18/10/08

Clives Staples Lewis: Diario di un dolore


Clives Staples Lewis (1898-1963) è stata una delle voci più interessanti e appassionate del secolo scorso, un ateo “ritornato” al cristianesimo dopo un lungo e complesso percorso. Scrittore prolifico ed eclettico, brillante storico, autore di romanzi di fantascienza e per bambini come le famose Cronache di Narnia, divenute recentemente un film di successo, è stato anche un entusiasta divulgatore e un apologeta del messaggio cristiano.

Nell’evangelo Gesù, il rivoluzionario predicatore di Nazareth, ha indicato agli uomini, con parole dure ma anche misericordiose, la strada da seguire per tornare alla Luce, a Dio Padre. Con profonda onestà ha messo in guardia i suoi discepoli sul prezzo che avrebbero pagato se avessero seguito il suo esempio e attuato il suo messaggio. Da allora, in ogni tempo e in ogni luogo, per chiunque abbia scelto di essere autenticamente un cristiano si è prospettato un cammino irto di difficoltà: l’esperienza della croce ne è da sempre la tappa necessaria e dolorosa, un sepolcro oscuro dal quale venire fuori, una morte dalla quale risorgere. A Lewis accade proprio questo, nella fase più felice e matura della sua vita: dopo aver sperimentato la gioia del “figliol prodigo” che, ritornato a casa, trova ancora un Padre pronto a riabbracciarlo, è costretto a vivere sulla sua pelle il dolore incomprensibile e lo smarrimento per la morte della persona da lui più amata. La penna dello scrittore non si ferma di fronte al muro di gomma rappresentato dal lutto della moglie, morta di cancro, anzi nella scrittura vede un tentativo per uscire dal tenebroso tunnel della disperazione, da una nevrosi capace di alterare ogni equilibrio e l’usuale percezione della realtà. Nasce così Diario di un dolore (Adelphi, Milano 1990), un breve libretto in cui egli decide di raccontare questo disorientamento esistenziale, il più difficile della sua vita, fino alla faticosa risalita verso l’ennesimo ritorno a Dio, un Padre sempre in silenziosa attesa.

Percorreremo questo cammino di sofferenza e speranza rispettando le quattro tappe con cui lo scrittore ha pensato di scandire il suo racconto. Le immaginiamo come gli atti di un dramma interiore, le stazioni di una via crucis intima e nel contempo universale, percorsa pagina dopo pagina in questa cronaca di una rinascita.

I Atto. Solitudine e silenzio

H. [abbreviazione con cui Lewis menziona la moglie] è morta da poco e c’è ancora gente attorno al marito, rimasto vedovo, inconsolabile e chiuso nel suo dolore. Egli dice di avvertire una sorta di «coltre invisibile» tra sé e il mondo, un bisogno di compagnia sostituito presto da disinteresse e scarsa partecipazione alla realtà circostante. Riconosce nei ‘sintomi’ del suo dolore gli stessi della paura. Il ricordo acuisce la ferita come una «stilettata rovente» e fomenta quelle reazioni emotive, soprattutto il pianto, che confondono la mente annebbiandola. Il dolore annienta anche perché rende pigri: «le persone sole diventano sciatte» (p. 11), si abbandonano a se stesse, ad una sofferenza che le blocca, le immobilizza, che inibisce ogni tentativo di sfuggire ai suoi tentacoli.

In tutto questo Dio dov’è? In più luoghi del suo Diario il nostro scrittore ricorda la profonda e caparbia fede della moglie, la condivisione del credo cristiano, un collante della loro relazione coniugale. Dopo la scomparsa di lei anche Dio sembra essersi volatilizzato. Nonostante lo smarrimento, Lewis prova a darsi una prima spiegazione: quando si è felici non si cerca Dio, perché non se ne sente il bisogno e la sua presenza è data per scontata come la sensazione di avvertirla. Nell’infelicità invece il bisogno di Lui è disperato, immediato, ma invano si bussa alla sua porta: non più braccia aperte, solo silenzio, il silenzio immenso di una casa buia e forse disabitata, alla cui porta nessuno verrà mai ad aprire. «Perché il suo imperio è così presente nella prosperità e il suo soccorso così talmente assente nella tribolazione?» (p. 12). Forse dipende da come percepiamo «la realtà di Dio»: il problema non è stabilire se Dio esiste o meno, non si mette in dubbio questo; piuttosto si tratta di capire in che termini la sua esistenza venga concepita, avvertita da noi. A quanto pare Dio scompare quando non è in grado di rispondere alle richieste umane: ma la religione – sostiene Lewis – non è un surrogato dei desideri umani, di nessuno di essi, benché meno dell’amore. Chi si illude di questo è destinato a chiedere senza mai ottenere: di fronte a sé avrà «solo la porta sbarrata, la cortina di ferro, il vuoto, lo zero assoluto» (p. 13).

La sofferenza ha l’amaro sapore della solitudine. Di fronte all’amico, colpito da un così grave lutto, gli altri provano imbarazzo, «quel micidiale isolante» (p. 15) nutrito dalla paura e fonte di un inevitabile distacco. Lewis sente nel suo dolore una profonda infelicità, un’esperienza lacerante perché autoreferenziale all’eccesso: «ogni infelicità è in parte […] l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire» (p. 16). Questo genere di solitudine è inconsolabile, perché nessuno può alleggerirlo, condividendo in maniera totale un dolore: ci può essere una profonda empatia, ma alla fine ognuno vive la propria infelicità. Perfino lo scambio amoroso prevede una simile alterità: in una coppia si possono intrecciare sentimenti complementari, talvolta opposti, ma non identici (p. 20).

Lewis comprende che il suo dolore appare inguaribile perché la morte ha prodotto una frattura: il tempo, lo spazio, il corpo erano «i fili telefonici» che lo tenevano legato a sua moglie e che garantivano la comunicazione del loro amore. Una volta interrotti, tutto sembra svanito nel nulla. I tratti del volto di lei si confondono, il ricordo sbiadisce col passare dei giorni, lasciando «un’immagine sfocata». Solo «la sua voce è ancora viva» (p. 22).

Atto II. L’inganno del ricordo

Chi muore perde la possibilità di assaporare ancora la bellezza della vita, eppure chi rimane compiange se stesso come il peggiore degli sventurati. Lewis ricorda la voglia di vivere di H., il suo gusto fresco e intatto per ogni genere di gioia, «l’amore intenso» per ogni cosa, «la sua nobile fame» (p. 23). La morte di una persona amata appare sempre ingiusta, come ingovernabile sembra il processo di deformazione cui il tempo sottopone la sua immagine. Su questo punto l’analisi di Lewis è di una stupefacente acutezza e lucidità: il ricordo altera, perché rappresenta l’estrema chance di conservare qualcosa della persona perduta. Le sue parole, le sue azioni, i suoi sguardi sono affastellati dalla memoria, che li priva della loro unicità, fagocitandoli in sé. La mente toglie all’altro la sua possibilità di essere «altro»: Lewis ricorda sua moglie sfumandone l’immagine di persona reale, che non c’è più, e creandone una ideale da conservare: «sulla sua immagine si stanno depositando piccole scaglie di me, mie impressioni, mie scelte. […] Il sapore aspro, mordente, purificatore, della sua alterità è scomparso» (p. 26). La tomba, estremo aggancio della memoria a ciò che si è perso, è preferibile alle immagini distorte dei ricordi: queste ultime hanno «in più lo svantaggio di essere pronte a fare tutto quello che vogliamo» (p. 27).

Dinanzi alla fredda cesura della morte tutto sembra svanire, anche la fede. Diventa difficile, addirittura impossibile pregare: le parole sembrano rimbombare nel vuoto, lasciando il posto ad un’orribile sensazione di irrealtà. Lewis avverte questo e prova a spiegarlo: pregare per altri scomparsi, ma non profondamente legati a noi, è più semplice. Le convinzioni sono forti solo quando hanno superato la prova estrema. Inizia il tarlo di aver scambiato per fede solo una fantasia che non regge all’urto della sofferenza. La morte interrompe ogni genere di condivisione con l’amata, relega tutto nel passato, spezzando il tempo della relazione, il tempo dell’amore: la religione non consola di questo, non è accettabile una sua simile funzione. Lo smarrimento è totale.

Lewis s’interroga, non trova soddisfazione nemmeno nelle Scritture, tutto gli appare insensato e disumano. Ricorda le parole di s. Paolo a proposito della speranza che solo in Dio riposa, unico conforto dinanzi alla perdita di una persona amata. Ma questo – obietta – riguarda solo la dimensione spirituale, ‘eterna’, che è in ognuno di noi; quella umana invece non trova conforto perché ha di fronte a sé dolore e un vuoto incolmabile: «la realtà non si ripete. Ciò che viene tolto e ciò che viene ridato non sono mai la stessa identica cosa» (p. 32). I dubbi e l’ansia di trovare una risposta si susseguono spasmodicamente: che senso ha dire che dopo la morte non si soffre più? Forse Dio diventa più buono quando il nostro corpo si spegne? Dio ha crocifisso se stesso! Allora la realtà appare come uno strano gioco al massacro: perché creare l’uomo, dotarlo di coscienza, e dunque renderlo capace di comprendere ciò che vive, se questo stesso deve poi ferirlo? (p. 34) Nel destino dell’uomo, in definitiva, sta la beffa di Dio: «che ragione abbiamo di credere in Dio?» (p. 36). Anche Gesù ha vissuto quest’inganno che si è consumato sulla croce.

A questo punto del Diario Lewis è sopraffatto da una disperazione che non trova una via di fuga, tramutandosi in rabbiosa impotenza, e Dio diventa il bersaglio migliore da colpire. Ma dopo un dolore ottenebrante ritorna sempre a filtrare un barlume di lucidità e il sofferente prova a risalire. È un istinto naturale. A che serve immaginarsi Dio ora come un «sadico cosmico» ora come un «idiota malevolo»? Speculare sulla bontà divina o sulla sua esistenza è inutile; è solo un modo per contorcersi in preda ad un dolore difficile da accettare: «nella sofferenza non si può fare altro che soffrire» (p. 40). Lewis, a metà del suo cammino, sembra riuscire per la prima volta a guardare in faccia il suo dramma e a comprenderlo: il dolore è come la paura, il dolore è come la tensione, il dolore è come l’attesa. Rende tutto provvisorio, paralizza, dilata il tempo che diventa solo una «vuota sequenzialità» (p. 40).


(Autrice: Arianna Rotondo; fonti: www.ariannarotondo.it; rivista di spiritualità "Pregare"; www.pregare.org)
Addendum:
Segnaliamo della stessa autrice "Le figure femminili nel Vangelo di Giovanni"(Edizioni OCD)

2 commenti:

  1. E' proprio parziale terminare con un frase così "il dolore è come la paura, il dolore è come la tensione, il dolore è come l’attesa. Rende tutto provvisorio, paralizza, dilata il tempo che diventa solo una «vuota sequenzialità»" come se fosse la conclusione a cui l'autore giunge, perché non si tiene conto del percorso che Lewis fa negli ultimi due atti che, per altro, costituiscono il 'turning point' del suo percorso personale. Essi descrivono, infatti, il suo cambiamento radicale e ribalta totalmente la frase che tu scrivi come conclusione.

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