Fin dall’inizio della lotta per la liberazione del nostro Paese, alcune fonti hanno cercato di deformare le nostre idee: hanno tentato di far credere che la nostra lotta mirava solo a restaurare l’antico sistema. In realtà, le cose non stanno così. Siamo rifugiati solo dal 1959, e nel 1962 abbiamo cominciato il processo di democratizzazione della nostra società. Ho formato un piccolo comitato il cui compito era di stilare la Costituzione del futuro Tibet. In questa Costituzione ho fatto mettere una clausola secondo la quale una maggioranza formata dai due terzi dell’Assemblea poteva sopprimere le funzioni del Dalai Lama. Nel 1969 ho fatto una dichiarazione ufficiale secondo la quale l’istituzione del Dalai Lama e la sua sopravvivenza dipendono interamente dalla volontà del popolo tibetano. In uno dei discorsi che ho fatto riguardo all’avvenire del Tibet, ho dichiarato molto chiaramente che, in un Tibet futuro, io non assumerò nessuna funzione politica, e che il governo sarà un governo democraticamente eletto dal popolo.
Se l’istituzione del Dalai Lama non sarà più al passo coi tempi, essa cesserà semplicemente di esistere.
Dall’inizio dell’occupazione, una quarantina d’anni fa, i cinesi hanno utilizzato metodi diversi a seconda delle differenti epoche. A partire dalla metà degli anni ’ 50, hanno distrutto moltissimi templi e monasteri, hanno eliminato le persone istruite, laiche o religiose, a volte imprigionandole, a volte mandandole nei campi di lavoro, e anche con esecuzioni pubbliche. Poi vi è stata la rivoluzione culturale, e penso che tutti abbiano sentito parlare di quell’epoca. Infatti c’era la propaganda secondo la quale la civiltà tibetana era oscura e irrimediabilmente arretrata. Dicevano che essa era crudele e senza valore; tutto ciò che era tibetano era completamente inutile e privo di interesse. Questi sono i vecchi metodi.
Secondo i metodi attuali, a partire dalla metà degli anni ’ 80, la posizione ufficiale è che la cultura tibetana è una cultura antica, degna d’interesse, che bisogna preservare. I cinesi hanno messo nelle strade qualche cartello in tibetano, e hanno anche dato l’ordine che i cinesi che vivono in Tibet imparino il tibetano. Ma a parte questo, gli studi considerati importanti sono quelli del cinese, e al momento degli esami finali, per esempio, è soprattutto la cultura cinese che conta. Il tradizionale corso di studi tibetano è molto lungo, ci vogliono venti o trent’anni per finirlo. Ora non ci sono praticamente più posti in cui si possa seguire il cursus tibetano dall’inizio alla fine. Forse in qualche piccola provincia molto lontana è ancora possibile farlo, ma senza il permesso delle autorità cinesi. Il risultato è che adesso in Tibet il livello del nostro insegnamento tradizionale è molto basso. Per questa stessa ragione, migliaia di giovani non hanno altra scelta che andare a studiare in India, nelle istituzioni monastiche che abbiamo ricostituito in esilio. Dunque, malgrado tutta la propaganda, la realtà è che c’è in atto un tentativo deliberato di eliminare la cultura tibetana. Inoltre, deliberato o no, è soprattutto a causa dell’invasione dei coloni cinesi che in questo momento in Tibet sta avendo luogo un genocidio culturale. Rifiuto però categoricamente l’uso della violenza. Da qualche anno, mi è stato domandato a più riprese cosa farei se la disperazione di alcuni tibetani li spingesse alla violenza, e ho sempre risposto che in quel caso abbandonerei, mi ritirerei. Vi sono ragioni precise che mi inducono a pensare così, non si tratta di pura ostinazione. Innanzitutto, perché credo che la natura fondamentale dell’essere umano sia dolcezza e compassione. È quindi nei nostri interessi incoraggiare tale natura, farla vivere in noi, lasciarle lo spazio per svilupparsi. In compenso, utilizzando la violenza, è come se frenassimo volontariamente il lato positivo della natura umana, e impedissimo il suo schiudersi. La Prima guerra mondiale è terminata con la sconfitta della Germania, e tale sconfitta ha profondamente traumatizzato il popolo tedesco. È così che è stato piantato il seme della Seconda guerra mondiale. Una volta che la violenza si impadronisce di una situazione, le emozioni diventano incontrollabili. È molto pericoloso, perché in questo modo si arriva alla tragedia. È esattamente quello che sta succedendo in Bosnia in questo momento. I metodi violenti non fanno che generare nuovi problemi.
Nel nostro caso, il fatto più importante è che noi tibetani, e i nostri fratelli e sorelle cinesi siamo sempre stati vicini, e dovremo restarlo. La sola alternativa per l’avvenire sarebbe imparare a vivere in armonia, da buoni vicini. È tra tibetani e cinesi che dobbiamo cercare una soluzione che apporti un reciproco beneficio. Grazie al nostro atteggiamento non- violento, i cinesi all’interno e all’esterno della Cina hanno già espresso simpatia e preoccupazione per la nostra causa; alcuni di loro hanno anche detto di apprezzare molto la non- violenza.
L’occupazione cinese dura da quarant’anni, e i tibetani, malgrado le avversità, tentano di preservare la loro cultura, alla quale sono profondamente legati. Nonostante tutti i danni che sono stati fatti, e tutte le distruzioni perpetrate, non è troppo tardi. Rimane la speranza, non solo di preservare la nostra cultura, ma anche di farla rinascere. C’è però un grande pericolo che la minaccia: parlo del trasferimento massiccio di popolazione cinese. I tibetani sono attualmente diventati minoritari nel loro stesso Paese. In tutte le più grandi città del Tibet – Lhasa, Chamdo, Shigatse, Gyantse – la popolazione è per i due terzi cinese, e solamente per un terzo tibetana.
Certo, nelle regioni di campagna più isolate si trovano ancora luoghi interamente abitati da tibetani, ma non appena le terre sono fertili, o situate a minor altitudine, laddove le condizioni di vita sono più clementi, i cinesi si insediano numerosi.
26/06/08
Il tramonto del Tibet
Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama
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