di Alessandro Scali
ULTIMA ONDATA
(non gioco più)
Come nulla in natura è democratico, così nemmeno l’acquisizione del sapere,
che è frutto esclusivo di conquista, il cui limite non si calibra sulla
quantità di letture o nozioni, sì invece sulle dinamiche esperienziali passate
attraverso il frantoio della vita e sull’apertura di coscienza che le abbia
assunte e metabolizzate:
di qui il “verum est factum” di
Aristotele e Vico. Il sapere peraltro, qualunque sapere, è una responsabilità
che va amministrata con adeguate guarentige.
Disattese le
quali e trascurato il precedente principio, rimane il rammarico di aver
corrisposto con interlocutori con i
quali non ti sei guardato negli occhi, non hai parlato del tempo e dei tempi,
così da assicurarti almeno un ‘carotaggio’. Per di più, me ne sono andato a
zonzo in modalità ‘reti a strascico’ (vietatissime) in luoghi dove l’incontro
con chi può con--sentire –per affinità, sensibilità, esperienzialità- i
problemi cui attendi (i problemi, non le soluzioni o i punti di vista)
condivide le probabilità di riuscita col ‘superenalotto’, per cui ottengo quel
che mi sono procacciato.
Il tema è (anzi,
era; anzi, sarebbe): come evitare che un cattolico rimanga confuso tra i doveri di ordine
religioso-spirituali e quelli legati alla sua vita civile. In soldoni: è giusto
accogliere la marea emigrante, secondo l’invito della Chiesa, o lo Stato ha un diritto-dovere oggettivo (ed
io con lui) di tutela dell’ordine sociale, anche disattendendo il suddetto
invito? E la risposta non scende sul filo della speculazione sull’ “Uno e i molti”, che butta in rissa un
concetto chiarissimo come quello che in qualunque ambito il subordinato
partecipa al bene comune quanto ai fini ma non coi medesimi modi e mezzi, per
cui non è autonomo, come si tenta di far passare; e così è tra i rappresentanti
dei due poteri; nel mentre il cattolico di cui sopra rimane solo un po’ più solo e confuso. E allora, cui prodest il nostro pasteggiare?
Questo essendo
il vero argomento, e nulla di questo incontrando nelle contestazioni, non mi
sfiora la mente di confutare le osservazioni consumate, né per superbia né per
viltà (spero non si inclini per il difetto di argomenti), ma semplicemente
perché il dibattito dovrebbe prendere la via “alta” di una trattastica (qui)
fuorviante e per pochi intimi, mentre la tesi volge alla via ‘terragna’
destinata ai molti; e perché, comunque, sarebbe troppo lungo e altrettanto
tedioso confutare tutto, visto che non trovo un sol punto condivisibile, per
poi continuare così....
Ciò cui invece, per dovere di appartenenza,
non posso sottrarmi, riguarda alcuni interventi di restauro dell’ortodossia
cattolica.
Negare il potere vicariale del re (o di chi per lui) significa negare il
suo archetipo, Cristo
Re, la Cui perentoria presenza nell’ordine civile di questo mondo (con
particolare riguardo alla Giustizia, senza la quale la Sua pace è flatus vocis) viene eretta in alcuni
passi evangelici e scandita dall’Apocalisse giovannea (“qui recturus erat omnes gentes”), in una con la sacralità della tradizione romana (ratificata, com’è
noto, da Gesù), tradizione nella quale ...casualmente... si è calata la
redenzione dell’umanità, sotto il governo di Tiberio imperatore, per opera di
Ponzio Pilato che ha rogitato ma non condannato, con il contributo
rilevantissimo di Cassio “Longino” e la paradigmatica presenza del centurione
che, ai piedi della croce, riconosce nel Crocifisso il Figlio di Dio; il tutto
per testimonianza
scritturale, pregna di una simbolica preziosa (su cui Dante, ma anche il
guénoniano ‘Re del Mondo’) che si ha il dovere di conoscere. Ancor meno si potrà negare che sulla metafisica
dell’integrazione romano-cristiana recentemente Panunzio e de Giorgio
-senza voler ricordare TUTTA la tradizione cristiana, da Arnobio e Lattanzio
fino ai suddetti- hanno distillato magistrali speculazioni, riconoscendo la
sacralità e la provvidenziale continuità delle due tradizioni. Dato che ciò rimaneva sotteso nella tesi, le
posizioni antitetiche mandano tranquillamente.... eis kórakas, per dirla con Aristofane, una parte essenziale della
nostra Tradizione. Le conseguenze possono sfuggire a chi si fa latore di certe
tesi, ma disgraziatamente non sono sfuggite a chi ha derubato del latino la
formazione dei giovani.
Strangolata
l’ “Aquila” romana e la sua paolina (e dantesca) funzione di katékon, tra i danni collaterali
lamentiamo anche la devastazione della civiltà medievale, solare
nell’integrazione romano-cristiana: il Sacro Romano Impero, l’unzione di
Carlo Magno, l’unità politico-religiosa europea, l’imperatore corresponsabile
(per diritto di veto) nell’elezione del pontefice.... .
Il secondo e
ultimo punto riguarda l’escursione su Melki-Tsedeq.
Fare ricerca e
studi comparativi tra Melki-tsedeq e gli eventuali omologhi indu (l’ipotesi Mahânga è però irricevibile: è quasi una bestemmia) è certamente
meritorio: ma assodato
che una sbirciata a s. Paolo e una a Guénon su Melki-Tsedeq
sarebbe dirimente,
nel tema a dibattito che ‘ci azzecca’ lo stato principiale ovvero
sottile di Melki-Tsedeq (altra ipotesi urticante) ? Di qui l’
“accademia”, che potrebbe essere solo un garbato eufemismo.
Che se poi si
volessero mettere in discussione certi fondamenti cattolici radicati in Cristo e nella Scrittura, invero custoditi da una speculazione due volte
millenaria, perché in
contraddizione con la Sapienza indu (“più
antica e più completa”), sia chiaro che sarebbe semplicemente errato o
insufficiente il punto di vista.
Tanto dovevo
accennare, per evitare che posizioni siffatte navigassero illese acque
territoriali cattoliche.
P.S. Nella fretta
di chiudere, dimenticavo di salvaguardare i fondamentali di Dante in ordine al
“corpus dottrinario” nel quale
Gorlani crede che sia ancora da inquadrare. Il Maestro, col muto consenso del suo paredro murciano, mi ventila: “...a te fia bello/ averti
fatta parte per te stesso”. Poi, a mio conforto: Non sarà tutto tempo senza reda – sospira
– l’aguglia che lasciò le penne al
carro...
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