29/03/08

Il Messia perduto

Scriveva qualche anno fa Jerry Rabow nel suo studio sui «50 messia ebraici» ( 50 Jewish Messiahs, Gefen Publishing House, Gerusa­lemme/ New York): «È facile assegnare il titolo di 'più grande' nelle diverse categorie: la figura sto­rica più importante, il carattere più complesso, quello con il movimento più vasto, con il segui­to più duraturo, quello più dannoso per il popo­lo ebraico. Tutti questi titoli vanno allo stesso messia, Sabbatai Sevi».
Nato a Smirne nel 1626 da una famiglia sefardi­ta dedita al commercio – il padre Mordekhai era al servizio della Compagnia britannica delle In­die orientali – allievo di Yosef Eskapa, rabbino ca­po della città, Sabbatai a diciotto anni gode già della nomea di valente cabalista, sia teorico che pratico. Nel 1648 però si autoproclama Messia e, dopo un crescendo di provocazioni blasfeme, viene bandito dalla propria comunità. Dà inizio così a un’avventura 'mistico messianica' che lo porta nella sua predicazione a Costantinopoli, a Salonicco, indi al Cairo, dove prende in sposa la misteriosa Sarah, proveniente dalla comunità e­braica di Livorno e con la fama di «donna di for­nicazioni » (ricorda Gershom Scholem che «la sua reputazione di prostituta la precedette in Orien­te » e che «Sabbatai la sposò precisamente per quella ragione, per imitare il profeta Osea»). Giun­to in Palestina, Sabbatai incontra un astro na­scente del cabalismo luriano, Natan di Gaza, che diviene suo braccio destro e profeta. È Natan, nel 1665, ad annunciare che l’anno seguente sareb­be stato l’inizio dell’era messianica e che Sabba­tai avrebbe radunato le dieci tribù perdute d’I­sraele in terra santa. Denunciato alle autorità ottomane da numero­si rabbini, Sabbatai viene convocato alla corte del sultano Mehmed IV. Imprigionato e posto di fronte alla scelta se convertirsi all’islam o accet­tare il martirio, si converte prendendo il nome di Aziz Mehmed Effendi. Un’apostasia che ha l’ef­fetto di un terremoto nel mondo della diaspora, in cui la fede nel liberatore Sabbatai aveva rag­giunto dimensioni imponenti. Da Amsterdam a Bordeaux, da Venezia a Safed, da Amburgo ad A­leppo, gran parte dei seguaci rifiuta l’atto igno­minioso e riconosce con sofferenza nella 'mes­sianicità' di Sabbatai una tenebrosa mistifica­zione. Un’altra parte, invece, accetta la spiega­zione teologica fornita da Sabbatai stesso: il Mes­sia, nel suo «abrogare la Legge», avrebbe dovuto raggiungere l’abisso della perdizione, compresa l’apostasia. Teologia perfezionata da discepoli come Berekyah Russo, secondo il quale la nuo­va Torah messianica, la Torah de Azilot, com­portava la trasformazione delle 36 keritot (proi­bizioni) della Torah in norme positive. La storia di Sabbatai e delle conseguenze della sua predicazione antinomista, in buona parte ri­mossa dalla storiografia ufficiale, è fluita da allo­ra come un fiume carsico nella cultura ebraica ed europea. A riportarla pienamente alla luce è sta­to, com’è noto, Gershom Scholem, soprattutto col monumentale Sabbatai Zevi, il Messia misti­co del 1973, riaccendendo un interesse per quel­le complesse e tortuosissime vicende che non si è più spento. Così, se in Turchia è da poco usci­to in libreria Sabatay Sevi ve Sabataycilar. Mitler ve Gerçekler («Sabbatai e i sabbatiani. Miti e ve­rità », Asina Kitaplari edizioni, Ankara) dello sto­rico e specialista della materia Cengiz Sisman, Il Saggiatore propone la traduzione italiana di The Lost Messiah, biografia scritta nel 2001 dall’ame­ricano John Freely, eclettico docente di storia del­la fisica a Istanbul, con la passione per la storia dell’impero ottomano.
Uno studio, questo, in cui Freely condensa i ri­sultati di una ricerca pluridecennale su Sabba­tai, ricostruendo con acribia numerosi passaggi poco noti o nebulosi della sua parabola: dal viag­gio in incognito a Roma, per conto del 'Messia', di Natan di Gaza, il quale portò a termine la sua esoterica missione «gettando nel fiume (Tevere) un rotolo con su scritto: ancora un anno e Roma sarà distrutta»; ai rapporti iniziatici fra il movi­mento sabbatiano e la confraternita dei sufi Bek­tashi; al ruolo giocato nella nascita della Repub­blica turca, tramite l’organizzazione dei Giovani Turchi, da parte dei cosiddetti Dönmeh, discen­denti di quei sabbatiani che, come il loro mae­stro, scelsero di abbracciare un essoterismo isla­mico mantenendo nel segreto i propri culti (Da­vid Bey, uno dei tre Dönmeh che ricoprirono nel 1909 la carica di ministro nel primo governo dei Giovani Turchi, era un discendente diretto di Be­rekyah Russo); ecc. Fino all’identificazione del­la sepoltura perduta di Sabbatai, che Freely ri­tiene di aver scoperto a Berati, in Albania. Men­tre tutti pensavano si trovasse in Montenegro.

(John Freely , IL MESSIA PERDUTO, La storia di Sabbatai Sevi e il misticismo della Qabbalah , Il Saggiatore. Pagine 288. Euro 22,00)

(Autore: Andrea Galli; Fonte: L’Avvenire del 29/03/08)

25/03/08

D'Arte

Riporto più che volentieri:

Per parlare del dopo elezioni...di anti '68...di relativismo etico...di cinema....di arte

LA BATTAGLIA DELLE IDEE

Le elezioni passano...la cultura rimane...con questo spirito ci è parso opportuno proporre alcuni spunti di riflessione metapolitica...pensando alla necessità di costruire una nuova progettualità, che punti sulle idee fondanti, muovendosi nell'ambito di specifici settori d'intervento:

1) I beni culturali sono un’espressione di civiltà e, quindi, come tali rappresentano la viva testimonianza spirituale di un processo comunitario che ha vissuto ed è stato attraversato dai popoli. I beni culturali, prima di essere considerati un investimento e dunque un percorso produttivo, costituiscono la vera trasmissione di una tradizione che ha caratterizzato la civiltà, l’anima e la costruzione di un popolo. Vanno tutelati attraverso una profonda politica della conoscenza che deve avere come elemento portante un progetto educativo, che punti chiaramente a un tracciato fruitivo. I beni culturali (qualsiasi settore essi rappresentino) non possono che essere considerati come un sistema di educazione permanente.
2) La cultura popolare o le tradizioni popolari (quelle forme che passano attraverso dei modelli antropologici) sono realtà di conoscenza delle civiltà e dei popoli. Vanno recuperate e proposte come processi non solo storici ma umani. Lo stesso folclore rientra in un processo culturale che appartiene ad un popolo e non ad una classe, appartiene alla consapevolezza di una tradizione e non può essere “usato” come uno strumento con finalità ideologiche. Nazione e popolo sono parte integrante di un’identità comunitaria. La difesa dell’ identità linguistica è parte integrante di una cultura della tutela che permette la conoscenza e la non dispersione dei linguaggi e delle forme identitarie della comunità.
3) La scuola deve avere una funzione prioritaria non solo nel campo formativo, ma soprattutto come modello primario di un’agenzia educativa che ponga come dato valoriale non la ragione come sentimento, ma il sentimento come significato centrale nella formazione dell’uomo. Diventa sempre più urgente recuperare il ruolo e la capacità della famiglia in una sinergia diretta con i docenti. Il punto fondamentale non può che restare l’educazione che realizza modelli formativi e non viceversa.
4) Una letteratura che sia sganciata dalle teorie della critica militante di natura gramsciana e ponga al centro non solo i valori spirituali ma anche la capacità di espressione, non più degli ambienti, ma dei personaggi,; ponga freno ad una letteratura materialistica a discapito del ruolo metafisico del linguaggio. Linguaggio non solo come ricerca ma come riferimento esistenziale e sentimentale, il cui sentimento della memoria deve essere pregnante di connotati vivi nella Tradizione. Su questa linea bisogna avviare una vera e propria cultura del teatro, che non debba fare disperdere le identità, ma che sappia proporsi come anche come modello innovativo. Difendere la cultura del teatro significa, tra l’altro, rafforzare i valori classici e i linguaggi che su questi si basano.
5) Un cinema che sia in grado di recuperare i grandi temi della testimonianza umana e dia senso a quell’identità storica che ha caratterizzato l’esperienza cinematografica e culturale italiana, la quale, pur non assentandosi da modelli di nuova avanguardia, deve portare dentro di sé elementi creativi e pedagogici alti. Riconsiderare la cultura dello spettacolo è un altro tassello importante che va trascurato (dalla musica leggera alla musica classica, dagli spettacoli d’intrattenimento a quelli di vario umorismo) e va inserita nella riconsiderazione della tradizione nazionale, che è lontana da linguaggi scurrili e da immagini disgustose.
6) Un percorso artistico che possa avvalersi delle innovazioni tecniche senza però perdere di vista la figura, l’espressione metaforica, il tracciato onirico e il colore su una tavolozza, la cui valenza estetica non deve cedere il passo allo sperimentalismo purchessia. Innervare nel tessuto contemporaneo la scelta dei grandi artisti con la presenza di mostre e di scambi di alto spessore. Arte e artisti devono costituire, sempre più, un modello appropriato di conoscenze e diffusione degli stessi valori artistici. Il dato simbolico deve essere un elemento artistico, ma arte è conoscenza e sensibilità perché l’artista non può che essere “il creatore di cose belle” (Wilde).

Mario Bozzi Sentieri

QUALE ARTE ?

A Genova, proprio in questi giorni, viene proposta una mostra "spazzatura", così presentata dal critico "politicamente corretto":
"Un percorso artistico tra sculture, installazioni e opere di medie e grandi dimensioni, esclusivamente realizzate con materiali di scarto raccolti lungo gli arenili: frammenti, oggetti in plastica e in metallo ossidato, pezzi di legno, corde, vetro levigato, vengono assemblati dall'artista con naturalezza interpretativa ma con provocazione ed ironia.
I rifiuti raccolti, utilizzati senza subire modifiche o aggiunte decorative artificiali, si arricchiscono di contenuti espressivi, volti a "ri-dare-vita" a qualcosa di sporco che il mare ha inghiottito senza desiderarlo per poi restituirlo come purificato. Il risultato? Opere 'materiche' godibilissime che fanno scatenare la fantasia, quasi specchi rivelatori dell'espressioni della mente e dei contenuti del cuore, raccontati attraverso articolate storie marine (Junk Fish), nature morte floreali (Junk Flowers) e composizioni tridimensionali (Junk Bodies).
La mostra, patrocinata dal Comune di Genova, si avvale del sostegno dell'Associazione "Amici della Vita-Onlus", di LEGAMBIENTE e PENTAPOLIS".

***

Nello stesso tempo su un blog di un caro amico non conformista , Dionisio Di Francescantonio, viene proposta un'interessante "Discussione sull'arte"....

A chi ci legge di fare le dovute comparazioni...

DISCUSSIONE SULL'ARTE

Non c’è dubbio che certi sperimentalismi esasperati praticati nel secolo appena trascorso (sperimentalismi che oggi ci appaiono spesso niente più che manifestazioni di assenza di idee e di contenuto se non di totale mancanza di talento), richiedano almeno un tentativo di fare chiarezza, di ricondurre il senso del fare arte in una prospettiva di serietà e di impegno.
In questo senso ho scelto di definire i vari modi di esercitare l'arte discipline artistiche proprio per sottilineare la necessità che la pratica dell'arte deve rispondere innanzitutto a una disciplina, ossia all'esigenza di acquisire un mestiere con un tirocinio (anche duro e difficile) attraverso il quale ciascuno trova il proprio linguaggio personale. In altre parole, chi vuol fare arte deve diventare in primo luogo un artigiano capace, dopodiché, se avrà talento, potrà essere un artista, grande o piccolo si vedrà.
E questo per riaffermare una volta per tutte un concetto che si trascura da tempo in nome del falso mito della creatività istintiva (cioè che il talento, per esprimersi, deve necessariamente affidarsi al mestiere).
Ma che dire a proposito di dove siamo arrivati con gli sperimentalismi nati da quella malintesa necessità di andare oltre il già visto e il già provato che, da un certo momento in poi, ha informato gran parte delle (si fa per dire) arti (non solo figurative)?
Tanto per fare un esempio, in questo momento ho sott'occhio il catalogo di una mostra di "Arte americana" tenuta nel (già) lontano 1992 al Lingotto di Torino. Ricordo perfettamente l'impressione provata durante quella visita. Accanto ad autori ed opere di pregio (tra gli altri, Ben Shahn, George Tooker, Andrew Wyeth) erano esposti un assembramento di tubi fluorescenti (titolo "Luce fluorescente bianca"), una serie di cassetti di rame appesi a una parete ("Untitled"), un cappello, la fotografia del cappello e la definizione stampata del cappello ("One and Three Hats"), tre fili di piombo in forma serpentina ("Lead Pipe") ecc.
Quello che, in quell'occasione, lasciava di stucco era proprio la disinvoltura con cui i curatori della mostra, accanto ad artisti "veri", esponessero lavori molto discutibili come quelli da me citati. Non parliamo poi di ciò che ci viene ammannito da un po' di tempo a questa parte alle Biennali veneziane... Con questo dove voglio arrivare? Voglio dire che la cosa veramente sconcertante è che oggi i nostri critici d'arte sembrano malati di schizofrenia quando, per esempio, vanno (e giustamente!) in brodo di giuggiole allorché parlano della mostra di un grande del passato (ricordo alcune mostre viste negli anni recenti, come una di Van Dick a Genova e una di Caravaggio a Firenze, entusiasticamente recensite da molti critici), ma poi elogiano anche (sia pure, talvolta, con reticenza) certe mostre di autori simili a quelli che avevano prodotto i tubi fluorescenti o i cassetti nella mostra americana.
C'è, insomma, qualche critico d'arte, oggi, da qualche parte, che abbia il coraggio di dire, davanti a certi prodotti che circolano ancora troppo numerosi nelle gallerie d'arte, Basta con queste imposture (o porcherie o pagliacciate) .
Per ora mi fermo qui, perché vorrei già sentire qualche parere riguardo a quanto ho detto finora. Mi piacerebbe ritrovare l'articolo di cui ho parlato all'inizio, quello del Falò per l'arte moderna, perché sarebbe sicuramente una buona base di partenza per avviare una discussione sullo stato (o, se preferite, sulla salute) dell'arte nei giorni nostri, ma purtroppo, benché sappia di averlo conservato da qualche parte, non mi ricordo più dove. Se lo troverò, lo pubblicherò senz'altro. Ma intanto, vorrei sentire qualcuno che dicesse la sua su questa questione.
Che cosa mi propongo con questo sfogo? Di lanciare una sorta di rappel à l'ordre, come quelli già visti in passato? Ebbene, credo che la mia intenzione sia proprio questa. Credo sia proprio arrivato il momento di tornare a dire che l'arte deve tornare ad essere una cosa seria e importante, una cosa sublime, come si diceva una volta, che faccia vibrare l'anima e i sensi, il cuore e la mente. C'è qualcuno che voglia raccogliere il mio appello?

Dionisio Di Francescantonio

Tratto da : ddf-dionisiodifrancescantonio.blogspot.com

Ras-Putin il fantasma bizantino

Si chiama Tichon Ševkunov, ufficialmente è l'archimandrita del monastero Sretenskij a Mosca, in realtà è il Rasputin di Putin. Che sia il suo confessore è un dato ufficioso, nessuno dei due lo ha mai confermato. Ma che tra loro ci sia un rapporto speciale è risaputo. E non si spiegano altrimenti la carriera e il peso di un giovane prete ortodosso che si era fatto notare la prima volta nel 2000 per una campagna contro i codici a barre, accusati di essere segni dell'Anticristo.
Ai tempi dei veri zar, per essere un Rasputin bisognava avere un'aria demoniaca. Oggi è meglio essere telegenici, sorridenti, con lunghi capelli chiari raccolti in un codino, come appunto Tichon Ševkunov. E avere studiato cinematografia, e girare un film come quello che da un mese e mezzo sta infiammando l'opinione pubblica e dividendo l'intelligencija russa su un argomento in apparenza inattuale: Bisanzio.
La distruzione dell'impero: una lezione bizantina, è il titolo del cortometraggio di 45 minuti in cui Ševkunov passa dalle cupole innevate di Mosca a quelle di Santa Sofia a Istanbul e di San Marco a Venezia. Qui, davanti al celebre tesoro che include il bottino della conquista crociata di Costantinopoli nel 1204, il regista-narratore lancia l'accusa centrale: fin dal protocapitalismo delle repubbliche mercantili il rapace Occidente ha dissanguato il millenario impero bizantino, custode dei valori dell'ortodossia e della tradizione antica. Ha arraffato e predato quel che poteva — «Guardate, guardate, qui tutto è bizantino», mostra Tichon alla cinepresa — per abbandonare poi Costantinopoli all'orda islamica del 1453.
L'equazione è chiara. Lo stesso accade oggi alla «Terza Roma», Mosca, erede dell'autocrazia bizantina fin da quando il matrimonio del Gran Principe Ivan III con l'ultima erede dei Paleologhi trasmise al nascente impero russo il Dna di Bisanzio. Ma è altrettanto «genetico», secondo il film, l'odio antibizantino degli occidentali. Se il primo errore di Bisanzio era stato fidarsi dell'Occidente — rappresentato da una figura incappucciata con una sinistra maschera veneziana dal naso adunco — lo stesso può accadere alla Russia di oggi, insidiata dallo «spirito giudaico dell'usura» che anima il demone del capitalismo americano. Bisanzio è caduta perché si è lasciata contagiare dalla modernizzazione importata dai mercanti genovesi e veneziani, infiltrare dal «satanico spirito del commercio» e del profitto. Oggi rischia lo stesso la Russia, minacciata dagli imprenditori americani e tradita dagli avidi oligarchi loro alleati.
«Lotta contro gli oligarchi» è chiamata senza mezzi termini la campagna vittoriosa di Basilio II contro i «ricchi e potenti» dell'impero. Per i suoi paralleli tra ora e allora Ševkunov usa le parole d'ordine della politica di Putin. E sono un calco dei capi d'accusa del processo contro Boris Berezovskij i giudizi che screditano la figura del «peggiore e più dannoso degli oligarchi bizantini», il quattrocentesco Bessarione. Perché i veri traditori dell'impero, quelli che lo consegnarono all'Occidente, si annidavano all'interno della classe dominante, esattamente come oggi in Russia. Solo dimostrando che neppure la ricchezza può proteggerli dalla prigione gli oligarchi possono essere domati e trasformati in apparatciki, come nell'XI secolo i «ricchi e potenti» dell'impero erano stati costretti nei ranghi della burocrazia di corte al servizio dell'autocrator.
Proprio il più autocratico degli zar moderni, Stalin, era del resto un cultore di bizantinistica, come il film di Ševkunov sottolinea. È a lui che gli studi bizantini devono il loro grande impulso nell'Unione Sovietica del dopoguerra: «Stalin sapeva da chi imparare». Come dimenticare in effetti il tristemente celebre interrogatorio cui Stalin, con al fianco Ždanov e Molotov, sottopose un altro regista, Sergej Ejzenštejn, autore di un altro film «bizantino» — come in quell'occasione lo definì Ždanov — che però faceva del passato un uso esattamente opposto? In quel «colloquio» del 1947 al Cremlino, la prima accusa mossa al terrorizzato regista era stata di non conoscere a sufficienza la storia bizantina.
Così, mentre Solženicyn è ormai uno sbiadito revenant che nessuno ascolta, è il fantasma di Stalin ad aggirarsi nell'immaginario dell'intelligencija, e nei talk show televisivi una vecchia leva di bizantinisti direttamente passati dalla fede nel partito a quella nella chiesa proclama apertamente: «L'Occidente è sempre stato contro Bisanzio così come è oggi contro la Russia». E mentre nelle librerie di Mosca e Pietroburgo i libri di storia bizantina vanno a ruba, l'antico antioccidentalismo dei grandi reazionari contagia in versione mediatica le masse.
«Il complesso di inferiorità verso l'Occidente è affiorato alla metà degli anni 90, si è alimentato della delusione per le riforme liberiste, è stato incrementato dalla crisi del ‘98, è culminato nel ‘99 con l'espansione della Nato nell'ex Jugoslavia», commenta il più eminente e indipendente tra i bizantinisti russi, Sergej Ivanov, cattedratico a Mosca. Un complesso riempito di contenuto politico dall'ideologia religiosa ortodossa. La sua reviviscenza è parallela al crescere degli integralismi nelle altre confessioni, ma l'ortodossia russa ha in più, a sorreggerla, una bimillenaria complicità con lo Stato, una vocazione nazionalista dai risvolti antisemiti, una capacità di manipolazione del passato in grado di abbattere, come nella Lezione bizantina di Ševkunov, la linea di confine con il presente. Il che può essere istruttivo, ma anche molto pericoloso.
(Fonte: La Stampa, 25/03/2008; Autore: Silvia Ronkey)

21/03/08

La Sindone. Una sfida alla scienza moderna

«Sfido chiunque a riprodurre l’immagine sindonica. Nessuno è in grado di farlo...». Il professor Giulio Fanti, docente di misure meccaniche e termiche all’università di Padova è convinto dell’inattendibilità della datazione al radiocarbonio effettuata nel 1988 sulla Sindone di Torino, il lenzuolo che secondo la tradizione avrebbe avvolto il corpo di Gesù nel sepolcro. E lo intende dimostrare, portando nuovi elementi sulla modalità in cui la misteriosa immagine si è formata, con il volume La Sindone. Una sfida alla scienza moderna (Aracne editrice, pp. 608, 42 euro) a giorni in libreria. Il Giornale l’ha intervistato, alla vigilia del documentario che la Bbc manderà in onda il Sabato santo. Nel filmato uno degli scienziati che fecero la datazione al carbonio 14 stabilendo che la Sindone risaliva al medioevo, Christopher Ramsey, ha sostenuto che quei risultati potrebbero essere messi in discussione dagli «effetti ambientali». Partiamo dalla datazione. Che cosa ha scoperto?«Non è una scoperta solo mia. Rifacendo i calcoli sulla base dei dati forniti dai tre laboratori che eseguirono l’esame al radiocarbonio nel 1988 ci si rende conto che è stato commesso un errore di calcolo. L’attendibilità della datazione medioevale è pari soltanto all’1,2 per cento. Cioè assolutamente inattendibile». Com’è potuto accadere un errore di questo genere? «Diversi studiosi hanno dimostrato già da tempo che i risultati della datazione, in base al test statistico cosiddetto di Pearson, hanno una probabilità superiore al 95 per cento di non corrispondere a quelli della Sindone. È stato inserito nella formula un numero sbagliato, che ha falsato il risultato finale, un 31 è stato sostituito con un 17. Questo farebbe pensare persino a una manomissione finalizzata a ottenere il risultato desiderato». È un’accusa grave... «I numeri sono numeri. E sono inattendibili. Queste confutazioni sono scritte da scienziati. Forse c’è una lobby che teme la verità su quei calcoli, teme di doversi rimangiare il risultato sulla Sindone di origine medioevale, quando tutto, invece, lascia pensare che sia molto più antica e che risalga al primo secolo».

(Fonte: Il Giornale del 19/03/2008; Autore. Andrea Tornelli)

20/03/08

Coena Domini

EuropaItalia in libreria


E' uscito il numero 5!
64 pagine a 4 colori, € 5,00

In Prima pagina:
Focus: Ultimi ma non ultimi: come cambia l'UE con l'ingresso di Romania e Bulgaria. Contro l'ideologia della paura.
Forum: Il Kosovo: noi l'avevamo detto... innescare una mina sotto le basi dell'Europa è operazione delinquenziale. Parlano imprenditori e religiosi.
Don Lorenzo Milani: Ci vorrebbero 20.000 san Marini... una testimonianza inedita sull'Europa: ne parla Alessandro Mazzerelli.
Come sta la Chiesa? Malissimo: intervista con S.E. Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino e Montefeltro.

Economia ed Impresa:
Lo spazio euromediterraneo. Dossier Tunisia.
Energia. Politiche e sfide nell'Unione Europea.
WTO: una reciprocità socialmente irresponsabile.

Dall'Europa:
Ecclesia Europa: Fede oltre la Cultura. Un rinnovato progetto cattolico per l'Europa. Una nuova pagina speciale a cura di S.E. Mons. Poul Poupard, Presidente Emerito del Pontificio Consiglio per la Cultura.
Europanorama:
Francesco M. Agnoli, Legge e potere nell'UE.
S.E. Anton Sbutega, Montenegro, cuore d'Europa.
On. Mario Mauro, Il Cristianesimo e il futuro dell'Unione Europea.
S.Em. A. Rouco Varela, Spagna: famiglie in piazza.
Otto von Habsburg: Da Putin a Madvedev.
Franco Cardini: Per il "Grande Mediterraneo".
Claudio Finzi: Scrittori d'Europa 3: Henri de Saint-Simon.
Ed altri articoli di Reinhard Kloucek, Samuele Zerbini, Matteo Piccin.

E infine... le Rubriche.
Anniversari d'Europa.
Arte.
Musica.
Eurogiovani.
Architettura.
Sport.

EUROPAITALIA è un mensile curato dall’Associazione Europa; esce in formato 20 x 28, in 64 pagine a 4 colori; il costo di copertina è di € 5,00; lo si può ricevere comodamente a casa propria: abbonamento annuale € 45,00; estero e sostenitore, € 100,00.
Redazione: Associazione Europa, Via Valle di Marco 3, 47890 San Marino Città. Telefono, 349/59.89.835; Fax 0549/99.55.76. E-mail info@europaitalia.eu
Per abbonarsi: conto corrente bancario n°3616, intestato ad "Associazione Europa, San Marino", presso ASSET Banca, filiale di Dogana, ABI 3262-3; CAB 9800-4.
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18/03/08

La tragedia del Tibet

Rilanciamo:

DIETRO LA TRAGEDIA TIBETANA VI E’ UN BEN PIU’ GROSSO PROBLEMA

Se si pensa che il problema tibetano sia l’unico – seppur grave – a fornire della Cina un’immagine non certo positiva, ci si sbaglia. Il vero problema cinese è infatti costituito dalla stessa struttura istituzionale di questo bizzarro regime, aperto ai capitali stranieri, ma tragicamente illiberale e retrogrado per quanto riguarda la concessione ai propri cittadini delle libertà più basilari: uno Stato (anzi, di una ‘teocrazia’ dell’ateismo) dove la nozione di ‘diritto’ non esiste affatto in quanto sacrificata sull’altare di una ‘fede’ materialista, quella marxista che condiziona e terrorizza l’esistenza di oltre un miliardo di persone. Che dire, ad esempio, dell’impossibilità da parte di un imputato di potersi difendere dignitosamente in un’aula di un tribunale, o all’esteso utilizzo della tortura come metodo utilizzato dalla polizia per estorcere confessioni, o alle durissime condanne (spesso capitali) inflitte in questi ultimi anni a migliaia di cittadini: lavoratori, intellettuali e sindacalisti accusati di “tradimento dello Stato” per il solo fatto di criticare il governo. Che dire della presenza nel Paese di un vasto ‘sistema di lager’ chiamato laogai dove ogni giorno muoiono di stenti centinaia di reclusi costretti a lavorare gratis per consentire alla macchina industriale capital-comunista di prosperare, e di inondare l’Occidente con prodotti fabbricati o riempiti con sostanze tossiche o componenti pericolosi (vernici al piombo o micro calamite vaganti ed altre gradevoli sorprese). E che dire, per rimanere in tema, al sistematico sfruttamento del lavoro minorile che avviene nelle fabbriche, al ricorso ai carcerati per confezionare prodotti da vendere a basso costo all’Occidente, all’utilizzo dei prigionieri politici nella sperimentazione di farmaci innovativi (e spesso mortali). Che dire della sterilizzazione o castrazione chimica forzata di milioni di individui o del ricorso per legge all’aborto, inteso dallo Stato ‘etico’ marxista quale strumento per impedire la nascita di esseri di sesso femminile considerati “socialmente inutili”. L’elencazione delle storture se non delle aberrazioni giuridiche e degli arbitrii potrebbe continuare, ma riteniamo sufficientemente esplicativo e sufficiente quanto sintetizzato, limitandoci a sottolineare che proprio in questi ultimi mesi da più parti, nel mondo, si sono levate numerosissime le proteste di associazioni laiche e religiose e di personaggi politici e pubblici che, proprio per dire basta a questo stato di cose, hanno avanzato – come abbiamo accennato - la proposta di boicottare i Giochi Olimpici di Pechino 2008 per costringere questa dittatura a cambiare politica: una soluzione estrema e clamorosa che, oltre ad irritare profondamente, come vedremo, l’alta nomenclatura della capitale, non gode però delle simpatie dei poteri forti dell’economia mondiale, dei molti Stati che, nonostante tutto, vorrebbero continuare a mantenere buone relazioni diplomatiche e soprattutto commerciali con la Cina che, come è noto, è un fresco membro del WTO (World Trade Organization - Organizzazione Mondiale del Commercio), e naturalmente del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale che, in nome della buonista “fratellanza sportiva” – intesa come panacea di tutti i mali - preferisce chiude un occhio, anzi due, di fronte al filo spinato dei laogai. Anche se – come ha riportato il giornalista Francesco Sisci (La Stampa, 14/2/2008) le dimissioni del regista americano Steven Spielberg da consulente per le Olimpiadi di Pechino rischiano di aprire una stagione di libera caccia contro i giochi di agosto”. A pochi mesi dal loro inizio, la Cina sta infatti perdendo la guerra di media, rischiando di compromettere quella che doveva essere l’occasione ideale per promuovere la propria immagine a livello planetario. Ma le dimissioni del celebre cineasta, motivate da “questioni di coscienza”, hanno aperto ufficialmente una crisi per molti versi annunciata. Spielberg naturalmente non rivestiva soltanto il ruolo di semplice seppur noto consulente artistico, ma anche quello di ‘parafulmine’ contro gli strali dei molti intellettuali e personaggi dello spettacolo occidentali avversi ai Giochi: schiera che vanta nomi molto popolari, come George Clooney e Mia Farrow, da tempo impegnati nella causa a favore del Darfur o Richard Gere, accanito sostenitore della causa tibetana che, proprio in questi ultimi mesi, a partire dalla metà di marzo, in seguito ai moti di rivolta dei bonzi e alla dura repressione cinese che ha portato all’uccisione di oltre 300 manifestanti e all’arresto di altre diverse migliaia, è ritornata al centro del dibattito internazionale.
“A pochi mesi dalle Olimpiadi di Pechino – ha annotato con preoccupazione Bernardo Cervellera in un suo articolo comparso lo scorso 16 marzo sul Sito Asia News - il governo cinese in allerta sopprime con carri armati e soldati le richieste disperate dei giovani tibetani. La Cina raccoglie quello che ha seminato: in quasi 50 anni, non ha mai dato alcuna speranza a questa popolazione, intensificando, al contrario, su di essa un ferreo controllo e il genocidio. Dieci morti e carri armati a Lhasa sono la risposta cinese al cosiddetto “terrorismo” dei monaci tibetani. A quasi 50 anni dalla rivolta repressa nel sangue da regime di Pechino , che ha portato all’esilio il Dalai Lama e decine di migliaia di tibetani, una nuova fiammata rischia di far divampare un violento ed inarrestabile incendio. Il tutto a pochi mesi dalle Olimpiadi, che Pechino sbandiera come i Giochi della pace e della fraternità universale. Sono proprio le Olimpiadi ad aver acceso la scintilla della rivolta. Atleti tibetani hanno chiesto di partecipare alle Olimpiadi sotto la bandiera del Tibet, ma il governo cinese si è opposto. Per le cerimonie d’inizio e fine dei Giochi sono previste performance di danzatori tibetani sorridenti sotto la bandiera cinese, mentre a Lhasa e nel Tibet la popolazione rischia il genocidio. Un genocidio anzitutto economico: le alte terre himalayane, ricche di minerali (rame, uranio e alluminio), sono saccheggiate dai cinesi, mentre alla popolazione locale non resta che l’abbandono dei pascoli e il lavoro nelle fabbriche di Pechino. Il turismo, con il suo strascico di alberghi, karaoke, prostituzione, è tutto in mano ai coloni cinesi. La Cina ha abolito l’insegnamento della religione e della lingua tibetane ed esercita un ferreo controllo sui monasteri, grazie allo spiegamento di oltre 100 mila soldati (…) La mancanza di segni di speranza potrebbe indurre i tibetani a gesti disperati. Temiamo che la situazione a Lhasa diventi sempre più incandescente o spinga la Cina a soluzioni estreme, con la scusa di combattere “il terrorismo separatista”. Per la Cina è il momento della verità: dopo essersi preparata a diventare un Paese moderno per le Olimpiadi, deve mostrare di essere tale anche nel risolvere crisi sociali e di libertà. L’apertura di un dialogo col Dalai Lama sarebbe il passo da fare. Sembra quasi una nemesi storica che a decidere questo debba essere il presidente Hu Jintao.Nel marzo del 1989 vi è stata un’ennesima rivolta in Tibet, conclusa con un massacro (ignorato dai media occidentali) e con la legge marziale, decretata proprio da Hu Jintao, a quel tempo segretario del Partito a Lhasa. E pochi mesi dopo vi fu anche lo scempio di Piazza Tiananmen. Tuttavia, dopo quasi 20 anni Hu Jintao si trova davanti agi stessi problemi. La repressione non ha risolto (e non risulverà) nulla. E’ infatti tempo per un altro tipo di soluzione”.

(Autore: Dott. Alberto Rosselli; Fonte: Alberto Rosselli)

14/03/08

È morta Chiara Lubich

In un clima sereno, di preghiera e di intensa commozione, Chiara Lubich ha concluso a 88 anni il suo viaggio terreno questa notte, 14 marzo 2008, alle ore 2 nella sua abitazione di Rocca di Papa (Roma)». Con queste parole, una nota ufficiale del Movimento dei Focolari ha annunciato la morte della sua fondatrice, Chiara Lubich,nella nottata di giovedì 13 marzo, dopo un ricovero di un mese al Policlinico Gemelli, per una insufficienza respiratoria grave. La Lubich era rientrata per sua espressa volontà nella sua abitazione a Rocca di Papa (Roma) che si trova accanto al Centro internazionale dell’Opera di Maria. Per tutta la giornata, ieri, centinaia di persone – parenti, stretti collaboratori e suoi figli spirituali – sono passati nella sua stanza, per rivolgerle l’ultimo saluto, e poi fermarsi in raccoglimento nell’attigua cappella, sostando poi a lungo attorno alla casa in preghiera. Una ininterrotta e spontanea processione. A taluni Chiara ha potuto anche fare cenni d’intesa, nonostante l’estrema debolezza. Al suo fianco le prime compagne - Eli Folonari che l’ha seguita da vicino, Dori Zamboni, Aletta Salizzoni, Silvana Veronesi, Graziella De Luca, Gis Calliari e Bruna Tomasi – che insieme a lei hanno fondato il Movimento dei Focolari. In queste ore continuano a giungere dal mondo intero messaggi di partecipazione e di condivisione da parte di leader religiosi, politici, accademici e civili, e da tanta gente del “suo” popolo.

12/03/08

Il Natale del Piccolo Principe

«Il racconto che egli scrive è un mosaico, un puzzle, una riserva che egli ha tenuto segreta e che, di colpo, in quest’estate 1942, estate di tutte le sciagure per il suo Paese, si rivela e porta interamente a compimento la sua vita di scrittore». Del Piccolo Principe, il capolavoro di Antoine de Saint-Exupéry tradotto in tutte le lingue, molto è stato già scritto.
Ma la genesi dell’opera evergreen per eccellenza, che continua ad affascinare generazioni di ragazzi ed adulti, è rimasta sempre costellata di misteri. Al punto che dietro le celebri figure allegoriche del racconto filosofico-morale, il gioco delle interpretazioni ha preso direzioni molto divergenti.
Probabilmente, nessuno riuscirà mai a trovare la chiave definitiva del capolavoro. Ma il noto saggista francese Alain Vircondelet ha recentemente potuto accedere, più di ogni altro studioso in passato, a ciò che resta degli anni dell’esilio newyorkese di Saint­Exupéry, durante il quale il Piccolo Principe venne scritto. L’avvocato testamentario di Consuelo de Saint-Exupéry, moglie, musa e prima erede di Antoine, ha infatti messo a disposizione del saggista un «tesoro» di lettere e altri documenti finora rimasti inediti: una somma di nuovi indizi divenuta il punto di partenza di La véritable histoire du Petit Prince («L’autentica storia del Piccolo Principe»), appena edito da Flammarion. Lo scopo dichiarato di Vircondelet è di scrostare la patina di mito che circonda da decenni la figura di Saint-Exupéry, cercando di restituire il più possibile le contraddizioni e le intime tensioni di una personalità tutt’altro che semplice. Anzi, una figura eminentemente pirandelliana, a giudicare dalle diverse identità sovrapposte che emergono dai documenti citati nel saggio. Nell’estate del 1942, a dare l’abbrivio al progetto di un «racconto per l’infanzia» fu una proposta di Eugène Reynal, l’editore negli Stati Uniti di Saint­Exupéry. Quest’ultimo, già celebre, vive nondimeno l’esilio newyorkese con profonda afflizione. A livello affettivo, il rapporto coniugale con Consuelo è una vorticosa altalena di passione amorosa e frustrazioni.
Inoltre, la Francia è occupata e Saint-Exupéry è perennemente assalito dai sensi di colpa per la propria «inattività». Al contempo gli eventi bellici, così come lo stesso ritmo da formicaio della vita newyorkese, ispirano continuamente allo scrittore il senso profondo di una perdita generale di autenticità e spiritualità. Nel tentativo di lasciarsi alle spalle questo cocktail fatale di sentimenti, secondo Vircondelet, Saint-Exupéry abbraccerà giorno dopo giorno con crescente fiducia ed entusiasmo l’occasione che gli è stata offerta di abbandonare il registro delle proprie opere precedenti, legate in gran parte ai ricordi dell’avventurosa giovinezza come pilota in America latina. In pochi mesi, saranno le certezze emotive legate al riavvicinamento con la moglie e la forza generata da una nuova intensa «stagione interiore» all’insegna del sentimento religioso a permettere allo scrittore di raggiungere i vertici di purezza del Piccolo Principe. Dai carteggi di quelle settimane febbrili, emerge quanto Saint­Exupéry sia stato intimamente incoraggiato dalla promessa da parte dell’editore di un’apparizione del racconto nel periodo natalizio: «L’opera intera si apre una via verso Betlemme e verso la sua speranza. Far concordare Il Piccolo Principe con Natale è per lui una sfida spirituale», scrive Vircondelet. Una volta completato il capolavoro di una vita, l’imperativo patriottico finisce per prevalere. Ma il celebrato scrittore-pilota che attraversa nel 1943 di nuovo l’Atlantico per servire la causa dell’agognata liberazione della Francia pare un uomo ormai distante anni luce dall’esule frustrato che aveva lasciato l’Europa solo qualche anno prima: «Una religiosità notturna lo abita, ma non si tratta più del cattolicesimo della sua infanzia, popolato di cerimonie gaie e in famiglia, di processioni e di ore squisite presso il padre abate catechista. Egli porta su di sé un’immagine devozionale di Teresa di Lisieux, che conobbe anch’ella la notte oscura, il dubbio, la sofferenza». Più lontana ed alta ancora dell’asteroide B 612 pare dunque l’origine del più grande «piccolo eroe» del Novecento.
Lo scrittore-pilota fu trasformato dal libro: «Una fede notturna lo abita e va in guerra portando su di sé un’immaginetta di santa Teresina»

(Autore: Daniele Zappalà; Fonte: Avvenire del 11/03/2008)

Jünger nazista o nascosto nemico di Hitler?

Può un ufficiale tedesco, capitano della Wehrmacht durante l’ultima guerra, essere anti-nazista? È il dubbio sorto nel mondo culturale francese dopo l’uscita oltralpe dei «Giornali di guerra» di Ernst Jünger, lo scrittore tedesco che nel 1941 fu tra le truppe occupanti Parigi e che pure da quelle pagine esce – oltre che da grande scrittore – anche da avversario di Hitler e contrario all’antisemitismo. «Sono ripugnanti. Ho già cancellato la parola 'tedesco' da tutte le mie opere per non dover condividere nulla con loro»: così annota Jünger, che dovette subire varie perquisizioni della Gestapo.
«Nonostante l’innegabile influsso dei suoi scritti precedenti su certi membri dell’intelligentzia nazista – ha scritto Hannah Arendt – Jünger fu un anti-nazista attivo»; anche a lui infatti si deve la mancata esecuzione dell’ordine del Fuehrer di bruciare Parigi.

10/03/08

Apocalisse 2012. Un'indagine scientifica sulla fine della civiltà

Il libro in esame ha la struttura di un'inchiesta giudiziaria basata sui seguenti indizi. Ci sono fondati elementi (fondati secondo l'autore) per ritenere che il mondo come lo conosciamo oggi sia destinato a sparire in una data precisa: il 21/12/2012. Forse non un Armageddon, concede Joseph, forse un risveglio collettivo. Sia quel che sia, gli elementi che sosterrebbero questa profezia sono l'astrologia maya, l'I Ching e la teologia induista, l'attività anomala delle macchie solari responsabili anche di recenti catastrofi come gli uragani nel sudest asiatico e negli Stati Uniti, la mutazione del campo magnetico terrestre e il lento spostamento dei poli, una destabilizzazione energetica nel nostro sistema solare. Più altri fattori. Ad esempio: alcuni geofisici russi pensano che l'intero sistema solare sia entrato in una nube energetica che sta contemporaneamente alimentando e destabilizzando il sole. La Terra potrebbe entrare nella nube tra il 2010 e il 2020. Gli stessi scienziati che hanno fissato l'estinzione del settanta per cento delle specie viventi sessantacinque milioni di anni fa, calcolano che una seconda analoga catastrofe sia già 'in ritardo' di un milione di anni. Infine c'è il supervulcano di Yellowstone, inattivo da migliaia di anni e che sarebbe sul punto di eruttare. Insomma, un libro da "catastrofisti" ma non privo di elementi interessanti e validi. Da leggere.

06/03/08

A Torino una scuola di "Alta Formazione Filosofica"

La Scuola di Alta Formazione Filosofica nasce a Torino nel 2006 come luogo d’incontro tra giovani ricercatori italiani e stranieri chiamati a confrontarsi, all’interno di cicli di lezioni e discussioni seminariali, con una o più personalità filosofiche riconosciute a livello internazionale. Per i giovani studiosi, selezionati tramite bando pubblico, ogni ciclo prevede cinque giornate seminariali intensive, di cinque ore ciascuna, a diretto contatto con il filosofo invitato di volta in volta. Ai filosofi ospiti viene richiesta un’auto-presentazione critica, un bilancio del proprio percorso intellettuale o, nel caso di seminari a più voci, la focalizzazione di un tema e l’animazione di un dibattito stringente intorno ad esso. I seminari, coordinati dal direttore del ciclo e da uno o più tutor, sono caratterizzati da uno stile familiare e comunitario di lavoro e confronto. Attraverso la pluralità di prospettive dei filosofi invitati – finora Jean-Luc Marion, Dieter Henrich e Charles Larmore – la Scuola intende mostrare, al di là di tecnicismi e unilateralità, la ricchezza e la complessità degli studi filosofici attenti al confronto con la contemporaneità. Particolare attenzione è rivolta alla dimensione teorica della filosofia quale sapere costruttivo e creativo capace di elaborare e mettere alla prova idee di unificazione del sapere. L’attività della Scuola di Alta Formazione Filosofica è arricchita da una lezione pubblica, intesa come momento di apertura alla polis e di dialogo con la cultura, per la quale i filosofi ospiti propongono un testo specifico. Fondata e diretta da Ugo Perone – ordinario di Filosofia Morale e direttore del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale –, la Scuola di Alta Formazione Filosofica è organizzata dal Centro Studi Filosofico-religiosi “Luigi Pareyson” con il sostegno della Compagnia di San Paolo, la collaborazione della Società Filosofica Italiana, il patrocinio della Regione Piemonte e della Città di Torino.

(Fonte:http://sdaff.it/)

05/03/08

Bontadini e la metafisica

Gustavo Bontadini (1903-1990) è uno dei grandi nomi della filosofia italiana del secondo Novecento. Molti protagonisti dell'attuale dibattito filosofico sono stati alla sua Scuola. Basti citare il nome di Emanuele Severino. Questo libro è uno studio sulla figura di Bontadini e nel contempo una coraggiosa "messa alla prova" della sua eredità speculativa. Qui si confrontano in modo appassionato ben tre generazioni di studiosi, in gran parte suoi allievi. Il pensiero bontadiniano è scrutato in profondità e anche discusso con grande e affettuosa libertà di spirito. A tema è soprattutto l'ontologia metafisica del Maestro e l'esplorazione storiografica preparatoria. Ma anche la sua formazione giovanile viene scandagliata con ricchezza di particolari. Perché Bontadini è uno di quei pensatori che vengono da lontano: è nato all'interno di una grande Scuola e ha fatto a sua volta Scuola come pochi altri in Italia e altrove. Chi legge questo libro, poi, ha in mano uno spaccato della filosofia italiana del Novecento. Non un resoconto di superficie, ma una indagine di struttura, simile a quella che Bontadini aveva tante volte coltivato in vita sua: per far vedere come la metafisica rappresenti non solo il luogo dell'antica verità, ma anche il luogo del riscatto dialettico della modernità.

(Bontadini e la metafisica, Ed. Vita e Pensiero, pp. 500, 2008)

03/03/08

Pio XII e il "miracolo del Sole"

«Ho visto» il miracolo del sole, «questa è la pura verità». Nel 1950, poco prima di proclamare il dogma dell’Assunta, Pio XII mentre passeggiava nei giardini vaticani assistette più volte allo stesso fenomeno verificatosi nel 1917 al termine delle apparizioni di Fatima e lo considerò una conferma celeste di quanto stava per compiere. Una circostanza fino ad oggi nota solo grazie alla testimonianza indiretta del cardinale Federico Tedeschini che ne parlò durante un’omelia. Ora dall’Archivio privato Pacelli, conservato dalla famiglia del Pontefice, riemerge un documento eccezionale e inedito su quella visione: un appunto manoscritto dello stesso Pio XII, vergato a matita sul retro di un foglio nell’ultimo periodo della sua vita, nel quale in prima persona il Papa racconta ciò che gli è accaduto. L’appunto sarà esposto il prossimo novembre nella mostra vaticana dedicata a Papa Pacelli nel cinquantesimo della morte. Il resoconto è asciutto, quasi notarile, senza alcun cedimento al sensazionalismo.
"Era il 30 ottobre 1950», antivigilia del giorno della solenne definizione dell’assunzione, spiega Pio XII. Il Papa stava dunque per proclamare dogma di fede l’assunzione corporea in cielo della Madonna al momento della morte, e lo faceva dopo aver consultato l’episcopato mondiale, unanimemente concorde: soltanto sei risposte su 1.181 manifestavano qualche riserva. Verso le quattro di quel pomeriggio faceva «la consueta passeggiata nei giardini vaticani, leggendo e studiando». Pacelli ricorda che, mentre saliva dal piazzale della Madonna di Lourdes «verso la sommità della collina, nel viale di destra che costeggia il muraglione di cinta», sollevò gli occhi dai fogli. «Fui colpito da un fenomeno, mai fino allora da me veduto. Il sole, che era ancora abbastanza alto, appariva come un globo opaco giallognolo, circondato tutto intorno da un cerchio luminoso», che però non impediva in alcun modo di fissare lo sguardo «senza riceverne la minima molestia. Una leggerissima nuvoletta trovavasi davanti». «Il globo opaco - continua Pio XII nell’appunto inedito - si muoveva all’esterno leggermente, sia girando, sia spostandosi da sinistra a destra e viceversa. Ma nell'interno del globo si vedevano con tutta chiarezza e senza interruzione fortissimi movimenti». Il Papa attesta di aver assistito allo stesso fenomeno il giorno seguente, 31 ottobre, e il 1° novembre, giorno della definizione del dogma dell’Assunta, quindi di nuovo l’8 novembre. Poi non più». Ricorda pure di aver cercato «varie volte» negli altri giorni, alla stessa ora e in condizioni atmosferiche simili, «di guardare il sole per vedere se appariva il medesimo fenomeno, ma invano; non potei fissare nemmeno per un istante, rimaneva subito la vista abbagliata».

(Autore: Andrea Tornelli; Fonte: Il Giornale, 03/03/2008)