è ancora professore emerito. Nel 1987 è tornato in Catalogna e ha stabilito la sua residenza a Tavertet (Osona) dove ha continuato a tenere corsi, seminari e incontri su temi filosofici, religiosi, culturali e di approfondimento delle diverse tradizioni dell’umanità. Ha pubblicato una cinquantina di libri, per la maggior parte in catalano, castigliano italiano e inglese, tradotti in francese, tedesco, cinese, portoghese, cecoslovacco, olandese e tamil. A sua volta, nel corso di circa dieci anni, ha tradotto una antologia di mille pagine dei testi dei Veda.

Panikkar ha seguito una ventina di tesi di laurea di studenti di tutto il mondo, specialmente nel corso del suo soggiorno negli Stati Uniti. Sono state scritte sul suo pensiero una trentina di tesi di laurea alcune delle quali sono state pubblicate. Panikkar ha tenuto corsi nelle università di tutto il mondo e conferenze prestigiose come quelle della “Warner Lectures Series” e le “Gifford Lectures”. Ha collaborato al progetto dell’opera Classics of Western Spirituality (New York) che ha pubblicato sino ad oggi 76 volumi e all’opera Western Spirituality, che consta di 25 volumi, i cui tre ultimi sono sotto la sua direzione. Proprio in questi giorni è comparso il primo volume, in italiano, della sua Opera Omnia che si comporrà di venti volumi. É previsto che queste opere complete vengano pubblicate anche in altre lingue e, in primis, in catalano.

Oltre a questa vasta attività accademica, Panikkar è stato presidente del “Pipal Tree” (Bangalore). E’ fondatore e direttore del “Center for Cross-Cultural Religious Studies” (Santa Barbara, California) e di “Vivarium, Centre d’Estudis Intercultural” (Tavertet, Catalogna). Dal 1993 è anche presidente della Sociedad Española de Ciencias de las Religiones (Madrid). Nel 1960 è stato uno dei fondatori dell’ONG Pax Romana – con statuto consultivo alle Nazioni Unite- che difende i diritti e la dignità dell’uomo in tutto il mondo. Ha preso parte a numerosi colloqui internazionali dell’UNESCO e di molte altre società accademiche. In due occasioni è stato inviato speciale del governo indiano in missione culturale nell’America latina.

Nel corso della sua vita Panikkar ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti tra cui vanno citati sia i riconoscimenti internazionali (“Premio spagnolo di letteratura”, 1961), Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya (1999), nomina a “Chevalier des Art set des Lettres” del governo francese (2000), Medaglia della Presidenza della Repubblica Italiana ( 2001) e Premio Nonino 2001 ‘A un maestro del nostro tempo’, oltre a quelli strettamente accademici (Dottore honoris causa dell’Università delle Isole Baleari (1997), della Facoltà di Teologia dell’Università di Tübingen e della Facoltà di sociologia dell’università di Urbino (2005). L’Università di California concede ogni anni un premio –“The Raimundo Panikkar Award in Comparatives Religiones”, allo studente laureatosi in filosofia delle religioni con le migliori valutazioni accademiche. Nella stessa università è attualmente allo studio la creazione di una cattedra a suo nome. Prestigiose riviste gli hanno dedicato numeri monografici e sono stati organizzati simposi e giornate per studiare la sua opera.

L’enorme attività di Raimon Panikkar – qui appena accennata – deriva il suo significato profondo dalle idee e dalle vivenze che la ispirano. Nel corso di 30 anni ha mantenuto un intenso contatto con l’India dove si recò per la prima volta nel 1954. “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza aver smesso di essere cristiano”, ha detto di sé. Raimon Panikkar non è un pensatore convenzionale: egli, al contrario, infrange molti schemi, convenzioni e pregiudizi. La sua formazione intellettuale – fra Occidente e Oriente – gli consente di riflettere nella sua opera un dialogo filosofico costante tra tradizioni, ideologie e credenze diverse. La sua solida conoscenza della tradizione filosofica occidentale e le sue eccezionali conoscenze delle tradizioni filosofiche e spirituali dell’Oriente gli conferiscono le condizioni e una capacità per il dialogo interfilosofico e interreligioso assolutamente inusitate non solo fra di noi ma anche in ambito internazionale. In tempi in cui il pensiero orientale sta guadagnando fra noi terreno e adepti, la figura di Raimon Panikkar si distingue con la grandissima autorità di un referente esperto, rigoroso, profondo. La filosofia, sapere aperto costantemente alla riflessione dell’umano, trova in Panikkar un pensatore originale e senza complessi perché egli conosce ciò di cui parla e perché propone relazioni e accetta differenze che possono essere esposte e dibattute solo da chi le abbia vissute e comprese dall’interno di ogni tradizione. Panikkar, che ha peregrinato tanto, propone il pellegrinaggio come simbolo della vita ma non come la vita stessa, perché il pellegrinaggio deve essere non solo esteriore, ma anche interiore.

Proprio per questo egli accetta la supremazia della prassi, della vita, di una vita che si dispiega al momento, in ogni momento, e che è in grado di trovare l’universale nel concreto, nel particolare. “La mia aspirazione – ha confessato – non consiste tanto nel difendere la mia verità, quanto nel viverla”. Il suo pensiero, ispirato dal principio advaita (né monista, né panteista, né dualista), propone una visione dell’armonia, della concordia, che vuole scoprire “l’invariante umano” senza distruggere le diversità culturali che mirano tutte alla realizzazione della persona in continuo processo di creazione, di ricreazione. “Quanto più osiamo camminare per nuovi sentieri – ha detto – tanto più dobbiamo restare radicati nella nostra tradizione e aperti agli altri, i quali ci fanno sapere che non siamo soli e ci consentono di acquistare una visione più ampia della realtà.” Per Panikkar il dialogo è importante, ma non il dialogo puramente meccanico o informativo, bensì quello che lui chiama “dialogo dialogico” che porta a riconoscere le differenze ma anche quanto si ha in comune, che spinge alla fine ad una mutua fecondazione. Il dialogo non è per gli uomini un lusso, ma qualcosa di strettamente necessario. E il dialogo interreligioso ha un suo ruolo importante. Panikkar non intende questo dialogo come un dialogo astratto, teorico, un dialogo sulle credenze, ma come un dialogo umano in profondità nel quale si cerca la collaborazione dell’altro per la mutua realizzazione, dal momento che la saggezza consiste nel sapere ascoltare. La religione non è, per Panikkar, un esperimento ma un’esperienza, non una teoria ma un’esperienza di vita per mezzo della quale l’uomo – senza preoccupazione né ansia – partecipa all’avventura cosmica. Questo lo porta, per esempio, ad avanzare, la nozione di “identità”. In un’intervista gli fu chiesto: “Dove trova lei la sua identità?” La sua risposta è stata: “Perdendola, non cercandola: non volendo tenermi stretto ad una identità che non è stata ancora realizzata e che non è possibile trovare quindi nel passato perché sarebbe solo copia di qualcosa di vecchio. La vita è rischio; l’avventura è novità radicale; la creazione si produce ogni giorno, è qualcosa di assolutamente nuovo e imprevedibile.”

Con una visione concreta e anche globale dell’esistenza, Panikkar difende l’armonia tra gli uni e gli altri, la nostra con la natura, e, chiaramente, con noi stessi. Difende la sacralità della vita come secolarità sacra. Perché tutto è sacro, tutto è inviolabile, e denuncia come si sia perduta la sensibilità per la sacralità della materia. L’ecosofia è la nuova saggezza della terra. Ciò che è umano, ciò che è infinito o divino e ciò che è materiale, non sono tre realtà separate ma i tre aspetti di un’unica e stessa realtà. E’ questa la sua intuizione cosmoteandrica o teandropocosmica che rivela l’ambiguità e i limiti di ogni discorso strettamente scientifico o culturale.

Infine, ciò che ci ha portato alla patologia della sicurezza, che è l’ossessione odierna, è l’ossessione per la certezza. Ecco quindi che Panikkar raccomanda che la filosofia sia viva, vale a dire che ponga attenzione alla polisemia, all’ambiguità, all’apertura: perché potrà favorire la coscienza di libertà, solo se essa stessa si pone al di sopra di qualunque servitù, sia pure servitù razionale, razionalizzatrice. Panikkar non è certo un pensatore comodo perché non è sempre prevedibile, non è mai convenzionale, apre sempre nuove prospettive, nuovi dubbi, speranze e attese nuove. Questo ne fa un pensatore di verità, un maestro di pensiero e una persona saggia. E, come dice Cicerone, “sapiens beatus est”.

Non posso concludere questa presentazione senza rendere pubblico un gesto privato di grande generosità di Raimon Panikkar che ha voluto lasciare all’Università di Girona la sua impressionante biblioteca privata. In cambio della sua amicizia e generosità, posso fin d’ora garantire, solennemente, l’impegno di questa Università, che da oggi è la sua, di dare continuità a questo lascito per potenziarne e diffonderne il contenuto.

Per molti motivi e per tutto questo propongo che si conceda e conferisca il titolo di doctor honoris causa a Raimon Panikkar.


20/01/10

Riabilitare Daniélou


Cardinal Jean Daniélou
(1905-1974)

Fu veramente scandalosa la morte del cardinale Jean Daniélou (1905-1974) o vi fu, in quel drammatico e apparentemente «scabroso» decesso, una traccia evangelica, capace di scalfire un certo conformismo borghese e benpensante? È l’interrogativo portante su cui si snoda la riflessione del giornalista e scrittore Paolo Giuntella, scomparso più di un anno fa a causa di una lunga malattia, nel libro uscito postumo La fedeltà, trasgressione e follia per il mondo (Il Margine, pp. 126, euro 9,50).

Giuntella torna in queste dense pagine alla morte improvvisa del teologo gesuita francese, e scrive: «Daniélou cardinale e accademico di Francia, in visita alla Maddalena, è stato stroncato dallo Spirito Santo in condizioni esteriori di apparente ambiguità (e invece interiori di santità e carità) perché perdesse la sua vita, al prezzo della sua onorabilità, e acquistasse uno spicchio di cielo per tutti noi, costringendoci a gettare nel mondezzaio il nostro stupido moralismo».

In effetti Jean Daniélou, insigne studioso delle origini del cristianesimo e perito al Concilio Vaticano II, morì il 20 maggio 1974, a 69 anni, sulla soglia dell’appartamento parigino di una donna di dubbia reputazione. Quella morte apparentemente obbrobriosa per un principe della Chiesa e membro dell’Académie française avvenuta a causa di un collasso sull’uscio dell’appartamento dell’avvenente Madame Santoni, detta Mimi, per anni soubrette di un cabaret, fornì soprattutto alla stampa scandalistica d’Oltralpe – capitanata dal settimanale d’assalto Le Canard enchainé – abbondanti motivi per creare una fitta e ambigua rete di insinuazioni e di ombre, mai realmente provate, su uno dei teologi più grandi del Novecento e uno dei più stimati da Paolo VI, che lo creò non a caso cardinale nel 1969.

Una rete di insinuazioni che trovò qualche sponda persino nella Compagnia di Gesù, mentre la difesa della Conferenza episcopale francese (ma anche di autorevoli quotidiani come La Croix e Le Figaro) fu compatta. Dopo la lunga ondata di dicerie sulla «morte umiliata» del cardinale francese si riuscì ad appurare, a mente fredda, una verità molto più semplice, ma proprio per questo difficile e scomoda da accettare da parte di una certa cultura benpensante: molto tempo dell’apostolato del padre Daniélou era speso per aiutare (anche economicamente) e redimere le persone più lontane dalla Chiesa, soprattutto nella pratica dei sacramenti: dalle prostitute agli artisti, dai malati psichici agli omosessuali, in ultimo coloro che vengono bollati come i reietti della società. Fu la stessa signora Santoni a confermare ai media francesi la completa innocenza di quel rapporto con il grande intellettuale francese.

A suffragio di questo stile, da cattolico «irregolare», per molti versi simile al suo confratello Michel de Certeau, fanno ancora oggi vivida testimonianza le riflessioni dello stesso Daniélou racchiuse nel bellissimo saggio, una sorta di testamento, Le memorie, uscito postumo (in Italia nel 1975 per la Sei), in cui egli spiega il senso di un apostolato «anticonformista» e «non clericale» destinato ai lontani. Di grande interesse sono anche le confidenze consegnate al grande amico, l’orientalista e teologo Louis Massignon, sul suo costante servizio nei quartieri dimenticati di Parigi per i «fratelli perduti». Ma a spiegare lo stile di vita evangelico fuori dal comune del gesuita Daniélou parlano ancora oggi le sue note del 1938, racchiuse nei Diari spirituali (editi da Piemme nel 1998), in cui egli a causa di Cristo si sente pronto ad «accettare di essere disonorato, anche agli occhi di coloro che amo, se Egli lo permette».

Il 20 maggio di 36 anni dopo il suo amico e successore all’Académie française, il domenicano Ambroise-Marie Robert Carré, facendo riferimento a quella nota dei suoi Diari, affermò non a caso: «Moriva in condizioni che odiose calunnie sfruttarono. Il suo voto eroico era esaudito». Una ricostruzione sullo stile di redenzione dell’apostolato di questo gesuita sui generis lo si trova, in una chiave ovviamente letteraria, nel bel romanzo scritto nel 1998 da Angelo Lodi La Ragazza e il cardinale (Edizioni Leoni, pp. 108).

Il libro di Lodi, per molti versi simile alle conclusioni a cui arriva Giuntella, intravede nell’incontro tra il porporato e la ragazza la rivelazione di qualcosa di nuovo: misericordia per lui e redenzione per lei. Ma in quel lontano lunedì del 1974 fu soprattutto numerosa la schiera di persone che difese l’onorabilità di Daniélou, tra queste, il giovane frate domenicano e poi divenuto maestro generale del suo Ordine, Timothy Radcliffe, i cardinali Gabriel-Marie Garrone e Charles Journet, e soprattutto il compagno di studi di una vita, il gesuita e poi cardinale Henri de Lubac.

La testimonianza di quest’ultimo si evince da un libro, Memoria intorno alle mie opere (Jaca Book, 1992), in cui egli dedica un passaggio all’amato confratello. L’anziano gesuita racconta la grande austerità e morigeratezza «priva di qualsiasi fariseismo» in cui il cardinale Daniélou viveva a Parigi, «senza un’automobile né una segretaria». Ma nella sua requisitoria il padre De Lubac si sofferma soprattutto sulla solitudine di Daniélou e sulla «campagna diffamatrice da parte dei confratelli» simili a «una muta feroce»: «Egli rimase sorridente, servizievole fraterno. In lui non ci fu amarezza e rancore. In questo fu soprattutto evangelico. Proprio per questo l’ho amato di più». A riconoscere la grande autorevolezza di studioso e di teologo è stato recentemente Benedetto XVI, che conobbe da vicino il teologo francese durante le sessioni del concilio Vaticano II.

Papa Ratzinger lo ha citato per ben due volte nel suo libro Gesù di Nazaret e ne ha ricordato la grandezza di «eminente studioso dei Padri» durante la catechesi dedicata ad Eusebio di Cesarea il 13 giugno 2007. Un riconoscimento che trova conferma nell’attualità del suo pensiero. Infatti, pur a molti anni dalla loro prima apparizione in francese, vengono ora ripubblicati due saggi che fecero epoca come Dio e noi (Rizzoli, pp. 224, euro 9,20, ) e La Risurrezione (Cantagalli, pp.134, euro 10,90) e presto sarà in libreria per le Dehoniane di Bologna anche un altro testo molto in voga negli anni Settanta, Messaggio evangelico e cultura ellenistica.

Tra coloro che non si sono mai arresi nella difesa della memoria del cardinale francese, grazie anche ai loro ricordi, ci sono tuttora allievi di Daniélou come i teologi gesuiti Joseph Paramelle, Michel Sales e in particolare il grande filosofo quasi novantenne, studioso di Maurice Blondel, Xavier Tilliette: «Qualcosa si è spezzato in me all’epoca della morte umiliata del cardinale Daniélou. Fu un episodio penoso – ha dichiarato recentemente Tilliette –. Ero corso al soccorso dell’amico e mi si intimò di tacere. Presunto colpevole, il grande apostolo e scienziato ebbe la reputazione macchiata per molto tempo. Ormai le calunnie sono cessate, ma mi hanno fatto dubitare della Compagnia e del suo spirito fraterno».

Nel ventennale della scomparsa sulla rivista France CatholiqueLouis Henri Parias lo definì amabilmente «divino impaziente», pensando certo anche al triste epilogo da cronaca nera di cui fu vittima inconsapevole. Un destino forse annunciato nell’ultimo articolo di Daniélou sull’Osservatore Romano, apparso poco tempo prima della sua morte: «Quel che chiediamo ai teologi non è di annunciare le loro idee, ma Gesù Cristo».

(Autore: Filippo Rizzi; fonte: Avvenire del 20/01/2010)


17/01/10

Due illustri amici di "Metapolitica" sul Web: Franca Alaimo e Luca Tumminello


Il blog che ospita alcune pagine poetiche dei nostri amici siciliani si chiama “Bollettario” (quadrimestrale di scrittura e critica diretto da Edoardo Sanguineti e Nadia Cavalera). Ne consigliamo vivamente la visione e la lettura. Qui:

http://bollettario.blogspot.com/


Franca Alaimo esordisce come poeta nel 1989 con IMPOSSIBILE LUNA (Antigruppo siciliano). Collabora per anni con Pietro Terminelli nella redazione della rivista L'Involucro. Seguono le sillogi: LO SPECCHIO DI KORE (ed. Tracce), IL GIGLIO VERTICALE, prefato da M. G. Lenisa; IL LUOGO EQUIDISTANTE con l'editore D. Cara; e nel 1999 IL MESSAGGERO DEL FUOCO (con la rivista palermitana Spiritualità & Letteratura) che le vale la quarta segnalazione dalla giuria del Premio Montale. Alcuni suoi testi poetici sono pubblicati sul numero di Maggio 2000 della rivista Poesia (ed. Crocetti) per la rubrica Donne e poesia curata da M. Bettarini. Nell'anno 2000 pubblica SAMADHI (ed. Bastogi), finalista al premio “Anna Borra” e vincitrice nel Giugno 2001 del premio E.Dickinson.
È inserita in numerose antologie, tra le quali A MIO PADRE, curata da L. Luisi per la Newton Compton (2007) E' autrice del romanzo breve L'UOVO DELL'INCORONAZIONE, vincitore del premio bandito nel 2000 dalla casa editrice Serarcangeli. Nel 2002 esce MAGNIFICI DISPETTI, (ed. E.Miano), con un saggio di N. Bonifazi e nello stesso anno il poemetto GIORNI D’APRILE introdotto da R. Perrotta. Nel 2003 pubblica un saggio sulla scrittura di Domenico Cara: LA FIRMA DELL’ESSERE. Ha tradotto due raccolte poetiche del poeta Peter Russell: LE LUNGHE OMBRE DELLA SERA (ed. Il foglio Letterario) e VIVERE LA MORTE (ed. Paideia).Nel 2005 esce un saggio critico sulla poesia di Tommaso Romano: LE EUTOPIE DEL VIAGGIO (prefazione di D. Rondoni) con l’editrice Vallecchi, e un libro di poesie: LO SPLENDORE IMPERFETTO (ed. Thule, con prefazione di F. Loi ). Nel 2007 esce un altro saggio: LA POLPA AMOROSA DELLA POESIA, con introduzione di D. Maffia, sulla scrittura di Gianni Rescigno (ed. Lepisma). Collabora con la rivista Spiritualità & Letteratura (ed. Thule di Palermo, diretta da T. Romano) e con altre. Del 2007 un’antologia di testi poetici (e altro) dedicati all’autrice da 36 tra poeti ed artisti italiani, intitolata DEDICHE A FRANCA; ed un nuovo libro di poesie CORPO MUSICO (ed. Il Bisonte). Recentemente ha pubblicato la silloge AMORI, AMORE (ed. La lampada di Aladino) e un saggio critico UNA VITA COME POEMA (ed. Lepisma) sulla poesia di Luciano Luisi.

http://bollettario.blogspot.com/2010/01/franca-alaimo.html

Luca Tumminello (Palermo, 6 maggio 1979), poeta, vive a Palermo. Laureato in Giurisprudenza, Dottore di Ricerca in diritto penale, svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Penalistiche, Processualpenalistiche e Criminologiche dell’Università di Palermo. Ha pubblicato nel 2005 la raccolta di poesie “Terre di Telesma” (Thule, Palermo, con prefazione di Franca Alaimo). Ha partecipato nel 2009, insieme a Maria Patrizia Allotta, ai “Dialoghi ” con il poeta e saggista Tommaso Romano (T. Romano, “Essere nel Mosaicosmo”. Dialoghi con Maria Patrizia Allotta e Luca Tumminello, Thule, Palermo, 2009). Sue poesie sono apparse nelle riviste “Letteratura-Tradizione e Spiritualità & Letteratura ”. È presente nell’“Atlante Letterario Italiano 2007-08 ” (Libraria Padovana Editrice, Padova) e nel sito www.literary.it. Collabora con le riviste “Metapolitica ”, “Letteratura-Tradizione ” e “Spiritualità & Letteratura ”.

http://bollettario.blogspot.com/2010/01/luca-tumminello.html

14/01/10

"Spiritualità e Letteratura" dedicata a Piero Scanziani

E' disponibile il numero speciale della rivista SPIRITUALITA' E LETTERATURA, rivista quadrimestrale diretta da Tommaso Romano, dedicato all’opera dello scrittore Piero Scanziani, edizioni Thule, Palermo dicembre 2009. Interventi di Tommaso Romano, Lucio Zinna, Franca Alaimo, Arturo Donati, Gaia Grimiani, Maria Patrizia Allotta, Primo Siena, Marcello Scurria, Luca Tumminello. Per informazioni ed abbonamenti consultare il sito della Fondazione Thule:

http://www.tommasoromano.it/

di Piero Vassallo

E’ stolta finzione e feroce inganno architettato da illuministi al lumicino far credere che la postuma memoria di sé consoli coloro ai quali la miscredenza e la disperazione promettono la finale discesa nel nulla spaventoso.

Nell’orizzonte del nichilismo non c’è aria per il respiro della consolazione. La memoria di sé oltre la morte è un bene che soltanto la coscienza dell’immortalità può apprezzare e desiderare.

L’incubo del nulla non può trovare sollievo e conforto nelle flebili parodie che promettono l’elargizione di un premio dopo l’annientamento. Una statua equestre, ad esempio, o una magniloquente targa accanto al portone di casa. Parafrasando un testo sacro si può dire che il nichilista, nel premio di consolazione, vede la beffa e si adira: digrigna i denti e si consuma.

Non per caso, colui che ha magnificamente interpretato la teologia cristiana, il sommo Dante, attribuì all’anima immortale e salvata di Pia de’ Tolomei il desiderio di essere rammentata ai viventi nel mondo.

Conservare la memoria dei defunti è un atto della pietà cristiana. Un atto che presuppone la possibilità di aggiungere un bene finito alla beatitudine senza fine, una piccola felicità alla già perfetta beatitudine.

Del paradosso rappresentato dall’anima che alla vigilia dell’infinita felicità desidera il bene finito, è consapevole Tommaso Romano, religioso cultore della memoria, consapevole di arrecar conforto ai buoni amici, che hanno abbandonato la scena del mondo per salire alla contemplazione delle innumerabili perfezioni di Dio.

Per scelta illuminata di Tommaso Romano, il più recente quaderno di “Spiritualità e letteratura” raccoglie gli atti del convegno (Palermo 2008) dedicato alla fertile intelligenza di Piero Scanziani (Chiasso 1908 – Mendrisio 2003), affascinante narratore e saggista acuto, instancabile nella ricerca d’una via d’uscita dai labirinti del pensiero debole, che ha estenuato e devastato le illusioni ideologiche della modernità.

Di Scanziani, Vittorio Vettori, collezionista dall’infallibile fiuto e promotore generoso dei veri talenti letterari, diceva che si parlerà sempre con crescente e rinnovato interesse.

Indubbiamente lo sguardo di Scanziani si è spinto oltre i labirinti neognostici, nei quali l’illusione moderna ha deposto i suoi sogni e i suoi artificiali entusiasmi.

Tommaso Romano al proposito scrive: “Ritengo essenziale ricordare nel contesto dell’opera di Scanziani, un Autore che egli ebbe presente: Agostino d’Ippona. Al santo di Agaste si deve la novità dell’indagine profonda sull’uomo inteso come vero mistero, singolarmente irrepetibile, insieme anima e corpo, (e al corpo dopo l’Incarnazione del Verbo, Agostino porrà ben altra attenzione del vano simulacro che certa cultura pagana e certa eterodossia cristiana disprezzavano)in cui l’interiorità oggettiva è immagine di Dio nell’anima: vi rispecchia Dio Onnipotente”.

Quasi facendo eco a Romano, Franca Alaimo definisce la scrittura di Scanziani “luminosa e sonore” e aggiunge “che scorre sulle pagine senza fratture logiche, facendosi veicolo perfetto di profonde risonanze interiori, che mi fanno venire in mente innanzitutto le Scritture sacre e poi le opere mistiche di Francesco d’Assisi, Teresina di Lisieux, Teresa d’Avila”.

Genio sorridente, Scanziani era capace di coniare battute folgoranti. Gaia Grimiani, cita la devastante definizione del materialista: “I materialisti vorrebbero impedire la ricerca dello spirito pretendendo che tutto è meccanismo senza scopo e retto soltanto dal caso. Il materialista è come ci, vedendo per la prima volta l’orologio ed esaminandone gli straordinari congegni dichiari: «E’ tanto perfetto che non deve servire a niente». E se gli fai osservare che l’orologio serve a misurare il tempo, egli lo nega, dicendo che il tempo non si trova nella casa e quindi non c’è”.

Primo Siena, infine, rammenta che “attraverso i suoi scritti, Piero Scanziani, manifesta il costante desiderio di Dio, che corre per il mondo”.

C’è d’augurarsi che i libri di Scanziani, sottovalutati dalla critica intitolata all’ateismo, entrino finalmente nella ideale biblioteca di quanti conservano, come un prezioso bene, la fedeltà alla sapienza cattolica.

(http://riscossariviste.blogspot.com/)

12/01/10

In uscita il nuovo numero di Metapolitica



S O M M A R I O

METAPOLITICA: Verso il “Grande Ritorno” (Con riflessioni sul mistero di Pietro Romano)

STUDI:

PLATONE ATENIESE, La periodica alterna vicenda della sommersione delle Civiltà
(Con nota direttoriale sull'Atlantide e sui Cicli Cosmici)
PIETRO CHESSA, De Quantitate Animae. Spunti escatologici

ECHI E COMMENTI:

S. Malachia e i misteri romani (Fine della “Profezia dei Papi”)
SILVANO PANUNZIO, Una Lettera autentica dell'acceso Eségeta Giuseppe Petrelli. Il vero
Getsémani
SERGIO FRITZ ROA, Un riconoscimento oceanico dai confini della Terra
S.P., Pio XII. Una testimonianza inoppugnabile
S. P., Piccolo canzoniere: Un dono celeste (carme gioioso); Assillo (carme patetico); Aspirazioni
(carme sperante)

P. DANILO SCOMPARIN, L'Anticristo secondo Silvano Panunzio

LETTURE:

ALDO LA FATA, Metapolitica. L'altro sguardo sul potere

LETTERE INTERNE:

Jiulika Liverotti, Roberto Bradaschia, Jiulika Liverotti: Pellegrinaggio a Monte S. Angelo

CHI VOLESSE RICEVERNE UNA COPIA PUO' SCRIVERE A:

alafata@yahoo.com



11/01/10

La Regola primitiva dell'Ordine del Tempio

La Regola primitiva dell'Ordine del Tempio
(2° edizione)di Paolo Galiano
(NUOVA EDIZIONE RIVEDUTA E AMPLIATA)
pp. 90 - € 18,00

La Regola dei Cavalieri dell’Ordine del Tempio ci è pervenuta in due redazioni: l’una in latino, la Regola primitiva stabilita negli atti del Concilio di Troyes del 1129, nel quale si ratificò l’esistenza del nuovo Ordine sorto pochi anni prima in Terra Santa, e l’altra in francese, traduzione eseguita sotto il secondo Gran Maestro del Tempio a dieci anni di distanza dal Concilio.
Tra le due redazioni esistono però alcune differenze anche rilevanti, come la soppressione del “non” dell’articolo 63 della Regola latina, soppressione che altera radicalmente il senso dei rapporti dei Templari con i “cavalieri scomunicati”, aprendo la strada ad ipotesi circa possibili relazioni tra questi ed i cavalieri catari.
Per questo e per altri motivi, essendo molto diffusa la traduzione in italiano della Regola francese, ma non la sua redazione originale in latino, si è ritenuto di fare cosa utile agli appassionati della storia dell’Ordine del Tempio col mettere a loro disposizione un materiale poco conosciuto quale la Regola primitiva.
In appendice alla Regola viene pubblicato un breve saggio su di un personaggio poco noto, Goffredo di San Vittore, teologo e musico del XII sec., il quale fu probabilmente una delle figure chiave nello sviluppo del “pensiero templare” con il suo trattato “Microcosmus”, vera anticipazione dell’Umanesimo quattrocentesco.

Paolo Galiano
Medico ed umanista, per le edizioni Simmetriaha pubblicato libri e saggi sulla Tradizione, con particolare riguardo al Cristianesimo delle origini e alla Gnosi cristiana (Le vie della Gnosi); ad alcuni aspetti della Cavalleria medievale, (Galgano e la Spada nella roccia) e all’esoterismo egiziano (La via iniziatica dei Faraoni).

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09/01/10

Un nuovo importante libro di François Chenique

Souvenirs métaphysiques d'Orient et d'Occident
Entretiens avec Christian Rangdreul,
L'Harmattan,
2009, 236 pagg.

Questi Ricordi metafisici d'Oriente e d'occidente, scritti da Christian Rangdreul (l'intervistatore) e François Chenique (l'intervistato) in un linguaggio semplice e alla portata di tutti sono una vera sorpresa. Il libro, suddiviso in quattro capitoli, ci introduce, nella forma viva di un dialogo, a una metafisica alta, non sincretista, approfondita durante tutta una vita e acquisita dalle migliori sorgenti tradizionali: cristianesimo, induismo e buddismo. Chenique, nato nel 1927, ci racconta di questo suo incontro con le dottrine metafisiche a partire dagli “anni giovanili”, da quando a soli 15 anni, l'8 dicembre 1942, festa dell'immacolata Concezione, scopre una metafisica declinata al femminile che, dopo 30 anni di approfondimenti e ricerche, racconterà nel suo libro Le culte de la Vierge ou la Métaphysique au féminin (Devy, 2000 (inizialmente: Le Buisson ardent, 1972).

Così, nel primo capitolo dedicato a questi "anni giovanili", egli si dilunga sugli aspetti controversi e problematici della dottrina cristiana così come era divulgata e insegnata prima e durante la guerra, e soprattutto rivela i dettagli di un incontro per lui determinante e dal carattere “iniziatico”, con l'abate Henri Stéphane, teologo ma anche fine conoscitore della metafisica orientale. Dell'abbé Stéphane, Chenique pubblicherà, quarant'anni più tardi, gli scritti maggiori in un'opera in due volumi da lui annotata, con il titolo Introduction à l’ésotérisme chrétien, con la prefazione dell'amico Jean Borella (Dervy, volume I: 1979, volume II: 1983).

Nel secondo capitolo, l'Autore racconta del suo secondo incontro decisivo con l'opera di René Guénon e del quale affronta dominandole le dottrine più importanti.

Nel terzo capitolo, Chenique spazia dai Padri della chiesa al Concilio Vaticano II, soffermandosi sugli insegnamenti del “Dottore angelico” e su quelli complementari del “Dottore serafico”, sulle teologie d'Oriente e su quelle d'occidente, sulla mistica e sull'esoterismo, e infine dilungandosi ora su quello che lui definisce “lo yoga di san Francesco” (1), ora sul carattere di Bodhisattvâ di Santa Thérèse di Lisieux (2).

Nel quarto capitolo infine, l'Autore ci parla dei sui rapporti con il buddismo e in particolare con il buddismo tibetano più autentico. Una dei testi fondamentali di questa antica e sublime tradizione sul quale Chenique si sofferma è il “Ratnagotravibhâga”, che il Nostro ha impiegato più di vent'anni a tradurre direttamente dal sanscrito e dal tibetano (3).

Insomma, un libro di grande spessore teoretico e di respiro universale che è necessario leggere e di cui dobbiamo essere grati a François Chenique.

(1) Le Cantique des créatures de Saint François d’Assise. Commentaire symbolique, Dervy, 1993 (inizialmente: Le yoga spirituel de S. François d’Assise. Symbolisme du Cantique des créatures, Dervy-Livres, 1978).
(2) Cfr. Sagesse chrétienne et mystique orientale, Prefazione di Jean Borella, Postfazione di Jean-Pierre Schnetzler, Dervy, 1996.
(3) François Chenique, Le message du futur Bouddha ou la lignée spirituelle des Trois Joyaux, traduzione e commenti, Dervy, 2001.

(Fonte: http://talvera.hautetfort.com/)