Jean Phaure, Mistero e Origine del Male alla luce della Tradizione, A.L.F., Roma 2010
di Giuseppe Gorlani
Affrontare la teodicea, ovvero il problema del Male e delle sue origini, non è impegno da poco. Jean Phaure vi si accosta con grande serietà, coraggio e umiltà nell’intento di proporre alle menti obnubilate dell’uomo “post-moderno” un tema di riflessione che, nella sua drammatica urgenza, potrebbe scuoterlo dal torpore, inducendolo a meditare sul significato essenziale dell’esistenza e sul suo destino ultimo.
L’Autore introduce il proprio lavoro notando innanzitutto come gli uomini contemporanei, compresi i cristiani, «abbiano perso il senso del peccato», impantanandosi nel disorientamento più totale. Egli non ha alcuna pretesa di esaurire l’argomento, liberandolo da ogni dubbio ed oscurità, bensì di rischiararlo alla luce della Tradizione.
Nella Premessa, le prime fondamentali domande che egli pone sono: il Male è connaturato alla Creazione o è soltanto uno sfortunato accidente avvenuto durante il Ciclo adamitico? E ancora: in quale rapporto si trova l’uomo rispetto all’essenza del Male? In seguito passa ad esaminare La caduta degli angeli e La caduta adamitica.
Nel primo capitolo Phaure nota come il germe del Male non riposi nel Terzo Mondo, quello sensibile, ma nel Secondo Mondo in cui sono collocati gli angeli. Lucifero, il migliore tra essi, accecato dall’orgoglio e dalla concupiscenza, scelse, in virtù della libertà di cui queste creature spirituali sono dotate, di cadere dal suo stato di “portatore di luce” a quello di “saccheggiatore di luce”, dividendo la Notte originaria e trasformandone una parte in “tenebre esteriori”. Lucifero è l’Anti-Cristo che regna su quelli che cercano poteri per mezzo di scienza o magia. Risulta dunque evidente come i nostri tempi ultimi siano luciferini.
Nel secondo, egli si sofferma di nuovo sul Mistero della Libertà, senza la quale non vi sarebbe merito. Satana, il tentatore, discendente di Lucifero, introduce una scissione nell’Androgino primordiale e quindi sollecita in lui l’orgoglio, la concupiscenza, il desiderio di farsi uguale a Dio. Come conseguenza l’uomo perde la sua facoltà di regnare sull’animalità e si immerge in un corpo di carne, divenendo, almeno in parte, animale egli stesso.
Nella «dottrina della caduta adamitica» è indicato tuttavia anche il percorso di reintegrazione nella pienezza primordiale. In consonanza con la prospettiva hindu, l’Autore sostiene che soltanto a pochissimi sarebbe dato effettivamente realizzare la Luce mentre sono ancora nel corpo umano (jivanmukti, liberazione in vita), laddove per la stragrande maggioranza degli uomini assetati di Verità soltanto la Morte consegnerebbe le chiavi della Porta d’accesso alla Luce, purché l’abbiano cercata con infaticabile tenacia per tutta la vita (videha-mukti, la liberazione ottenuta al momento della morte).
Questo capitolo si conclude con una significativa citazione di Jacob Boehme, tratta da Mysterium magnum: «Quando svanì l’immagine proveniente dalla qualità celeste, la Bestia, in quanto qualità bestiale, apparve; così la povera anima generata dal principio primo si trovò circondata da ogni parte dalla Bestia (…) Così, il Celeste divenne Mistero per l’uomo che rimase sospeso tra il Tempo e l’Eternità, morto a metà per il Cielo».
Nel capitolo successivo, La tentazione dualista, l’Autore inizia col proporre alcune considerazioni sulle prospettive orientali. Dopo aver scartato sbrigativamente il Vedanta, per il quale il Male sarebbe solo “illusione”, dichiara di trovare più rispettabile la prospettiva buddhista basata sull’estinzione del desiderio. Evidentemente, per gli occidentali è più immediatamente comprensibile il Buddhismo rispetto alla Tradizione tricotomica del Sanatana-dharma. Riguardo al darshana Vedanta – fine, meta o essenza dei Veda –, basti qui una sintetica rettifica: per l’Advaita Vedanta codificato da Shankara, il Male non sarebbe “illusione”, bensì “ignoranza” (avidya), o pure, per effetto del potere di maya, sovrapposizione velante (upadhi) sull’Uno senza secondo; il che fa una certa differenza. Si consideri, incidentalmente, come nell’ambito delle dottrine vedantiche, derivate dalle Upanishad, non si tenti minimamente di spiegare il perché del male-ignoranza, bensì si ponga l’accento sul “come” liberarsene, al fine di reintegrarsi nella pienezza originaria eternamente immanente, intuita come Bene assoluto. Tutt’altro discorso meriterebbe l’hinduismo puranico, nei cui miti i concetti di “male”, di “caduta” e di “peccato” vengono ampiamente contemplati.
Nello stesso capitolo Phaure sostiene che dal procedere dell’involuzione ciclica sono emerse alcune religioni o dottrine dualistiche (zoroastrismo, manicheismo), le quali, nel tentativo di «razionalizzare il mistero», pongono ab origine due principi increati: il Bene e il Male. Per contro, la Tradizione riconosce: «[…] un solo Dio-Principio aldilà del Bene e del Male, che ha creato per Amore un mondo dove la Libertà ha suscitato delle forze d’opposizione che noi chiamiamo il Male». Tuttavia, dato che ogni dualismo è per sua natura instabile, troviamo dietro di esso «le triadi fondamentali».
A questo punto l’Autore introduce alcune interessanti riflessioni personali sul dualismo Bene-Male che, secondo lui, sarebbe «una razionalizzazione aberrante della primordiale bipolarità maschio-femmina […] questa Diade per la quale la Monade divina si fa Triade». Nell’ansia di spiegare la sofferenza alcuni popoli avrebbero assimilato il polo passivo al Male ed in ciò risiederebbe la confusione da cui scaturisce l’eresia dualistica, metafisicamente inaccettabile. In Egitto, invece, troviamo «drammatizzazioni mitiche» che spiegano lo smembramento di Osiride «come un sacrificio cosmico seguito da resurrezione». Anche in Platone il dualismo ha solo un carattere “secondario” o strumentale e non assume mai le connotazioni di una lotta, poiché «l’intelletto rimane preminente» e, in ultima istanza, il mondo fenomenico si reintegra nel Summum Bonum.
Presso il Giudaesimo, abbiamo una sorta di “esitazione” tra un monismo rigoroso che non spiega il Male – ritenuto connaturato alla Creazione – e una concezione dualistica che «lo spiega troppo bene». Qui l’infelicità umana non va imputata alla colpa di un singolo individuo, né del suo ghénos, bensì all’allontanarsi della Creazione, condizionata da mille necessità, dalla perfezione dell’Increato. Presso gli Esseni, malgrado lo sfondo di assoluto monoteismo, l’opposizione Bene-Male viene enfatizzata e drammatizzata, ma emergono alcune contraddizioni scandalose: se Dio ha disposto, prima della venuta dell’uomo, lo “spirito della perversità” accanto allo “spirito della verità”, Egli non solo permette il Male, ma ne è persino l’autore.
Phaure osserva acutamente come tali contraddizioni derivino dai tentativi di conciliare il monismo con l’esistenza del Male e come in esse si dibattano tutte le correnti gnostiche dall’inizio di quest’Era. Egli distingue inoltre tra una «Gnosi non manichea», su cui si fonda l’esoterismo cristiano, e uno «Gnosticismo manicheo e occultista» fomite di aberrazioni, ad esempio quella per la quale il Male e la materia sarebbero omologhi. Secondo la sua opinione, la Chiesa condannerebbe giustamente il secondo, pur misconoscendo la distinzione di cui sopra, e dunque includerebbe nella condanna anche il primo.
Sempre nello stesso capitolo viene toccato il tema spinoso della predestinazione, a cui solo l’obbedienza a Cristo permette di sfuggire, indi si accenna a Manes, precursore delle dottrine manichee, e si esaminano sinteticamente le eresie bogomilla e catara, in cui i dati della Tradizione vengono mescolati «con le invenzioni cerebrali del dualismo». Riguardo alle atrocità – secondo lui bilaterali – inerenti la crociata degli Albigesi, che iniziò nel 1209 e si concluse nel 1228, Phaure, pur non scusando i roghi, si limita a sottolineare come la tollerenza non improntasse la temperie dell’epoca. Personalmente, invece, sono propenso a credere che tale manifestazione di intolleranza nei confronti di eresie che si sarebbero dovute affrontare con la «persuasione, la predicazione, l’esempio e l’Amore» – come del resto scrive lo stesso Autore – abbia segnato l’inizio dell’indebolimento, sul piano visibile, della religio Cattolica. La sapienza taoista insegna, infatti, che il rigido è più vulnerabile del flessibile, poiché prima o poi si logora e si spezza.
Nel capitolo La libertà originale, Phaure si riferisce al Male come ad una «alienazione dal divino» e con parole incisive stigmatizza i patetici tentativi dei filosofi profani di ridurre l’intelligenza umana entro gli angusti limiti della ragione. Sull’argomento egli cita alcune mirabili riflessioni di N. Berdiaeff, tratte da Esprit et réalité: «Ora, il Male originariamente si lega alla libertà, non alla casualità (…) La libertà è irrazionale. Dà nascita tanto al Male quanto al Bene; non sceglie, genera. È impossibile elaborare un concetto razionale della libertà, essa soccombe a ogni definizione razionale (…) Dio è libertà e non causa. (…) Il mistero irrazionale della libertà che non è né creata, né determinata da Dio, non significa assolutamente che esista un altro essere accanto a Dio, non implica in alcun modo un dualismo ontologico». Sembra qui di leggere il grande Abhinavagupta, della Scuola Trika del Kashmir, il quale, superando il punto critico dell’Advaita shankariano, incapace di spiegare l’emergere di avidya, ritiene che dell’Assoluto si possa parlare solo in termini di libertà e di non dualità. A ragione, dunque, Phaure rimanda ad una Philosophia Perennis, ponte tra Oriente e Occidente, la quale «insegna che un approccio al Dio irrivelato non si può fare attraverso le nostre categorie razionali e il nostro principio dialettico di non contraddizione».
Poche pagine più avanti leggiamo ancora: «(…) metafisicamente parlando, il Male procede dalla divisione dell’uno in due (…) ogni creazione deve passare per questa “sofferenza”». Qui invece troviamo una certa concordanza con le dottrine vedantiche, secondo le quali l’avidya, l’ignoranza, è già contenuta nel Brahman saguna, o Ishvara, il primo principio qualificato, in cui la diade Shiva-Shakti e le altre categorie o princìpi (tattva) sono inclusi allo stato virtuale.
Nel capitolo Il libero arbitrio viene affrontato l’argomento cardine del libro; in esso si dà la chiave per comprendere o, meglio, intuire il significato del Male, senza cadere in assurde recriminazioni contro Dio o in una passiva accettazione del determinismo karmico. La libertà dell’uomo si esprime sostanzialmente attraverso la scelta tra il rifiuto della Volontà divina e l’obbedienza ad essa: «(…) in definitiva, tra la Sofferenza e la Gioia». Tuttavia è proprio questa «terribile libertà» che dignifica l’uomo e che gli conferisce un immenso valore, anche se, purtroppo, oggi i più la rifiutano, vivendo in una sorta di semi-sonno da cui viene bandita ogni istanza di natura superiore. Al contrario, l’uomo spirituale: «(…) ha sete di certezze intangibili, di Ordine e di Verità» e comprende che essere libero significa aderire alla legge divina, coincidente con la sua propria legge; gli hindu direbbero che ottempera al proprio dharma sia nel suo aspetto universale che personale (svadharma).
Phaure conclude il capitolo in questione rammentando come nel mondo moderno regni la menzogna dalla cui “illusione demoniaca” si può uscire solo dall’alto, dalla Verità: «(…) è l’immensa menzogna che rappresenta l’influsso del “principe della menzogna” sulla nostra società di menzogna, a portare in sé ontologicamente questa sofferenza che è il mondo moderno, nel quale egli cerca di divertirsi per mezzo di una “fuga in avanti”, vale a dire, di una caduta sempre più accelerata nella stessa menzogna». Che la menzogna domini nel nostro mondo è una realtà evidente per quelli che abbiano occhi sufficientemente aperti e tale realtà è valida sia a livello mondiale che individuale, poiché macro e microcosmo si rispecchiano l’uno nell’altro. Oltretutto, va sottolineato come non vi sia menzogna più palese del progresso fine a se stesso che distoglie l’uomo dal significato essenziale dell’esistenza, promettendogli una felicità basata sul possesso di oggetti esterni a sé e quindi irrealizzabile. Lo stesso concetto viene espresso in termini cristiani da Charles Baudelaire nella seguente riflessione, citata a pagina 76: «Teoria delle vera civilizzazione. Essa non è nel gas, né nel vapore, né nei tavolini che ballano. È nella diminuzione delle tracce del peccato originale».
Il capitolo Il Peccato apre una finestra sulle coesistenti sublimità e miseria della condizione umana: «Ricettacolo inconcepibile di due forze diverse e incompatibili, centauro mostruoso, l’uomo sente di essere il risultato di qualche ignoto misfatto (…) Egli non sa che cosa vuole; egli vuole ciò che non vuole; non vuole ciò che vuole; vorrebbe volere». Essere coscienti di quello che davvero si vuole e farlo è condizione divina; ignorare la nostra vera volontà e fare quello che la miseria in noi vuole condanna alla sofferenza; ma affermare il peccato o l’errore come cosa “buona” ed espressione della nostra unica e reale volontà è condizione demoniaca. Ha perfettamente ragione Phaure nell’affermare, riferendosi alla nostra epoca: «Tutto ciò che profuma di obbedienza spirituale, di accordo con il mondo scaturito dalle mani di Dio è deriso, insultato, respinto, insozzato». In ogni individuo comunque è presente la doppia natura di Caino e di Seth e tutti partecipiamo: «(…) del peccato collettivo dell’umanità adamitica».
Con la Riforma il pessimismo viene spinto alle sue estreme conseguenze: si pretende di non dare più alcun valore al merito, ma solo alla grazia. Ciò svuota l’uomo di ogni iniziativa, imprigionandolo nella predestinazione. Nel mondo contemporaneo convivono la morale più permissiva, uno scientismo improntato ad un fanatico determinismo di tipo biologico e un confuso agnosticismo: «E a questo determinismo soffocante non abbiamo da opporre che una nozione vaga, informe, confusa (e anti scientifica!): il caso. Bel progresso!». Al “Tempo qualificato” e alla libertà della Provvidenza sono state sostituite la Storia, «cronologia delle nostre infamie», e il senso della Storia: «che è un’escatologia inversa (…) la curva finale della nostra Caduta che noi battezziamo “Progresso”».
Il capitolo La Reintegrazione inizia sottolineando come l’involuzione collettiva comprenda, ontologicamente, la possibilità della risalita e della reintegrazione nello Stato Primordiale. Elementi indispensabili a ciò sono: l’aspirazione ad una vita più alta e la discriminazione tra il Reale e l’illusorio, tra il Permanente e l’impermanente. Curiosamente Shankara nel Vivekacudamani include nei quattro mezzi cardinali o qualificazioni indispensabili per la realizzazione del Brahman il discernimento tra reale e irreale (nityanityavastuvivekah) e l’intensa aspirazione ad affrancarsi da tutte le schiavitù (mumukshutva). Epperò l’interpretazione che Phaure dà della reintegrazione presso gli hindu lascia a desiderare. La concentrazione contemplativa consisterebbe, secondo il Nostro, nell’unione tra la Maya e l’Atman e cioè nella fusione del transitorio nel Permanente. Non ne saremmo tanto certi. Presso la Scuola shankariana la Maya, che è il potere velante, va risolta con la Conoscenza affinché emerga il Vero in Sé; nella Scuola di Abhinavagupta, la Maya va contemplata come inseparabile da Paramashiva, essendo essa la forza-potenza (shakti) per mezzo della quale il Senza Superiore esprime la sua assoluta libertà. Nello shivaismo non dualista dell’India del Sud, il Jivatman si reintegra nel Paramatman in virtù della sua indistruttibile identità con esso; identità che solo la Conoscenza (Jnana) e la Devozione (Bhakti) sono in grado di rivelare alla buddhi (l’occhio interiore) dell’uomo smarritosi nei miraggi del dualismo. Le modalità del cammino di Reintegrazione spesso coincidono, ma si parte da prospettive diverse.
Affatto condivisibile invece è la nota immediatamente seguente in cui l’Autore invita a fissarsi nel Centro: «Al di là della traiettoria di tutti i cicli esiste un Punto puro che ne è il Centro». In consonanza con alcune vie mistiche dell’India è pure la concezione della materia e come prigione e come punto di appoggio per balzare verso il Cielo: fonte di sofferenza e strumento di salvezza. «Se sei caduto a terra è con l’aiuto della stessa che ti risollevi», recita un proverbio tantrico. E nello Siva Sutra: «Il corpo (dello yogin) è (tutto quanto il) visibile» (I, 14); oppure: «Il corpo (dev’essere come) un’offerta» (II, 8 – da Testi dello Sivaismo, To 1968).
Senza scendere troppo in dettaglio nella distinzione tra “io” e “Sé”, Phaure accenna altresì alla via apofatica, in cui si tacita tutto ciò che è effimero per aprirsi a Dio: «(…) l’io rinuncia a tutte le forme esteriori, fisiche, psicologiche e intellettuali della sua libertà per aprirsi solo alla forma più alta, e in definitiva più efficace, di essa».
Interessante è quanto egli scrive sugli avatara, gli inviati divini, che hanno tutti il compito di tenere orientato l’uomo verso il Bene ultimo nel precipitare spaventoso dell’involuzione spirituale dell’Umanità. All’entrata dell’ultima era, però, Dio manda sulla Terra lo stesso Logos, la seconda persona della Trinità, il quale si fa pienamente uomo, pur restando Dio. Egli, per Amore, ripara l’errore del primo Adamo, offrendo se stesso in sacrificio. Sta a l’uomo utilizzare o meno per la propria salvezza l’opportunità che il Creatore gli ha offerto. Se egli rifiuta si incatena da sé, avviandosi verso le “Tenebre esteriori” del Non-essere.
En passant si noti come, in un’ottica strettamente metafisica, l’espressione “non-essere” rimandi in ogni caso ad un particolare stato o forma dell’Essere, poiché nulla sta fuori dall’Essere, nemmeno l’esistere che da esso emana, su di esso si fonda e che infine nell’Essere ritorna. Da ciò si può dedurre come l’Inferno o il Male non potranno mai essere eterni; affermare il contrario significherebbe ricadere in quel dualismo irrimediabilmente contrappositivo che Phaure paventa e condanna.
Il capitolo si chiude con un’interessante interpretazione della Manifestazione (Emanazione-Creazione-Caduta-Reintegrazione) vista come: «una gigantesca e doppia operazione alchemica (…) Scala doppia sulla quale le anime si manifestano libere di scendere o di salire». Per concludere, le chiavi della Reintegrazione sono l’Amore e la “memoria di Dio” che le religioni trasmettono exotericamente e la Tradizione iniziatica esotericamente.
Nell’ultimo capitolo, Schiarimenti sull’antecristo-anticristo, l’Autore riflette sulla fine del Ciclo e sull’ultima grande tribolazione che ci attende. Essa è: «(…) il termine ultimo di quel gigantesco capovolgimento di valori spirituali che è ogni fine dei Tempi; è la conclusione di tutte le possibilità negative che erano incluse nella disobbedienza adamitica».
Fa tremare l’idea che le possibilità negative insite nell’uomo decaduto non si siano ancora manifestate pienamente; già abbiamo l’orrore degli espianti e dei trapianti di organi vitali, ambiguamente avvallati dalla Chiesa, la clonazione di esseri viventi al cui apice vi sarà inevitabilmente l’uomo, il perverso monopolio del cibo attraverso gli ogm, l’uso insensato dell’icontrollabile energia atomica, la menzogna sistematica quale pretesto delle più orribili guerre “umanitarie” e molto altro. «Vi sarà anche una Chiesa ufficiale – sostiene Phaure – per approvare tutto ciò e incensare l’imperatore!».
L’annuncio dell’Antecristo – e cioè di colui che viene prima del secondo avvento del Cristo nella Parusia – e dell’Anticristo lo si ritrova in tutto l’Antico e il Nuovo Testamento. L’Autore infatti cita parecchi brani tratti dalle Scritture e conclude ricordando la promessa dell’Unità ritrovata nella Tradizione Primordiale: «Dopo il frastuono luciferino dell’ultima età della tecnocrazia trionfante, i miracoli demoniaci dell’Antecristo, i combattimenti titanici dell’ultima grande guerra planetaria, e le convulsioni telluriche che modificheranno una buona parte del globo, verrà, in effetti, un grande silenzio sul mondo, i sopravvissuti vi si ristoreranno ed essendosi spogliati dei loro ultimi “attaccamenti” terreni, soprattutto dai residui di orgoglio, udranno finalmente la voce di Dio».
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