25/03/08

Ras-Putin il fantasma bizantino

Si chiama Tichon Ševkunov, ufficialmente è l'archimandrita del monastero Sretenskij a Mosca, in realtà è il Rasputin di Putin. Che sia il suo confessore è un dato ufficioso, nessuno dei due lo ha mai confermato. Ma che tra loro ci sia un rapporto speciale è risaputo. E non si spiegano altrimenti la carriera e il peso di un giovane prete ortodosso che si era fatto notare la prima volta nel 2000 per una campagna contro i codici a barre, accusati di essere segni dell'Anticristo.
Ai tempi dei veri zar, per essere un Rasputin bisognava avere un'aria demoniaca. Oggi è meglio essere telegenici, sorridenti, con lunghi capelli chiari raccolti in un codino, come appunto Tichon Ševkunov. E avere studiato cinematografia, e girare un film come quello che da un mese e mezzo sta infiammando l'opinione pubblica e dividendo l'intelligencija russa su un argomento in apparenza inattuale: Bisanzio.
La distruzione dell'impero: una lezione bizantina, è il titolo del cortometraggio di 45 minuti in cui Ševkunov passa dalle cupole innevate di Mosca a quelle di Santa Sofia a Istanbul e di San Marco a Venezia. Qui, davanti al celebre tesoro che include il bottino della conquista crociata di Costantinopoli nel 1204, il regista-narratore lancia l'accusa centrale: fin dal protocapitalismo delle repubbliche mercantili il rapace Occidente ha dissanguato il millenario impero bizantino, custode dei valori dell'ortodossia e della tradizione antica. Ha arraffato e predato quel che poteva — «Guardate, guardate, qui tutto è bizantino», mostra Tichon alla cinepresa — per abbandonare poi Costantinopoli all'orda islamica del 1453.
L'equazione è chiara. Lo stesso accade oggi alla «Terza Roma», Mosca, erede dell'autocrazia bizantina fin da quando il matrimonio del Gran Principe Ivan III con l'ultima erede dei Paleologhi trasmise al nascente impero russo il Dna di Bisanzio. Ma è altrettanto «genetico», secondo il film, l'odio antibizantino degli occidentali. Se il primo errore di Bisanzio era stato fidarsi dell'Occidente — rappresentato da una figura incappucciata con una sinistra maschera veneziana dal naso adunco — lo stesso può accadere alla Russia di oggi, insidiata dallo «spirito giudaico dell'usura» che anima il demone del capitalismo americano. Bisanzio è caduta perché si è lasciata contagiare dalla modernizzazione importata dai mercanti genovesi e veneziani, infiltrare dal «satanico spirito del commercio» e del profitto. Oggi rischia lo stesso la Russia, minacciata dagli imprenditori americani e tradita dagli avidi oligarchi loro alleati.
«Lotta contro gli oligarchi» è chiamata senza mezzi termini la campagna vittoriosa di Basilio II contro i «ricchi e potenti» dell'impero. Per i suoi paralleli tra ora e allora Ševkunov usa le parole d'ordine della politica di Putin. E sono un calco dei capi d'accusa del processo contro Boris Berezovskij i giudizi che screditano la figura del «peggiore e più dannoso degli oligarchi bizantini», il quattrocentesco Bessarione. Perché i veri traditori dell'impero, quelli che lo consegnarono all'Occidente, si annidavano all'interno della classe dominante, esattamente come oggi in Russia. Solo dimostrando che neppure la ricchezza può proteggerli dalla prigione gli oligarchi possono essere domati e trasformati in apparatciki, come nell'XI secolo i «ricchi e potenti» dell'impero erano stati costretti nei ranghi della burocrazia di corte al servizio dell'autocrator.
Proprio il più autocratico degli zar moderni, Stalin, era del resto un cultore di bizantinistica, come il film di Ševkunov sottolinea. È a lui che gli studi bizantini devono il loro grande impulso nell'Unione Sovietica del dopoguerra: «Stalin sapeva da chi imparare». Come dimenticare in effetti il tristemente celebre interrogatorio cui Stalin, con al fianco Ždanov e Molotov, sottopose un altro regista, Sergej Ejzenštejn, autore di un altro film «bizantino» — come in quell'occasione lo definì Ždanov — che però faceva del passato un uso esattamente opposto? In quel «colloquio» del 1947 al Cremlino, la prima accusa mossa al terrorizzato regista era stata di non conoscere a sufficienza la storia bizantina.
Così, mentre Solženicyn è ormai uno sbiadito revenant che nessuno ascolta, è il fantasma di Stalin ad aggirarsi nell'immaginario dell'intelligencija, e nei talk show televisivi una vecchia leva di bizantinisti direttamente passati dalla fede nel partito a quella nella chiesa proclama apertamente: «L'Occidente è sempre stato contro Bisanzio così come è oggi contro la Russia». E mentre nelle librerie di Mosca e Pietroburgo i libri di storia bizantina vanno a ruba, l'antico antioccidentalismo dei grandi reazionari contagia in versione mediatica le masse.
«Il complesso di inferiorità verso l'Occidente è affiorato alla metà degli anni 90, si è alimentato della delusione per le riforme liberiste, è stato incrementato dalla crisi del ‘98, è culminato nel ‘99 con l'espansione della Nato nell'ex Jugoslavia», commenta il più eminente e indipendente tra i bizantinisti russi, Sergej Ivanov, cattedratico a Mosca. Un complesso riempito di contenuto politico dall'ideologia religiosa ortodossa. La sua reviviscenza è parallela al crescere degli integralismi nelle altre confessioni, ma l'ortodossia russa ha in più, a sorreggerla, una bimillenaria complicità con lo Stato, una vocazione nazionalista dai risvolti antisemiti, una capacità di manipolazione del passato in grado di abbattere, come nella Lezione bizantina di Ševkunov, la linea di confine con il presente. Il che può essere istruttivo, ma anche molto pericoloso.
(Fonte: La Stampa, 25/03/2008; Autore: Silvia Ronkey)

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