di Giuseppe Gorlani
L’attacco alla Libia da parte degli U.S.A. e dei suoi scherani segna un ulteriore passo verso la barbarie. Nel disprezzo di qualsiasi legge e del servizio al bene comune, questa ennesima guerra porta l’umanità sempre più vicina all’orlo del baratro.
Il pretesto “umanitario” vale quale ipocrita foglia di fico dietro la quale si celano brame insaziabili e una delirante idiozia. Stiamo assistendo alle più estreme manifestazioni dell’ignoranza; e non certo della semplice ignoranza nozionistica o, peggio, morale ed etica, ma dell’ignoranza principiale, riguardante l’aspirazione a cogliere il valore essenziale della vita.
Sembrerebbe, infatti, che gli individui al potere (almeno la maggior parte) stiano facendo a gara per superarsi gli uni con gli altri in efferatezza e stupidità, comportandosi come se l’uomo contingente fosse eterno, e cioè come se il possesso ad oltranza di questa o quella ricchezza coincidesse col Bene assoluto. Hanno bisogno di primeggiare in strepito, vanità e distruzione, poiché paventano il confronto con l’insignificanza che si portano dentro. Costoro esemplificano una concezione dell’esistenza in totale antitesi a quella sapienziale.
In un articolo intitolato “Minosse”, comparso sul numero di gennaio-febbraio 2011 del Periodico di esegesi platonica “Paideia”, si legge: «Una società decade quando i princìpi più alti vengono declassati e il mondo divino è antropomorfizzato e degradato. In sintesi l’uomo che dovrebbe innalzarsi a Dio, rende Dio a misura d’uomo. È la posizione protagorea: l’uomo è misura di tutte le cose». A maggior chiarimento, andrebbe precisato: l’uomo dimentico della propria realtà ontologica.
Secondo la prospettiva sapienziale, infatti, l’io individuale deve risolversi nel Sé, realizzando preliminarmente armonia con la natura e con i propri simili. Non ricordo quale grande taoista scrisse: «L’uomo del Tao (Dao) non lascia tracce». Per contro, gli uomini che hanno elevato il progresso tecnologico a religione gareggiano a chi lascia le tracce più disastrose e terribili. Perché altrimenti riempirebbero le loro detestabili bombe di uranio impoverito o utilizzerebbero ordigni al fosforo? Sanno benissimo che gli effetti di queste armi sono devastanti e di lunghissima durata, eppure le utilizzano, e ricevono premi Nobel per la pace a motivo delle loro “nobili” azioni o perpetrano nuovi genocidi in nome di quelli patiti. Allo stesso modo i loro numerosi sostenitori si fregiano di titoli altisonanti. Penso al sedicente filosofo Bernard-Henri Lévy, il quale, con solerzia non di certo disinteressata, si affretta a definire l’aggressione in corso: “una guerra giusta”. E penso pure ai numerosi artisti, scienziati, giornalisti e pensatori che prostituiscono le loro abilità intellettuali o artistiche in cambio di fama e denaro.
Chi o che cosa potrà fermare o quanto meno ostacolare il dilagare apocalittico di questa disprezzabile genia? Un risveglio di coscienza nei popoli o l’irradiazione sottile di un’élite intellettuale, spiritualmente orientata, come suggeriva René Guénon? Non saprei, forse una combinazione di entrambi. Credo, tuttavia, che la loro cieca e opprimente smania di potere verrà innanzitutto smascherata dalla Natura, intesa come energia-forza-volontà del Divino. Due segni estremamente chiari, tra i molti, ci si parano dinanzi: la catastrofe di Fukushima e l’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico.
“Meditate gente, meditate”, diceva, mi pare, una canzone dei Canned Heat negli anni ’70. Sì, se vogliamo prepararci alla nostra personale uscita di scena e al rendez-vous planetario con le messi derivanti dalle semine della “civiltà” alla quale apparteniamo, ci converrà meditare profondamente sul significato del nostro esserci e agire in conseguenza. Non si dovrà trattare però di un cambiamento superficiale, bensì radicale; dovremo cioè modificare concretamente il nostro modo di pensare e di vivere, smettendo, per quanto possibile, di sottrarre con sprechi il cibo alle bocche degli affamati e togliendo le dita dai grilletti di tutti i fucili puntati sempre sugli “altri” che, a ben vedere, sono gli specchi in cui si riflette, moltiplicandosi, il volto esecrabile di noi stessi.
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