31/10/08

Nasce il Cenacolo Alma Mater


Il Cenacolo Alma Mater è un cenacolo spirituale.

Il Cenacolo riconosce in modo particolare nella Madre di Dio, negli Angeli, nei Santi Padri orientali ed occidentali e in San Francesco le proprie guide spirituali.

Gli obiettivi del Cenacolo sono lo studio della metafisica cristiana ed il mutuo sostegno spirituale tra i suoi membri impegnati nella ricerca di quella Verità universale ed eterna che costituisce l’essenza profonda di ogni tradizione religiosa autentica.

(Chi volesse saperne di più può scrivere a: Matridhm@libero.it o collegarsi al sito http://matridham.blogspot.com)

30/10/08

Guido De Giorgio su "Heliodromos"

La sempre valida testata "Heliodromos" propone nel suo prossimo numero 20 un imperdibile speciale dedicato interamente a Guido De Giorgio (1890-1957). Eccone il sommario:

- Editoriale
- De Giorgio e la ricerca costante dell'assoluto (E. Iurato)
- Due lettere inedite di R. Guénon a De Giorgio
- La scuola e la religione (De Giorgio)
- La donna non è una cosa (De Giorgio)
- R. Guénon e la ricerca di Dio (De Giorgio)
- Islam (De Giorgio)
- L'eroe del Gimma (De Giorgio)
- Poesia per Havis (De Giorgio)
- La dottrina imperiale in De Girogio (A. Scali)
- Incontro con Corallo Reginelli (A. Calò)
- Riflessioni - Dentro e fuori le mura
- Analisi - Libri, Riviste, Musica, Cinema
- Tradizione e Controtradizione
- Cronache di fine ciclo

(Edizioni "Il Cinabro", Via dei Crociferi, 54 - 95124 Catania; www.heliodromos.it)

27/10/08

Giancarlo Roggero: Anima dell'Uomo


"A questo punto possiamo provare a confrontare la disposizione dell’anima quale appare nei tre patriarchi d’Israele, con quella che caratterizza le tre funzioni sociali nel mondo indoeuropeo. Un tale confronto può essere illuminante per chiarire il rapporto tra la vita dell’anima nelle sue possibilità naturali, e l’evoluzione della stessa, in quanto accolga in sé un principio di vita soprannaturale.
Là dove il produttore, in quanto rappresentante della terza funzione, cerca nell’ambito della vita la ricchezza, prosperità e fecondità dei beni naturali, e opera per accrescerli, Abramo percepisce in quello stesso ambito una grazia soprannaturale racchiudente in sé ogni bene, e si dispone ad accoglierla passivamente, come dono dell’Altissimo. Nel suo chinarsi davanti a Lui diventa virtù quell’umiltà che presso gli Indoeuropei era semplice diminuzione di grado.
Là dove il guerriero con la forza del suo animo erompe all’esterno per affermare il proprio valore, Isacco offre se stesso alla mano del sacrificante. Vi è come un capovolgimento nella vita dell’anima. In tal modo il cuore si riempie di benevolenza, e dall’interiorizzarsi del coraggio nasce il germe della compassione.
Là dove il sapiente mediante l’ascesi si eleva ai princìpi immateriali dell’esistenza, Giacobbe giunge a percepirli in conseguenza del contrasto tra la libertà individuale e la necessità del destino, e per grazia è reintegrato in quest’ultimo in modo nuovo: anche per lui si avvera la promessa di essere “fecondo” e diventar “numeroso”, ma con la coscienza di una meta finale.
Di gran rilievo è il fatto che, mentre nelle società tripartite la priorità gerarchica spetta ai rappresentanti della prima funzione - quella conoscitiva o mentale -, nell’organismo soprannaturale d’Israele è riservata invece al rappresentante della terza, ad Abramo, il portatore della vita. Ciò significa che, mentre nell’ordine naturale la conoscenza ha priorità sulla vita, in quello soprannaturale avviene il contrario. La perfezione dell’esistenza naturale si consegue infatti mediante la conoscenza, elevandosi con essa alle nature superiori dell’universo. La condizione dell’esistenza soprannaturale è data invece dal discendere nelle profondità della vita, per attingervi un rivolo della sorgente che sgorga direttamente da Colui che è all’origine di ogni natura e di ogni vita. Il sapiente scruta con lo sguardo un universo di entità spirituali permeate di energie divine. All’uomo che ha fede nel senso di Abramo è dato un inizio di comunione con Dio stesso, dapprima oscura, ma destinata, secondo la Sua promessa, a diventare anch’essa visione”. (da pagg. 100-101)

"Per Cristo stesso, in quanto Verbo incarnato, le tentazioni significano qualcosa di più: con esse è in gioco il senso stesso della Sua missione redentrice, esigente il sacrificio perfetto di sé al Padre. Per questo ad ogni tentazione Egli contrappone il riconoscimento della sovranità di Lui su ogni esistenza. Ma per la natura umana, che Egli ha assunto, il superamento delle tre tentazioni sancisce la possibilità di una sintesi individuale delle forze dell’anima già un tempo funzionali alla vita dell’organismo sociale. Ciò comporta un mutamento sostanziale della posizione dell’uomo nel cosmo.
Fino allora egli era tenuto a riprodurre in sé una parte della vita del cosmo, nel cui ordine complessivo risiedeva il suo fine. Da ora egli è chiamato a partecipare alla vita del Verbo e, secondo il Suo modello, realizzare nella propria anima un compendio del cosmo intero. Se prima il fine della sua esistenza era al di fuori di lui, nel cosmo, ovvero nella società che ne costituiva il riflesso, ora questo fine è in lui. Si badi bene, non lui stesso, ma il Verbo che abita in lui.
Tale è il coronamento del processo iniziato con il destarsi dell’individualità nel mondo greco-latino, e che senza l’intervento del Redentore si sarebbe risolto in una mera celebrazione di sé da parte dell’uomo. Ora egli è invece investito da Dio stesso di una dignità regale nei confronti della propria anima, e tramite essa, del cosmo. Una regalità, invero, che trova il suo limite nell’organismo universale degli Io sovrani retti dalla volontà unificante dell’Ente creatore". (da pagg. 300-301)
(ANIMA DELL’UOMO, di Giancarlo Roggero, Vie e mete della cultura dell’anima dall’antichità ai tempi nuovi, Ed. Estrella de oriente, 2 volumi)

23/10/08

Perù, trovata la tomba dell’ultimo imperatore inca?

Una antropologa peruviana, Natividad Vasquez, ritiene di aver trovato la tomba di Atahualpa, l’ultimo imperatore Inca ucciso dal «conquistador» Francisco Pizarro nel 1533. Anche se la scoperta non ha trovato ancora l’avallo dell’Istituto nazionale della Cultura peruviana, agli archeologi è stato già chiesto di avviare gli scavi in località Ventanillas de Jangalanella, nella regione di Cajamarca. In questa zona, secondo l’antropologa sarebbero stati trasportati i resti dell’imperatore che i suoi seguaci avevano trafugato dalla cappella della città di Cajamarca, dove era stato sepolto. Atahualpa visse a Quito, in Ecuador e purchè gli venisse risparmiata la vita, aveva promesso ai «conquistadores» montagne di oro e di argento.


L’«occhio» di Jünger sulla guerra

Resterà aperta fino al 30 novembre nell’Istituto di Studi Germanici a Villa Sciarra-Wurts (via Calandrelli 25 a Roma) la mostra «L’occhio fotografico di Ernst Jünger», dedicata a uno dei protagonisti della cultura europea del XX secolo. La rassegna, curata dal docente di estetica Maurizio Guerri, propone il lavoro fotografico del filosofo tedesco sui fronti della Grande Guerra, commentato dalle didascalie originali. Gli scatti in bianco e nero corrispondono all’idea jungeriana che «non c’è guerra senza fotografia» e vengono interpretati come un’intrusione violenta nella storia.
La mostra è stata introdotta da un convegno cui hanno partecipato tra gli altri Giacomo Marramao, Quirino Principe, Luca Crescenzi, Stefano Zecchi.


22/10/08

Conversazioni con Goethe


Johann Peter Eckermann arrivò a Weimar nel giugno del l823, dopo aver percorso a piedi le strade polverose ed assolate che da Hannover conducevano nella Turingia. Pochi giorni dopo, venne invitato al Frauenplan, dove Goethe abitava. Salì l´ampia scala neoclassica, si aggirò tra i saloni illuminati, coperti di quadri e di stampe, ammirando i grandi busti di Giunone e di Antinoo e la copia delle Nozze Aldobrandini. Per la prima volta nella sua vita il modesto, poverissimo letterato sedeva accanto ai principi di questa terra: scrittori famosi, signore eleganti e pianiste alla moda che, come lui, raccoglievano nei loro taccuini le parole sublimi o insignificanti lasciate cadere dal nume di Weimar.
Ma Eckermann non amava gli splendori dei ricevimenti ufficiali; e preferiva raggiungere il piccolo studio presso il giardino, dove poteva discorrere da solo con la sua " infallibile stella polare". Sedeva vicino a Goethe in "tranquilla, amorevole conversazione". Con le ginocchia sfiorava le ginocchia di Goethe: i suoi occhi non si saziavano di guardare "quel volto robusto, bruno, pieno di rughe": le sue orecchie ascoltavano parole lente e posate, simili a quelle di un monarca carico d´anni; e si sentiva indicibilmente felice "come chi, dopo molte fatiche e lungo sperare, vede finalmente soddisfatti i suoi desideri più cari". Così, trascorsero quasi nove anni, durante i quali Eckermann rinunziò a vivere la propria esistenza. Candido, sensibile, infinitamente ricettivo, dotato di un´intelligenza calma e raccolta, si lasciò possedere da quell´immensa forza, che si agitava vicino a lui. La accolse nel suo spirito con una fedeltà devota e amorosa: ne assorbì le ultime, incomprensibili complessità; e persino il Faust II gli rivelò dei segreti che rimasero nascosti ad interpreti tanto più acuti e presuntuosi di lui (Johann Peter Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita, a cura di Enrico Ganni, traduzione Alda Vigliani, prefazione Hans-Ulrich Treichel, Einaudi, pagg. 708, euro 85).
Quando Goethe morì, Eckermann rimase a Weimar. Continuò la sua solita vita. Catalogava le collezioni di Goethe: ordinava e preparava per la stampa, insieme a Riemer, i libri e gli scritti ancora inediti. Dava lezione di inglese al principe Carlo Alessandro: qualche volta era invitato a corte dal figlio di Carlo Augusto. Ma a Weimar, dopo che Goethe l´aveva lasciato, si sentiva in esilio. Tutta la forza, la gioia, l´amore e i desideri avevano abbandonato il suo spirito; e l´esistenza pesava su di lui come un incubo. Quasi solo, tristemente chiuso in sé stesso, si abbandonava alle proprie passioni infantili. Passeggiava tra le campagne e tra i boschi insieme a dei giovani amici: tirava con l´arco: studiava le mude delle capinere, dei merli gialli e dei rigogoli, gli strani costumi dei cuculi, il canto molle, malinconico, simile al suono del flauto, di certe allodole solitarie. Aveva trasformato sua stanza in un piccolo zoo, dove si aggiravano liberamente i giovani falchi, le upupe, gli sparvieri, un cane da caccia e una martora .
Passarono dei lunghi, intollerabili mesi, nei quali nessun ricordo aveva la forza di germogliare e di fiorire dentro di lui. Dopo giorni di abbandono e desolazione, Goethe gli apparve in sogno. Portava un cappotto scuro e aveva il volto fresco e colorito di chi vive all´aria aperta. "La gente pensa" gli disse Eckermann sorridendo "che Lei sia morto. Ma io ho sempre detto che non è vero; e ora con grandissima gioia vedo che avevo ragione. Non è vero, che Lei non è morto?" "Che sciocchi" rispondeva Goethe guardandolo ironicamente "morto? Perché mai dovrei essere morto? Sono stato in viaggio: ho veduto molti uomini e molti paesi. L´anno scorso ero in Svezia".
Consolato da questi sogni, durante il giorno Eckermann riusciva a scendere indisturbato nelle profondità della memoria. Il passato riaffiorava con i colori più freschi: vedeva di nuovo Goethe come se fosse vivo; e ascoltava il caro suono della sua voce . "In una giornata di sole, sedeva in carrozza accanto a me, con indosso la finanziera marrone e il berretto di panna azzurro, il mantello grigio chiaro posato sulle ginocchia. La carnagione abbronzata spirava salute, come l´aria fresca. Le sue parole intelligenti risuonavano all´intorno, coprendo il rumore delle ruote. Oppure mi rivedevo nel suo studio la sera, alla luce fievole della candela, lui seduto di fronte a me al tavolo, nella sua vestaglia di flanella bianca, la dolcezza d´animo di chi ha alle spalle una giornata ben trascorsa. Parlavamo di argomenti importanti ed elevati, e lui mi rivelava quanto di più nobile c´era nella sua natura; il mio spirito si infiammava al contatto con il suo. Tra noi regnava la più profonda armonia; mi porgeva la mano al di sopra del tavolo e io la stringevo. Poi magari afferravo il bicchiere colmo che mi stava davanti e bevevo alla sua salute senza dire una parola, mentre il mio sguardo riposava nei suoi occhi al di sopra del vino".
In quegli anni, quante altre persone cercarono di rievocare Goethe vivente! Grandi uomini di stato conservatori e oscuri studenti nazionalisti: geologi, filologi classici, storici, attori, violinisti, archeologi, astronomi, tenori e giuristi hegeliani: pittrici leziose e dame pettegole: gentiluomini russi ed inglesi: giornalisti francesi, ebrei di Boemia: Heine e Grillparzer, Mendelssohn e i fratelli Grimm, Schopenhauer, Alessandro Poerio e Mickiewicz – messaggeri di tutte le parti del mondo erano giunti a Weimar: avevano parlato con Goethe per qualche ora; e adesso risfogliavano i loro taccuini rielaborando antiche impressioni. Molti non avevano compreso nulla: qualcuno ricamava fantasticamente le parole di Goethe: qualche altro, che si era avvicinato "col batticuore e la testa cinta di nebbia", ricordava soltanto dei gesti senza importanza. Ma tutte queste testimonianze sono egualmente preziose. Il vecchio Goethe deve essere conosciuto così, attraverso mille echi e riflessi quasi anonimi, come se la sua forza preferisse manifestarsi e irradiarsi sopra tutti gli esseri umani.

(Autore: Pietro Citati - 01/08/2008 Fonte: La Repubblica)

18/10/08

Convegno su Piero Scanziani

La Fondazione Thule Cultura celebra il XXX° Convegno Nazionale sul tema “Piero Scanziani” a cento anni dalla nascita dello scrittore e pensatore della Svizzera italiana recentemente scomparso più volte candidato al Nobel da Mircea Eliade, il più grande storico delle religioni del novecento. Autore di romanzi, studi, saggi, testi teatrali, meditazioni sapienziali, Scanziani rivolse particolare attenzione alla vita e ai contenuti interiori, un ponte fra oriente e occidente, consacrandovi vari libri tra cui Entronauti, "Testo Cristico", “Libro bianco”, “La chiave del mondo”, le monografie su Gesù, Buddha, Maometto, Aurobindo.Dalla sua opera, di cui si occupa la critica internazionale, a cura di Vittorio Vettori è stata, curata per la casa editrice Elvetica una ampia selezione dei suoi libri.A Palermo Scanziani ottenne il Premio Mediterraneo nel 1985 dalla giuria presidieduta da Mario Sansone e i premi Salvator Gotta e Fragmenta-Alianello, intrecciò una serie di relazioni amicali e culturali con alcuni dei protagonisti del convegno Thule: Tommaso Romano , Lucio Zinna , Bent Parodi di Belsito, alle cui relazioni si affiancheranno gli interventi previsti di Franca Alaimo, Arturo Donati, Vincenzo Li Mandri e si concluderà con l’intervento di Magì Grimani Scanziani, docente, in Svizzera, poetessa e vedova dello scrittore. L’incontro è ospitato nella sede dell’Associazione Tasca di Cutò, Via Mariano Stabile, 70, Palermo con inizio alle ore 16.30 di venerdì 7 novembre 2008. Informazioni 3493896419


Clives Staples Lewis: Diario di un dolore


Clives Staples Lewis (1898-1963) è stata una delle voci più interessanti e appassionate del secolo scorso, un ateo “ritornato” al cristianesimo dopo un lungo e complesso percorso. Scrittore prolifico ed eclettico, brillante storico, autore di romanzi di fantascienza e per bambini come le famose Cronache di Narnia, divenute recentemente un film di successo, è stato anche un entusiasta divulgatore e un apologeta del messaggio cristiano.

Nell’evangelo Gesù, il rivoluzionario predicatore di Nazareth, ha indicato agli uomini, con parole dure ma anche misericordiose, la strada da seguire per tornare alla Luce, a Dio Padre. Con profonda onestà ha messo in guardia i suoi discepoli sul prezzo che avrebbero pagato se avessero seguito il suo esempio e attuato il suo messaggio. Da allora, in ogni tempo e in ogni luogo, per chiunque abbia scelto di essere autenticamente un cristiano si è prospettato un cammino irto di difficoltà: l’esperienza della croce ne è da sempre la tappa necessaria e dolorosa, un sepolcro oscuro dal quale venire fuori, una morte dalla quale risorgere. A Lewis accade proprio questo, nella fase più felice e matura della sua vita: dopo aver sperimentato la gioia del “figliol prodigo” che, ritornato a casa, trova ancora un Padre pronto a riabbracciarlo, è costretto a vivere sulla sua pelle il dolore incomprensibile e lo smarrimento per la morte della persona da lui più amata. La penna dello scrittore non si ferma di fronte al muro di gomma rappresentato dal lutto della moglie, morta di cancro, anzi nella scrittura vede un tentativo per uscire dal tenebroso tunnel della disperazione, da una nevrosi capace di alterare ogni equilibrio e l’usuale percezione della realtà. Nasce così Diario di un dolore (Adelphi, Milano 1990), un breve libretto in cui egli decide di raccontare questo disorientamento esistenziale, il più difficile della sua vita, fino alla faticosa risalita verso l’ennesimo ritorno a Dio, un Padre sempre in silenziosa attesa.

Percorreremo questo cammino di sofferenza e speranza rispettando le quattro tappe con cui lo scrittore ha pensato di scandire il suo racconto. Le immaginiamo come gli atti di un dramma interiore, le stazioni di una via crucis intima e nel contempo universale, percorsa pagina dopo pagina in questa cronaca di una rinascita.

I Atto. Solitudine e silenzio

H. [abbreviazione con cui Lewis menziona la moglie] è morta da poco e c’è ancora gente attorno al marito, rimasto vedovo, inconsolabile e chiuso nel suo dolore. Egli dice di avvertire una sorta di «coltre invisibile» tra sé e il mondo, un bisogno di compagnia sostituito presto da disinteresse e scarsa partecipazione alla realtà circostante. Riconosce nei ‘sintomi’ del suo dolore gli stessi della paura. Il ricordo acuisce la ferita come una «stilettata rovente» e fomenta quelle reazioni emotive, soprattutto il pianto, che confondono la mente annebbiandola. Il dolore annienta anche perché rende pigri: «le persone sole diventano sciatte» (p. 11), si abbandonano a se stesse, ad una sofferenza che le blocca, le immobilizza, che inibisce ogni tentativo di sfuggire ai suoi tentacoli.

In tutto questo Dio dov’è? In più luoghi del suo Diario il nostro scrittore ricorda la profonda e caparbia fede della moglie, la condivisione del credo cristiano, un collante della loro relazione coniugale. Dopo la scomparsa di lei anche Dio sembra essersi volatilizzato. Nonostante lo smarrimento, Lewis prova a darsi una prima spiegazione: quando si è felici non si cerca Dio, perché non se ne sente il bisogno e la sua presenza è data per scontata come la sensazione di avvertirla. Nell’infelicità invece il bisogno di Lui è disperato, immediato, ma invano si bussa alla sua porta: non più braccia aperte, solo silenzio, il silenzio immenso di una casa buia e forse disabitata, alla cui porta nessuno verrà mai ad aprire. «Perché il suo imperio è così presente nella prosperità e il suo soccorso così talmente assente nella tribolazione?» (p. 12). Forse dipende da come percepiamo «la realtà di Dio»: il problema non è stabilire se Dio esiste o meno, non si mette in dubbio questo; piuttosto si tratta di capire in che termini la sua esistenza venga concepita, avvertita da noi. A quanto pare Dio scompare quando non è in grado di rispondere alle richieste umane: ma la religione – sostiene Lewis – non è un surrogato dei desideri umani, di nessuno di essi, benché meno dell’amore. Chi si illude di questo è destinato a chiedere senza mai ottenere: di fronte a sé avrà «solo la porta sbarrata, la cortina di ferro, il vuoto, lo zero assoluto» (p. 13).

La sofferenza ha l’amaro sapore della solitudine. Di fronte all’amico, colpito da un così grave lutto, gli altri provano imbarazzo, «quel micidiale isolante» (p. 15) nutrito dalla paura e fonte di un inevitabile distacco. Lewis sente nel suo dolore una profonda infelicità, un’esperienza lacerante perché autoreferenziale all’eccesso: «ogni infelicità è in parte […] l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire» (p. 16). Questo genere di solitudine è inconsolabile, perché nessuno può alleggerirlo, condividendo in maniera totale un dolore: ci può essere una profonda empatia, ma alla fine ognuno vive la propria infelicità. Perfino lo scambio amoroso prevede una simile alterità: in una coppia si possono intrecciare sentimenti complementari, talvolta opposti, ma non identici (p. 20).

Lewis comprende che il suo dolore appare inguaribile perché la morte ha prodotto una frattura: il tempo, lo spazio, il corpo erano «i fili telefonici» che lo tenevano legato a sua moglie e che garantivano la comunicazione del loro amore. Una volta interrotti, tutto sembra svanito nel nulla. I tratti del volto di lei si confondono, il ricordo sbiadisce col passare dei giorni, lasciando «un’immagine sfocata». Solo «la sua voce è ancora viva» (p. 22).

Atto II. L’inganno del ricordo

Chi muore perde la possibilità di assaporare ancora la bellezza della vita, eppure chi rimane compiange se stesso come il peggiore degli sventurati. Lewis ricorda la voglia di vivere di H., il suo gusto fresco e intatto per ogni genere di gioia, «l’amore intenso» per ogni cosa, «la sua nobile fame» (p. 23). La morte di una persona amata appare sempre ingiusta, come ingovernabile sembra il processo di deformazione cui il tempo sottopone la sua immagine. Su questo punto l’analisi di Lewis è di una stupefacente acutezza e lucidità: il ricordo altera, perché rappresenta l’estrema chance di conservare qualcosa della persona perduta. Le sue parole, le sue azioni, i suoi sguardi sono affastellati dalla memoria, che li priva della loro unicità, fagocitandoli in sé. La mente toglie all’altro la sua possibilità di essere «altro»: Lewis ricorda sua moglie sfumandone l’immagine di persona reale, che non c’è più, e creandone una ideale da conservare: «sulla sua immagine si stanno depositando piccole scaglie di me, mie impressioni, mie scelte. […] Il sapore aspro, mordente, purificatore, della sua alterità è scomparso» (p. 26). La tomba, estremo aggancio della memoria a ciò che si è perso, è preferibile alle immagini distorte dei ricordi: queste ultime hanno «in più lo svantaggio di essere pronte a fare tutto quello che vogliamo» (p. 27).

Dinanzi alla fredda cesura della morte tutto sembra svanire, anche la fede. Diventa difficile, addirittura impossibile pregare: le parole sembrano rimbombare nel vuoto, lasciando il posto ad un’orribile sensazione di irrealtà. Lewis avverte questo e prova a spiegarlo: pregare per altri scomparsi, ma non profondamente legati a noi, è più semplice. Le convinzioni sono forti solo quando hanno superato la prova estrema. Inizia il tarlo di aver scambiato per fede solo una fantasia che non regge all’urto della sofferenza. La morte interrompe ogni genere di condivisione con l’amata, relega tutto nel passato, spezzando il tempo della relazione, il tempo dell’amore: la religione non consola di questo, non è accettabile una sua simile funzione. Lo smarrimento è totale.

Lewis s’interroga, non trova soddisfazione nemmeno nelle Scritture, tutto gli appare insensato e disumano. Ricorda le parole di s. Paolo a proposito della speranza che solo in Dio riposa, unico conforto dinanzi alla perdita di una persona amata. Ma questo – obietta – riguarda solo la dimensione spirituale, ‘eterna’, che è in ognuno di noi; quella umana invece non trova conforto perché ha di fronte a sé dolore e un vuoto incolmabile: «la realtà non si ripete. Ciò che viene tolto e ciò che viene ridato non sono mai la stessa identica cosa» (p. 32). I dubbi e l’ansia di trovare una risposta si susseguono spasmodicamente: che senso ha dire che dopo la morte non si soffre più? Forse Dio diventa più buono quando il nostro corpo si spegne? Dio ha crocifisso se stesso! Allora la realtà appare come uno strano gioco al massacro: perché creare l’uomo, dotarlo di coscienza, e dunque renderlo capace di comprendere ciò che vive, se questo stesso deve poi ferirlo? (p. 34) Nel destino dell’uomo, in definitiva, sta la beffa di Dio: «che ragione abbiamo di credere in Dio?» (p. 36). Anche Gesù ha vissuto quest’inganno che si è consumato sulla croce.

A questo punto del Diario Lewis è sopraffatto da una disperazione che non trova una via di fuga, tramutandosi in rabbiosa impotenza, e Dio diventa il bersaglio migliore da colpire. Ma dopo un dolore ottenebrante ritorna sempre a filtrare un barlume di lucidità e il sofferente prova a risalire. È un istinto naturale. A che serve immaginarsi Dio ora come un «sadico cosmico» ora come un «idiota malevolo»? Speculare sulla bontà divina o sulla sua esistenza è inutile; è solo un modo per contorcersi in preda ad un dolore difficile da accettare: «nella sofferenza non si può fare altro che soffrire» (p. 40). Lewis, a metà del suo cammino, sembra riuscire per la prima volta a guardare in faccia il suo dramma e a comprenderlo: il dolore è come la paura, il dolore è come la tensione, il dolore è come l’attesa. Rende tutto provvisorio, paralizza, dilata il tempo che diventa solo una «vuota sequenzialità» (p. 40).


(Autrice: Arianna Rotondo; fonti: www.ariannarotondo.it; rivista di spiritualità "Pregare"; www.pregare.org)
Addendum:
Segnaliamo della stessa autrice "Le figure femminili nel Vangelo di Giovanni"(Edizioni OCD)

15/10/08

Portando Clausewitz all´estremo

Nel giugno del 1807, in una rivista patriottica stampata a Königsberg, dove la corte prussiana si era rifugiata per sottrarsi all´avanzata napoleonica, Fichte, il filosofo della nazione tedesca, pubblicò un sorprendente saggio: Su Machiavelli, con una scelta di brani da lui stesso tradotti. Il grande fiorentino veniva riabilitato come maestro di realismo politico da cui la Prussia poteva trarre insegnamento per resistere all´invasore francese.
Nel trambusto della guerra, quel testo passò inosservato. Non sfuggì però all´attenzione di due acuti osservatori: Napoleone stesso, che da Milano emanò un editto con cui proibiva la rivista; e Carl von Clausewitz, allora sconosciuto, che scrisse una lettera anonima a Fichte in cui, presentandosi come «profondo conoscitore dell´arte della guerra», si dichiarava d´accordo con la riabilitazione fichtiana del fiorentino, ma si permetteva alcune osservazioni. Data la crescente importanza dell´artiglieria, che schiacciava la fanteria, esaltata invece da Machiavelli come anima dell´esercito, Clausewitz teorizzava la necessità di rinnovare l´arte della guerra e di alimentarla con un «nuovo spirito». Cioè con il diritto alla «resistenza a oltranza» contro l´invasore, passando dalla guerra duello tra Stati, circoscritta e regolamentata, a una guerra senza limiti, assoluta, totale. E´ la Magna Charta del partigiano, cioè del terrorista - come coglie acutamente Carl Schmitt nella Teoria del partigiano (Adelphi).Con una zampata da vecchio leone, René Girard mette mano nel suo ultimo libro, Portando Clausewitz all´estremo (Adelphi, pagg. 360, euro 28), a questo nervo delicato dell´antropologia negativa: la tendenza alla violenza insita nella natura umana. E dunque vero che «la guerra è la semplice continuazione della politica con altri mezzi». Ma, come la storia ha dimostrato in abbondanza, vale anche l´inversa: «La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi».Questa è per Girard la vera novità di Clausewitz: la politica, ben lungi dal contenere la guerra, la insegue - secondo la logica della conflittualità violenta. Con Clausewitz «è cominciata l´apocalisse»: perché la violenza, sfuggita al controllo, minaccia oggi l´intero pianeta. In tal senso Clausewitz è un acceleratore della storia. Pensare fino in fondo le sue tesi, «portarle all´estremo», significa mettere a nudo il meccanismo della violenza. Rassicurare, in tale situazione, sarebbe contribuire al peggio. Girard preferisce sferzare la coscienza addormentata dell´uomo contemporaneo.

(Autore: Franco Volpi; fonte: La Repubblica del 14/10/2008)

Angeli della nazioni: fede e politica da Daniele a Barth

Il primo numero dell’Annuario 'Politica e Religione' si intitola Angeli delle nazioni. Origine e sviluppi di una figura teologicopolitica e affronta un tema poco noto. L’angelo delle nazioni nasce – si legge nella presentazione – nella lunga elaborazione anticotestamentaria, come funzione vicaria di Dio, suo incaricato e suo rappresentante, nella mediazione tra ambito umano e ambito trascendente.
Tale figura, che trova nel Libro di Daniele una descrizione divenuta classica e che si evolve sino a dar luogo all’immagine degli angeli protettori dei popoli, ha esercitato un grande fascino su numerosi autori antichi: da Filone a Origene, da san Basilio a sant’Agostino. L’idea di un ruolo religioso degli angeli delle nazioni risulta ancora viva in Niccolò Cusano: nel suo De pace fidei, il dialogo che avviene in cielo tra i rappresentanti delle varie religioni, vede come protagonisti proprio gli angeli delle nazioni che in un primo momento si fanno portavoce davanti a Dio delle sofferenze degli uomini e poi vengono rimandati dal Signore alle diverse nazioni per costruire la pace e l’unità. Sul ruolo politico degli angeli delle nazioni si sofferma san Bernardo e riflessioni assai importanti sull’argomento sono state svolte da san Girolamo, Gregorio Magno, Campanella, san Tommaso, Suarez e Bodin. Il volume offre una valida ricostruzione delle dottrine angelologiche di questi pensatori, ricostruzione che si amplia fino a includere anche l’epoca moderna e contemporanea: nel libro troviamo infatti interventi su Leibniz, Lessing, Bulgakov, Guardini, Barth. Tre sono le acquisizioni principali a cui perviene il libro: la prima riguarda la trascendenza del potere politico, il suo derivare da una fonte divina. Il potere non si fonda da sé, si consuma nel suo apparire; la seconda concerne i limiti del potere politico. In quanto l’autorità civile soggetta a una potenza spirituale a sua volta soggetta a Dio, essa non può rivendicare per sé alcuna assolutezza; la terza, infine, fa riferimento alla possibile natura demoniaca del potere. Il demoniaco del potere è l’angelo della nazione caduto, che nel cadere trascina gli uomini con sé. Quest’opera straordinariamente complessa attesta l’importanza del confronto tra dimensione religiosa e dimensione politica e invita a condurre con serietà il dibattito che scaturisce da tale confronto, liberandosi dal peso della separatezza tra i saperi che indagano le cose della città e quelli che indagano le cose divine.

(Autore: Maurizio Schoepflin; fonte: Avvenire del 15/10/2008)


13/10/08

Pietro Citati: "La malattia dell’infinito"

Una originalissima raccolta di saggi di uno dei più autorevoli e raffinati intellettuali italiani, Pietro Citati. Oltre sessanta ritratti dei personaggi più significativi della letteratura e, più in generale, della cultura europea del Novecento.
Il volume è suddiviso in cinque parti: la prima è dedicata agli inizi del secolo; la seconda all’arco di tempo che va dagli anni Venti al secondo dopoguerra; la terza alla poesia; la quarta alla letteratura dal secondo dopoguerra fino ai recentissimi Yehoshua e Pamuk; la quinta, infine, a scrittori e intellettuali con cui Citati ha avuto legami d’amicizia e che oggi sono quasi tutti scomparsi (Gadda, Calvino, Manganelli e Fellini).
Si tratta di saggi molto eterogenei: alcuni si soffermano su un’opera specifica, altri analizzano il percorso letterario di un autore o complessivamente la sua figura, ma l’elemento ricorrente è l’analisi di ciò che, con la sua opera, ciascun protagonista del Novecento ha scoperto esplorando quegli aspetti della realtà e della natura umana che in genere restano in ombra, ai confini con il non visibile, il non razionale, l’ignoto.
Pietro Citati coinvolge ed emoziona il lettore, raccontando i dubbi, le ansie, le paure e le fragilità dei grandi intellettuali del Novecento che, non accontentandosi delle presunte certezze del senso comune, hanno avvertito l’ineludibile urgenza di inoltrarsi nei territori dell’ignoto e del mistero.
(Mondadori, Prezzo: € 22,00, Pagine: 560)

Pietro Citati è uno dei più originali e raffinati critici letterari del nostro tempo. Ha reinterpretato, in libri che sono insieme saggi e viaggi romanzeschi, alcuni capolavori della letteratura mondiale, come la Recherche di Proust, e la vita e le opere di grandi autori come Tolstoj e Goethe. Tra le sue opere ricordiamo: La colomba pugnalata (1995), Alessandro (1996), La collina di Brusuglio (1997), Kafka (2000), Il male assoluto (2000), Vita breve di Katherine Mansfield (2001), La mente colorata (2002), Israele e l’Islam (2003), La morte della farfalla (2006), tutti editi da Mondadori.

(Fonte:www.unilibro.com)

11/10/08

Il Cristo e le religioni: la dottrina dei semi del Verbo

Domenica 12 Ottobre,
ore 18.00,
incontro su:

IL CRISTO E LE RELIGIONI:LA DOTTRINA DEI SEMI DEL VERBO

Interverrà: Mario Polia, Antropologo ed etnologo,Docente della Pontificia Università Gregoriana.
L'incontro avrà luogo nel Teatro della Chiesa di San Bernardo di Chiaravalle, Via degli Olivi 180 (zona P. Togliatti) - 00171 ROMA tel. uff. parr. 06-23.12.038

Giovanni Boine - Miguel de Unamuno

Nel 1906 un giovanissimo Giovanni Boine pubblica sulla rivista milanese «Il Rinnovamento» la recensione del saggio Vita di Don Chiosciotte e Sancio di Miguel de Unamuno: quella segnalazione, che costituisce il suo esordio letterario, contribuisce a risvegliare in Italia un certo interesse verso il noto intellettuale spagnolo e diventa anche l'occasione per inaugurare tra i due una corrispondenza epistolare. Proprio il carteggio tra Unamuno e Boine riaccende l'attenzione su due saggi di Unamuno “dimenticati” nelle varie edizioni delle Opere complete: il primo, «Intelligenza e bontà», era stato pubblicato nel 1907 sulla madrileña «España Moderna» e soltanto grazie alla recensione di Boine, sempre sul «Rinnovamento», ce ne è giunta notizia; il secondo, «Della disperazione religiosa moderna», fu scritto da Unamuno espressamente per «Il Rinnovamento»: perduto l'originale spagnolo, a oggi è disponibile solo nella traduzione dello stesso Boine. Il presente volume, a cura di Sandro Borzoni, colma finalmente queste lacune, proponendo i due saggi di Unamuno, le due recensioni di Boine e una selezione dal loro carteggio. Insieme ricostruisce il caso di un terzo saggio sul cattolicesimo spagnolo che Unamuno ha certamente scritto per «Il Rinnovamento», ma di cui ancora non si è trovata traccia.

(Fonte:/www.ninoaragnoeditore.it)

09/10/08

Tutti i buchi dell’«Inchiesta»

La fede crede che Gesù sia risorto. La scienza sa che Gesù non è risorto, perché i morti non risorgono. La fede crede che i quattro Vangeli ci trasmettano il messaggio di Gesù Cristo. La scienza sa che non è così. La fede crede che la Chiesa ci permetta d’incontrare ancora oggi nella storia Gesù di Nazaret attraverso la continuità dell’istituzione da lui fondata. La scienza sa che Gesù non ha fondato nessuna istituzione, e che la Chiesa come la conosciamo semmai deriva dall’imperatore Costantino. Tesi che risalgono all’Illuminismo, e che riposano su una concezione assolutista della scienza definitivamente decostruita da Adorno e Horkheimer in poi, senza dimenticare la meta-scienza di Popper? Purtroppo no: lo scientismo è un passato che non vuole passare, come conferma un aspirante best seller in cerca di lettori, Inchiesta sul cristianesimo. Come si costruisce una religione (Mondadori, Milano 2008), confezionato sulla scia del successo del suo precedente Inchiesta su Gesù dal giornalista Corrado Augias, che questa volta intervista il professor Remo Cacitti, docente di Storia del cristianesimo antico all’Università di Milano.
L’idea è che si possa opporre alla fede – rappresentata per esempio da Benedetto XVI, oggetto di più di una battutina velenosa, e per definizione infondata e soggettiva – la Scienza storica con un’ideale S maiuscola, che sarebbe invece per definizione oggettiva, universale e certa. Cacitti cita l’archeologo e storico francese Salomon Reinach (1858-1932), che fornisce quello che può essere considerato il motto del libro: mentre la fede dice “io credo” la scienza della storia delle religioni, fondata su “fatti certi”, può dire con orgoglio “io so” (p. 265). Una volta entrati in questa logica, il gioco è fatto: a chiunque muovesse obiezioni in nome della religione o del semplice buon senso Augias e Cacitti potranno replicare che altra è la scienza storica, altra è la mera fede.
Intendiamoci: Augias fa il suo mestiere, che è quello del giornalista dissacrante e provocatore che tutti conosciamo. Né egli ha mai nascosto di essere uno scettico e un non credente. Anche il professor Cacitti fa il suo mestiere: corregge Augias quando esagera, e cerca di rimanere nell’ambito della storiografia accademica. Tuttavia, sia il lettore meno preparato rischia di rimanere sconcertato, sia le stesse conclusioni del professor Cacitti si prestano a qualche obiezione laddove sembrano implicare che la storia sia l’unica disciplina che ha titolo a pronunciarsi su come è “veramente” nato il cristianesimo. Colpisce, in particolare, l’assenza nel testo di qualunque riferimento alla sociologia delle religioni, una scienza il cui più noto esponente statunitense contemporaneo, Rodney Stark, ha dedicato una delle sue opere fondamentali precisamente alle origini del cristianesimo. Il testo,
Ascesa e affermazione del cristianesimo, pubblicato in Italia da Lindau, è apparso in quattordici lingue; almeno nell’area di lingua inglese, è stato ben ricevuto anche dagli storici e ha dato origine a tutto un nuovo filone di ricerca. In particolare Stark sostiene che la versione del cristianesimo fondata su dogmi certi e su una Chiesa organizzativamente forte si è affermata, prevalendo sui sogni degli gnostici e sulle utopie di un cristianesimo non istituzionale e pacifista, non grazie al potere di Costantino (come il testo di Augias e Cacitti ripete) ma perché meccanismi sociologici all’opera anche oggi – e che spiegano perché certe forme religiose abbiano successo e altre declinino nel XXI secolo – rendevano sia comprensibile sia inevitabile che fosse così.
Anche la moderna sociologia della scienza può forse aiutare, con tutto il rispetto, a guardare con un certo sano scetticismo alle conclusioni di Cacitti. Tale sociologia sostiene infatti che la scienza, compresa quella storica, è raramente “neutra” e “oggettiva” (così che la sua pretesa di essere superiore, per esempio, alla teologia, è per certi versi ingenua) ma è sempre culturalmente condizionata, politicamente negoziata e socialmente costruita. E questo è vero anche per quella rispettabilissima scienza che è la storia del cristianesimo. A proposito dei Vangeli e delle lettere di Paolo, molti storici contemporanei – le cui idee Cacitti riassume fedelmente – spiegano che alcune affermazioni vanno intese come effettivo resoconto di fatti storicamente avvenuti, altre solo come metafore o descrizioni di esperienze spirituali a torto scambiate per realtà storiche o empiriche, altre ancora come affermazioni messe in bocca post factum a Gesù per giustificare interessi o posizioni della Chiesa nascente. Il controverso esegeta irlandese, residente negli Stati Uniti, John Dominic Crossan e il suo Jesus Seminar avevano prodotto addirittura un Vangelo “a colori” dove attribuivano colorazioni diverse a quanto, secondo loro, Gesù avrebbe detto per davvero e a quanto sarebbe stato inventato dagli evangelisti.
Il problema però è chi e come decide quali parole e fatti attribuiti a Gesù sono autentici e quali sono inventati. Dichiariamo autentici i testi che pensiamo di poter considerare più antichi? Non è proprio così: Cacitti lealmente riconosce che le affermazioni più chiare sul fatto che Gesù sia fisicamente risorto dai morti sono in testi di san Paolo “vicini all’evento, ovvero databili agli anni Trenta del I secolo” (p. 28). Eppure secondo lo storico italiano è “evidente” che si tratta di “una prospettiva religiosa, non storica” (ibid.). E perché è “evidente”? Cacitti ha il merito di dirlo in modo molto più sfumato, mentre Augias lo afferma più brutalmente: perché nel XXI secolo “alla resurrezione dei morti oggi nessuno crederebbe” (p. 72). A parte la solita mancanza di sociologia – uno sguardo alle Indagini mondiali sui valori convincerebbe gli autori che la maggioranza assoluta dei nordamericani e dei sudamericani, e un buon terzo degli europei, crede in pieno XXI secolo che Gesù sia risorto – la formula sembra precisamente quella rimproverata al Jesus Seminar: consideriamo autentici solo gli eventi e gli insegnamenti riportati nei Vangeli che risultano accettabili ai contemporanei, anzi a quella minoranza di contemporanei che in nome dello scientismo non crede ai miracoli. Così le affermazioni sul primato di Pietro e tutto quanto fonda un cristianesimo che non sia puro insegnamento morale sulla povertà e la pace “devono” essere aggiunte posteriori e non possono fare parte dell’insegnamento autentico di Gesù Cristo: il quale, diversamente, assomiglierebbe troppo a quello di Benedetto XVI, che non è simpatico ad Augias e sembra di capire neppure a Cacitti.
Che le cose stiano così sembra confermato dalle incursioni degli autori su temi diversi da quelli delle origini cristiane. Per esempio, in tema di apparizioni della Madonna, Cacitti afferma ripetutamente che “non hanno assolutamente nulla di religioso” (p. 149). Ci si chiede tuttavia come è stato previamente definita la nozione di “religioso”. Avendo a suo tempo partecipato (unico studioso italiano invitato) al progetto europeo LISOR sulla definizione di religione, penso di avere qualche elemento per dire che nel messaggio di Fatima o nelle parole della Vergine a Lourdes, per tacere dell’esperienza dei fedeli e dei pellegrini nei rispettivi santuari, tutto è religioso secondo una qualunque delle maggiori nozioni di religione utilizzate nella sociologia contemporanea.
Così pure rimango perplesso quando Cacitti definisce “chierici franchisti” i sacerdoti e religiosi uccisi durante la guerra di Spagna e a suo avviso inopportunamente canonizzati (p. 210: molti di loro non erano certamente “franchisti” e furono uccisi per la loro fede, non per le loro idee politiche), e quando sembra confondere, tra i documenti del Vaticano II, la
Nostra Aetate (che non è il testo “che apre alla libertà religiosa”, p. 246) con la Dignitatis humanae. E sono ancora più perplesso quando lo storico di Milano attacca “l’oscena strumentalizzazione di certi passi del Corano, operata da truci cristiani, per i quali sarebbe quel testo sacro a fomentare la violenza e il terrorismo islamici”: una posizione che “certo non è vera” (p. 66). Il maggiore sostenitore accademico contemporaneo della tesi secondo cui le giustificazioni di una certa violenza islamica si trovano in alcune sure del Corano, l’islamologo della Rice University David Cook, il quale offre argomenti molto seri e tutt’altro che facili da smontare, sarà forse “truce”, ma certamente non è un cristiano. C’è da chiedersi se in certi ambienti, anche autorevoli, l’islam non goda oggi di un pregiudizio favorevole che si nega alla Chiesa Cattolica.
Lo ha ribadito Benedetto XVI a Parigi: tutti i contributi delle scienze alla migliore comprensione del cristianesimo e della sua storia sono i benvenuti. Ma squalificare come non razionale e non scientifica la comprensione che i credenti hanno di Cristo e della Chiesa, pretendendo che una certa storiografia accademica sia detentrice per definizione di un sapere superiore e più “obiettivo”, fa invece parte di quella muraglia cinese eretta dalla modernità fra fede e ragione che Benedetto XVI sta cercando dall’inizio del suo pontificato di smantellare: in nome non solo della fede ma anche di una nozione più serena e prudente di ragione.
(
Autore: Massimo Introvigne; fonte: «Avvenire», 24 settembre 2008)


Occiente segreto

Rosacrocianesimo, Libera Massoneria, gnosticismo, Cavalieri Templari: già prima del successo planetario del Codice da Vinci, questi e altri aspetti dell'esoterismo occidentale hanno suscitato la curiosità di molti lettori, che hanno cominciato a guardare non solo a Oriente alla ricerca di forme di spiritualità alternativa. Anche la nostra tradizione, difatti, è ricca di culture sapienziali antiche e recenti di grande fascino, davvero pochi però sono gli strumenti in grado di avvicinarvi i non addetti in modo serio, semplice e completo.
Occidente segreto colma brillantemente questa lacuna. Jay Kinney, fondatore della rivista americana «Gnosis» (autentico punto di riferimento a livello mondiale per gli studi esoterici), si avventura in un affascinante excursus, raccogliendo interventi di alcuni tra i più autorevoli esperti in materia e facendo così luce sui linguaggi simbolici e le filosofie occulte che costituiscono la "Via d'Occidente”. Queste teorie e le relative pratiche - che comprendono diverse varianti del misticismo cristiano ed ebraico e gli insegnamenti di figure cardine quali Rudolf Steiner, René Guénon, G.I. Gurdjieff - rappresentano a tutt'oggi una tradizione vivissima e un ingrediente misconosciuto ma pervasivo della cultura occidentale.
Occidente segreto è un'opera quanto mai tempestiva, in un'epoca in cui Kabbalah e Tarocchi hanno raggiunto vette di popolarità finora impensabili e forme di spiritualità alternativa come Wicca e sufismo continuano a fare proseliti.

Jay Kinney è stato fondatore e caporedattore di «Gnosis», rivista di studi esoterici chiusa nel ‘99 ma considerata ancora oggi una voce fondamentale nel dibattito su questi temi. Illustratore, disegnatore di fumetti, giornalista freelance, ha scritto anche Hidden Wisdom. A guide to the Western Inner Traditions (con Richard Smoley, 1999) e The Masonic Enigma (di prossima pubblicazione negli USA).

(Fazi Editore, Roma, 2007, 314 pagg. € 19,50)


Quando Firenze guardava ad Oriente


L’Oriente e l’orientalismo a Firenze. Una pagina di storia della città e della cultura identitaria europea. L’iniziativa organizzata dal Centro studi sulle arti e le culture dell’oriente (Csaco) giovedì a Firenze, a Palazzo Medici Ricciardi. Alle ore 11 conferenza stampa, alle 16,30 conversazione sul tema: Firenze e l’Oriente. Intervengono Matteo Renzi, Francesco Gurreri, Franco Cardini, Aldo Schiavone. Alle ore 19 visita guidata alla Cappella dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli. La giornata è la prima messa in cantiere dallo Csaco, che per il 2009 ha programmato una serie di conferenze mensili.

Julien Ries, la scienza delle religioni

L'interesse per lo studio della propria religione e quello per le religioni degli altri sono stati due componenti costanti della nostra cultura. È però a partire dal XIX secolo che prendono forma le ricerche storico-critiche sulle religioni. Muovendo dall'epoca rinascimentale e ripercorrendo i secoli successivi, con una particolare insistenza sui profondi mutamenti intellettuali che hanno attraversato il XVIII secolo, Julien Ries ricostruisce le condizioni che hanno condotto alla costituzione delle scienze delle religioni. Ripercorre così la formazione della storia delle religioni nel quadro della cultura europea della fine del XIX secolo, con la nascita delle prime cattedre e l'istituzionalizzazione della disciplina; traccia l'evoluzione dei diversi metodi che, nel corso del XX secolo, hanno caratterizzato il dibattito storico-religioso; disegna il profilo delle personalità che hanno maggiormente influito sulla definizione di un'attuale antropologia del sacro, Georges Dumézil e Mircea Eliade, presentando altresì la biografia degli altri protagonisti delle ricerche religiose, in un amplissimo arco cronologico che va da Griglio Gregorio Giraldi a Claude Lévi-Strauss.
(Fonte: http://libreriarizzoli.corriere.it)


06/10/08

Ernesto Buonaiuti: "Pellegrino di Roma"

L'introvabile autobiografia del grande teologo modernista.
Per Buonaiuti la scomunica e il fascismo non significarono mai nulla.
Questo testo, mai più ripubblicato integramente dopo il 1946, viene oggi riproposto con una nuova prefazione di Giancarlo Gaeta e un inedito ricordo di Raffaello Morghen.
PELLEGRINO DI ROMA (Alberto Gaffi Editore, pp. 638, 18 euro) continua a trasmettere tutto l'amore per la chiesa cattolica dell'autore, nonostante che le sue coerentissime scelte gli costarono prima la scomunica (1925) poi l'esonero dall'insegnamento nell'università statale (1931).
Per scrivere questo testo, il filosofo romano prese pretesto dallo sfarzo del giubileo per il compleanno del Papa, per arrivare a parlare, con un'ampia disamina, di molti altri argomenti: fra tutti la mancata "democrazia" della Chiesa romana e l'attualissima critica riguardo la sua indebita ingerenza nella sfera pubblica e commistione con la politica (sic!).

(Fonte: www.gaffi.it)

03/10/08

Oracoli sibillini

Con il nome di “Sibilla” si è soliti indicare nel mondo antico (greco e romano, pagano e cristiano) e sino al Medioevo una tipologia di profetessa invasata che, annunciando “tristi cose”, per volere del dio e in preda alla possessione divina, fa udire la sua voce varcando ogni limite di tempo e di spazio. Nel contesto della letteratura pseudoepigrafa dell’Antico Testamento la raccolta degli Oracula Sibyllina occupa un posto rilevante, amalgamando diverse tradizioni: una straordinaria miscellanea il cui contenuto rispecchia una varietà di dottrine, inglobando le caratteristiche della letteratura profetica orientale e della cultura ellenistica. Nella raccolta - 4.230 esametri greci suddivisi in 12 libri - si distinguono due nuclei principali: gli oracoli di matrice giudeo-ellenistica e quelli di matrice giudeo-cristiana. I primi rispecchiano il mondo della religiosità giudaica, i secondi - gli oracoli cristiani - scaturiscono da un riadattamento della tematica giudaico-sibillina finalizzata tuttavia alla propaganda cristiana. Infatti, come già le profezie sibilline romane venivano utilizzate a scopo politico-propagandistico, così anche gli Oracula Sibyllina fondono insieme propaganda politica e tensione apologetica, sferrando un attacco serrato contro Roma e i suoi imperatori e preannunciandone la futura distruzione. La Sibilla degli Oracula, come la prima Sibilla, profetizza poiché posseduta da un Dio; i suoi oracoli contengono l’annuncio di catastrofi e prodigi che colpiranno l’umanità che ha tradìto il volere divino, sia esso il volere dei membri di un pantheon o il disegno dell’Unico Dio. Un corpus variegato sia dal punto di vista formale che contenutistico, in cui si scoprono linee di sviluppo di motivi profetici, temi dottrinali e teologici, concezioni escatologiche e apocalittiche.

MARIANGELA MONACA
(introduzione, traduzione e note)
ORACOLI SIBILLINI. Città Nuova Editrice, Roma, 2008, pp. 254, euro 18.

(Fonte:www.aseq.it)