DIETRO LA TRAGEDIA TIBETANA VI E’ UN BEN PIU’ GROSSO PROBLEMA
Se si pensa che il problema tibetano sia l’unico – seppur grave – a fornire della Cina un’immagine non certo positiva, ci si sbaglia. Il vero problema cinese è infatti costituito dalla stessa struttura istituzionale di questo bizzarro regime, aperto ai capitali stranieri, ma tragicamente illiberale e retrogrado per quanto riguarda la concessione ai propri cittadini delle libertà più basilari: uno Stato (anzi, di una ‘teocrazia’ dell’ateismo) dove la nozione di ‘diritto’ non esiste affatto in quanto sacrificata sull’altare di una ‘fede’ materialista, quella marxista che condiziona e terrorizza l’esistenza di oltre un miliardo di persone. Che dire, ad esempio, dell’impossibilità da parte di un imputato di potersi difendere dignitosamente in un’aula di un tribunale, o all’esteso utilizzo della tortura come metodo utilizzato dalla polizia per estorcere confessioni, o alle durissime condanne (spesso capitali) inflitte in questi ultimi anni a migliaia di cittadini: lavoratori, intellettuali e sindacalisti accusati di “tradimento dello Stato” per il solo fatto di criticare il governo. Che dire della presenza nel Paese di un vasto ‘sistema di lager’ chiamato laogai dove ogni giorno muoiono di stenti centinaia di reclusi costretti a lavorare gratis per consentire alla macchina industriale capital-comunista di prosperare, e di inondare l’Occidente con prodotti fabbricati o riempiti con sostanze tossiche o componenti pericolosi (vernici al piombo o micro calamite vaganti ed altre gradevoli sorprese). E che dire, per rimanere in tema, al sistematico sfruttamento del lavoro minorile che avviene nelle fabbriche, al ricorso ai carcerati per confezionare prodotti da vendere a basso costo all’Occidente, all’utilizzo dei prigionieri politici nella sperimentazione di farmaci innovativi (e spesso mortali). Che dire della sterilizzazione o castrazione chimica forzata di milioni di individui o del ricorso per legge all’aborto, inteso dallo Stato ‘etico’ marxista quale strumento per impedire la nascita di esseri di sesso femminile considerati “socialmente inutili”. L’elencazione delle storture se non delle aberrazioni giuridiche e degli arbitrii potrebbe continuare, ma riteniamo sufficientemente esplicativo e sufficiente quanto sintetizzato, limitandoci a sottolineare che proprio in questi ultimi mesi da più parti, nel mondo, si sono levate numerosissime le proteste di associazioni laiche e religiose e di personaggi politici e pubblici che, proprio per dire basta a questo stato di cose, hanno avanzato – come abbiamo accennato - la proposta di boicottare i Giochi Olimpici di Pechino 2008 per costringere questa dittatura a cambiare politica: una soluzione estrema e clamorosa che, oltre ad irritare profondamente, come vedremo, l’alta nomenclatura della capitale, non gode però delle simpatie dei poteri forti dell’economia mondiale, dei molti Stati che, nonostante tutto, vorrebbero continuare a mantenere buone relazioni diplomatiche e soprattutto commerciali con la Cina che, come è noto, è un fresco membro del WTO (World Trade Organization - Organizzazione Mondiale del Commercio), e naturalmente del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale che, in nome della buonista “fratellanza sportiva” – intesa come panacea di tutti i mali - preferisce chiude un occhio, anzi due, di fronte al filo spinato dei laogai. Anche se – come ha riportato il giornalista Francesco Sisci (La Stampa, 14/2/2008) le dimissioni del regista americano Steven Spielberg da consulente per le Olimpiadi di Pechino rischiano di aprire una stagione di libera caccia contro i giochi di agosto”. A pochi mesi dal loro inizio, la Cina sta infatti perdendo la guerra di media, rischiando di compromettere quella che doveva essere l’occasione ideale per promuovere la propria immagine a livello planetario. Ma le dimissioni del celebre cineasta, motivate da “questioni di coscienza”, hanno aperto ufficialmente una crisi per molti versi annunciata. Spielberg naturalmente non rivestiva soltanto il ruolo di semplice seppur noto consulente artistico, ma anche quello di ‘parafulmine’ contro gli strali dei molti intellettuali e personaggi dello spettacolo occidentali avversi ai Giochi: schiera che vanta nomi molto popolari, come George Clooney e Mia Farrow, da tempo impegnati nella causa a favore del Darfur o Richard Gere, accanito sostenitore della causa tibetana che, proprio in questi ultimi mesi, a partire dalla metà di marzo, in seguito ai moti di rivolta dei bonzi e alla dura repressione cinese che ha portato all’uccisione di oltre 300 manifestanti e all’arresto di altre diverse migliaia, è ritornata al centro del dibattito internazionale.
“A pochi mesi dalle Olimpiadi di Pechino – ha annotato con preoccupazione Bernardo Cervellera in un suo articolo comparso lo scorso 16 marzo sul Sito Asia News - il governo cinese in allerta sopprime con carri armati e soldati le richieste disperate dei giovani tibetani. La Cina raccoglie quello che ha seminato: in quasi 50 anni, non ha mai dato alcuna speranza a questa popolazione, intensificando, al contrario, su di essa un ferreo controllo e il genocidio. Dieci morti e carri armati a Lhasa sono la risposta cinese al cosiddetto “terrorismo” dei monaci tibetani. A quasi 50 anni dalla rivolta repressa nel sangue da regime di Pechino , che ha portato all’esilio il Dalai Lama e decine di migliaia di tibetani, una nuova fiammata rischia di far divampare un violento ed inarrestabile incendio. Il tutto a pochi mesi dalle Olimpiadi, che Pechino sbandiera come i Giochi della pace e della fraternità universale. Sono proprio le Olimpiadi ad aver acceso la scintilla della rivolta. Atleti tibetani hanno chiesto di partecipare alle Olimpiadi sotto la bandiera del Tibet, ma il governo cinese si è opposto. Per le cerimonie d’inizio e fine dei Giochi sono previste performance di danzatori tibetani sorridenti sotto la bandiera cinese, mentre a Lhasa e nel Tibet la popolazione rischia il genocidio. Un genocidio anzitutto economico: le alte terre himalayane, ricche di minerali (rame, uranio e alluminio), sono saccheggiate dai cinesi, mentre alla popolazione locale non resta che l’abbandono dei pascoli e il lavoro nelle fabbriche di Pechino. Il turismo, con il suo strascico di alberghi, karaoke, prostituzione, è tutto in mano ai coloni cinesi. La Cina ha abolito l’insegnamento della religione e della lingua tibetane ed esercita un ferreo controllo sui monasteri, grazie allo spiegamento di oltre 100 mila soldati (…) La mancanza di segni di speranza potrebbe indurre i tibetani a gesti disperati. Temiamo che la situazione a Lhasa diventi sempre più incandescente o spinga la Cina a soluzioni estreme, con la scusa di combattere “il terrorismo separatista”. Per la Cina è il momento della verità: dopo essersi preparata a diventare un Paese moderno per le Olimpiadi, deve mostrare di essere tale anche nel risolvere crisi sociali e di libertà. L’apertura di un dialogo col Dalai Lama sarebbe il passo da fare. Sembra quasi una nemesi storica che a decidere questo debba essere il presidente Hu Jintao.Nel marzo del 1989 vi è stata un’ennesima rivolta in Tibet, conclusa con un massacro (ignorato dai media occidentali) e con la legge marziale, decretata proprio da Hu Jintao, a quel tempo segretario del Partito a Lhasa. E pochi mesi dopo vi fu anche lo scempio di Piazza Tiananmen. Tuttavia, dopo quasi 20 anni Hu Jintao si trova davanti agi stessi problemi. La repressione non ha risolto (e non risulverà) nulla. E’ infatti tempo per un altro tipo di soluzione”.
“A pochi mesi dalle Olimpiadi di Pechino – ha annotato con preoccupazione Bernardo Cervellera in un suo articolo comparso lo scorso 16 marzo sul Sito Asia News - il governo cinese in allerta sopprime con carri armati e soldati le richieste disperate dei giovani tibetani. La Cina raccoglie quello che ha seminato: in quasi 50 anni, non ha mai dato alcuna speranza a questa popolazione, intensificando, al contrario, su di essa un ferreo controllo e il genocidio. Dieci morti e carri armati a Lhasa sono la risposta cinese al cosiddetto “terrorismo” dei monaci tibetani. A quasi 50 anni dalla rivolta repressa nel sangue da regime di Pechino , che ha portato all’esilio il Dalai Lama e decine di migliaia di tibetani, una nuova fiammata rischia di far divampare un violento ed inarrestabile incendio. Il tutto a pochi mesi dalle Olimpiadi, che Pechino sbandiera come i Giochi della pace e della fraternità universale. Sono proprio le Olimpiadi ad aver acceso la scintilla della rivolta. Atleti tibetani hanno chiesto di partecipare alle Olimpiadi sotto la bandiera del Tibet, ma il governo cinese si è opposto. Per le cerimonie d’inizio e fine dei Giochi sono previste performance di danzatori tibetani sorridenti sotto la bandiera cinese, mentre a Lhasa e nel Tibet la popolazione rischia il genocidio. Un genocidio anzitutto economico: le alte terre himalayane, ricche di minerali (rame, uranio e alluminio), sono saccheggiate dai cinesi, mentre alla popolazione locale non resta che l’abbandono dei pascoli e il lavoro nelle fabbriche di Pechino. Il turismo, con il suo strascico di alberghi, karaoke, prostituzione, è tutto in mano ai coloni cinesi. La Cina ha abolito l’insegnamento della religione e della lingua tibetane ed esercita un ferreo controllo sui monasteri, grazie allo spiegamento di oltre 100 mila soldati (…) La mancanza di segni di speranza potrebbe indurre i tibetani a gesti disperati. Temiamo che la situazione a Lhasa diventi sempre più incandescente o spinga la Cina a soluzioni estreme, con la scusa di combattere “il terrorismo separatista”. Per la Cina è il momento della verità: dopo essersi preparata a diventare un Paese moderno per le Olimpiadi, deve mostrare di essere tale anche nel risolvere crisi sociali e di libertà. L’apertura di un dialogo col Dalai Lama sarebbe il passo da fare. Sembra quasi una nemesi storica che a decidere questo debba essere il presidente Hu Jintao.Nel marzo del 1989 vi è stata un’ennesima rivolta in Tibet, conclusa con un massacro (ignorato dai media occidentali) e con la legge marziale, decretata proprio da Hu Jintao, a quel tempo segretario del Partito a Lhasa. E pochi mesi dopo vi fu anche lo scempio di Piazza Tiananmen. Tuttavia, dopo quasi 20 anni Hu Jintao si trova davanti agi stessi problemi. La repressione non ha risolto (e non risulverà) nulla. E’ infatti tempo per un altro tipo di soluzione”.
(Autore: Dott. Alberto Rosselli; Fonte: Alberto Rosselli)
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