04/06/08

Paul Ricoeur intorno alla morte

In margine a Paul Ricoeur, Vivant jusqu’à la mort (Suivi de Fragments), Seuil, Paris 2007.

I testi raccolti sono gli appunti di Ricoeur sul tema della morte lasciati incompiuti, scritti negli ultimi anni di vita. Il nucleo più consistente risale agli anni 1995-1997, anni in cui l’autore dovette fare i conti con la malattia della moglie. Altri frammenti sono datati tra il 2003 e il 2005, pochi mesi prima della morte. Olivier Abel, responsabile del Fonds Ricoeur, e Catherine Goldenstein, amica di Ricoeur che lo ha seguito negli ultimi anni di vita, hanno curato la pubblicazione di questi appunti, in forma incompiuta e frammentaria, ma preziosi, ben inquadrati dalla prefazione iniziale (di Abel) e dalla postfazione finale (della Goldenstein). Le riflessioni riprendono alcune suggestioni già lasciate da Ricoeur in altre opere e in interviste e lo confermano come il filosofo del gioioso «sì» detto alla vita, nonostante il male e il tragico. Egli vuole riaffermare «la gioia di vivere fino alla fine» cioè il «desiderio di vivere colorato da una certa noncuranza che chiamo gaiezza (gaieté)» (39). È proprio il concetto di gaieté il punto di approdo finale delle riflessioni sulla morte: una serenità e una gaiezza radicate nell’ostinata fiducia nel primato dell’«affermazione originaria» più forte di ogni negazione.

Ricoeur rifacendosi a testimonianze di medici sostiene la necessità di vedere nel malato terminale l’«agonizzante» e non il «moribondo»: l’agonia è propria di colui che lotta per la vita ed è ancora vivo, «finché sono lucidi i malati che stanno per morire non si percepiscono come moribondi, come prossimi alla morte, ma come ancora viventi» (42) e inoltre «ciò che occupa la capacità di pensiero ancora preservata non è la preoccupazione di ciò che c’è dopo la morte, ma la mobilitazione delle risorse più profonde della vita ad affermarsi ancora» (43). Di fronte all’estrema sofferenza l’uomo rimane uomo, fino alla fine. Proprio nell’agonia Ricoeur individua la possibilità di comunicare con l’Essenziale, il «linguaggio fondamentale» (44) che dinanzi alla morte supera le distinzioni confessionali e accomuna e affratella tutti gli uomini. In altri scritti degli ultimi anni Ricoeur aveva chiamato questo «religioso comune» (43) con il termine di «Fondamentale» che non è da intendersi come una sorta di “religioso” sincretistico superficiale («il religioso non esiste culturalmente che articolato nella lingua e nel codice di una religione storica» (44), ma è invece il massimo della «profondità», dell’«ampiezza» e della «densità» che l’uomo può cogliere al culmine della lotta contro la morte (come già affermava in alcuni passaggi di La critique et la conviction, 1995).

Il riconoscimento dello status di «vivente» all’uomo agonizzante apre lo spazio per l’«accompagnamento» e la compassione che è il «lottare-con» (46): «accompagnare è forse il termine più adeguato per designare l’atteggiamento grazie al quale lo sguardo sul morente si muta in sguardo verso un agonizzante, che lotta per la vita fino alla morte (…) e non verso un moribondo che presto sarà un morto» (47), è «accompagnare in immaginazione e simpatia la lotta dell’agonizzante ancora vivente, vivente ancora fino alla morte» (48), è «aiutare per mezzo di una parola non medica, non confessionale» ma «poetica e in questo senso prossima all’essenziale, l’agonizzante non moribondo» (49), fondendo «comprensione e amicizia» (52, 47). Punto di partenza e di arrivo della lotta contro la sofferenza e la morte è la «fraternità» tra uomini accomunati dal soffrire e dalla morte, ma soprattutto dal desiderio di vivere e dal sì gioioso alla vita: è la fraternità che si oppone al dispiegarsi funesto del Male assoluto: «l’eterna lotta tra la fraternità e il Male assoluto» è la verità che caccia i fantasmi (73). Ricoeur ripresenta qui quell’atteggiamento francescano del sentirsi «uno fra tanti» nella fraternità, già evocata in Le volontaire et l’involontaire nel 1950 e ripresa citando Bernanos in una nota di Soi-même comme un autre (1990). Si tratta di esorcizzare allora il «fantasma» del Male assoluto che vuole che «la Morte sia più reale che la Vita» (61), per farlo è necessario riconoscersi affratellati all’umanità e solidali con essa. Questo processo richiede di attivare quello che già in altre opere Ricoeur aveva chiamato il «lavoro della memoria» che si unisce al «lavoro del lutto» (63, 73) proprio di «coloro che hanno fatto prevalere la vita sulla “memoria della morte” » (64).

La sfida della morte richiede allora due passaggi. Il primo è esercitare il lavoro del lutto a spese dell’attaccamento a sé (76), «amare l’altro che mi sopravvivrà» (77), trasferire sull’altro l’amore per la vita, cosicché il distacco rivela la sua dimensione di generosità (78), si tratta di leggere l’agonia in termini di dono per gli altri, in termini di «morire per», poiché «il dono trasforma il distacco [di sé] in beneficio per l’altro» (89), il «dono-servizio» genera una comunità (91); il secondo passaggio è allora il «confidare in Dio» (75), affidarsi alla sua cura, alla sua memoria, in questo è la grazia: «Niente mi è dovuto. Non mi aspetto nulla per me; non chiedo nulla; ho rinunciato – tento di rinunciare! – a reclamare,a rivendicare. Dico: Dio, tu farai di me ciò che vorrai. Forse niente. Accetto di non essere più» (79). Non vi è più il desiderio di sopravvivere e di conservarsi, ma di essere «custoditi nella cura di Dio» (86). Risuona ancora Soi-même comme un autre («la grazia consiste nel dimenticarsi»). In questa «rinuncia all’ipse per prepararsi alla morte» (84) sta l’orizzonte della gaieté. Alla prospettiva heideggeriana dell’«essere-per-la-morte» Ricoeur contrappone l’«essere-fino-alla-morte» e addirittura l’«essere contro la morte» come scrive in un biglietto poche settimane prima di morire che ben riassume tutto il suo filosofare: «Dal fondo della vita, una potenza sorge, che dice che l’essere è essere contro la morte. Credetelo con me» (144).

I Fragments gettano una luce interessante sul rapporto controverso per la critica tra filosofia e fede nel pensiero ricoeuriano. Il cristianesimo per Ricoeur è «un caso trasformato in destino attraverso una scelta continua» (99), una casualità non subita, ma assunta, «è questa eredità, indefinitamente confrontata, sul piano dello studio, con tutte le tradizioni avverse o compatibili, che io dico trasformata in destino attraverso una scelta continua» (100). Ricoeur riprende il binomio di «convinzione» e «critica», di «motivazione» e «argomentazione» che dà come risultato l’«opinione retta», ponderata e una sorta di «adesione» che non è ingenua «fede» (101). La scelta continua passa attraverso la «controversia» che si distingue dalla neutrale «comparazione»: «la comparazione è sguardo dal di fuori, la controversia caratterizza l’impegno del credente fedele a una tradizione religiosa» (105) che approda così all’«adesione» sempre radicata nelle eredità culturali. Ricoeur precisa di non accettare la definizione di «filosofo cristiano»: «io sono (…) un filosofo tout court, anzi un filosofo senza assoluto», e insieme «un cristiano d’espressione filosofica, come Rembrandt è un pittore tout court e un cristiano d’espressione pittorica e Bach un musicista tout court e un cristiano d’espressione musicale» (107). Essere cristiano è un’adesione nata dalla controversia e non intacca affatto l’essere filosofi pieni, esercitare una filosofia che in sé ha una sua autonomia, autarchia, autosufficienza (108) come la pittura e la musica.

Il testo è ricco di suggestioni sebbene frammentario come ogni testo rimasto incompiuto. Alcune copie riprodotte dei fogli manoscritti di Ricoeur danno l’idea del travaglio di pensiero dell’autore. Il lettore attento non mancherà di notare che alcune indicazioni permettono di gettare una luce interessante su tutta l’opera precedente di Ricoeur. Anche per questo si tratta di un testo prezioso.

(Autore: Mauro Cinguetti. Fonte: recensione pubblicata su "Filosofia e Teologia", 2/2007, pp. 388-390).

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