Fin dall’inizio della lotta per la liberazione del nostro Paese, alcune fonti hanno cercato di deformare le nostre idee: hanno tentato di far credere che la nostra lotta mirava solo a restaurare l’antico sistema. In realtà, le cose non stanno così. Siamo rifugiati solo dal 1959, e nel 1962 abbiamo cominciato il processo di democratizzazione della nostra società. Ho formato un piccolo comitato il cui compito era di stilare la Costituzione del futuro Tibet. In questa Costituzione ho fatto mettere una clausola secondo la quale una maggioranza formata dai due terzi dell’Assemblea poteva sopprimere le funzioni del Dalai Lama. Nel 1969 ho fatto una dichiarazione ufficiale secondo la quale l’istituzione del Dalai Lama e la sua sopravvivenza dipendono interamente dalla volontà del popolo tibetano. In uno dei discorsi che ho fatto riguardo all’avvenire del Tibet, ho dichiarato molto chiaramente che, in un Tibet futuro, io non assumerò nessuna funzione politica, e che il governo sarà un governo democraticamente eletto dal popolo.
Se l’istituzione del Dalai Lama non sarà più al passo coi tempi, essa cesserà semplicemente di esistere.
Dall’inizio dell’occupazione, una quarantina d’anni fa, i cinesi hanno utilizzato metodi diversi a seconda delle differenti epoche. A partire dalla metà degli anni ’ 50, hanno distrutto moltissimi templi e monasteri, hanno eliminato le persone istruite, laiche o religiose, a volte imprigionandole, a volte mandandole nei campi di lavoro, e anche con esecuzioni pubbliche. Poi vi è stata la rivoluzione culturale, e penso che tutti abbiano sentito parlare di quell’epoca. Infatti c’era la propaganda secondo la quale la civiltà tibetana era oscura e irrimediabilmente arretrata. Dicevano che essa era crudele e senza valore; tutto ciò che era tibetano era completamente inutile e privo di interesse. Questi sono i vecchi metodi.
Secondo i metodi attuali, a partire dalla metà degli anni ’ 80, la posizione ufficiale è che la cultura tibetana è una cultura antica, degna d’interesse, che bisogna preservare. I cinesi hanno messo nelle strade qualche cartello in tibetano, e hanno anche dato l’ordine che i cinesi che vivono in Tibet imparino il tibetano. Ma a parte questo, gli studi considerati importanti sono quelli del cinese, e al momento degli esami finali, per esempio, è soprattutto la cultura cinese che conta. Il tradizionale corso di studi tibetano è molto lungo, ci vogliono venti o trent’anni per finirlo. Ora non ci sono praticamente più posti in cui si possa seguire il cursus tibetano dall’inizio alla fine. Forse in qualche piccola provincia molto lontana è ancora possibile farlo, ma senza il permesso delle autorità cinesi. Il risultato è che adesso in Tibet il livello del nostro insegnamento tradizionale è molto basso. Per questa stessa ragione, migliaia di giovani non hanno altra scelta che andare a studiare in India, nelle istituzioni monastiche che abbiamo ricostituito in esilio. Dunque, malgrado tutta la propaganda, la realtà è che c’è in atto un tentativo deliberato di eliminare la cultura tibetana. Inoltre, deliberato o no, è soprattutto a causa dell’invasione dei coloni cinesi che in questo momento in Tibet sta avendo luogo un genocidio culturale. Rifiuto però categoricamente l’uso della violenza. Da qualche anno, mi è stato domandato a più riprese cosa farei se la disperazione di alcuni tibetani li spingesse alla violenza, e ho sempre risposto che in quel caso abbandonerei, mi ritirerei. Vi sono ragioni precise che mi inducono a pensare così, non si tratta di pura ostinazione. Innanzitutto, perché credo che la natura fondamentale dell’essere umano sia dolcezza e compassione. È quindi nei nostri interessi incoraggiare tale natura, farla vivere in noi, lasciarle lo spazio per svilupparsi. In compenso, utilizzando la violenza, è come se frenassimo volontariamente il lato positivo della natura umana, e impedissimo il suo schiudersi. La Prima guerra mondiale è terminata con la sconfitta della Germania, e tale sconfitta ha profondamente traumatizzato il popolo tedesco. È così che è stato piantato il seme della Seconda guerra mondiale. Una volta che la violenza si impadronisce di una situazione, le emozioni diventano incontrollabili. È molto pericoloso, perché in questo modo si arriva alla tragedia. È esattamente quello che sta succedendo in Bosnia in questo momento. I metodi violenti non fanno che generare nuovi problemi.
Nel nostro caso, il fatto più importante è che noi tibetani, e i nostri fratelli e sorelle cinesi siamo sempre stati vicini, e dovremo restarlo. La sola alternativa per l’avvenire sarebbe imparare a vivere in armonia, da buoni vicini. È tra tibetani e cinesi che dobbiamo cercare una soluzione che apporti un reciproco beneficio. Grazie al nostro atteggiamento non- violento, i cinesi all’interno e all’esterno della Cina hanno già espresso simpatia e preoccupazione per la nostra causa; alcuni di loro hanno anche detto di apprezzare molto la non- violenza.
L’occupazione cinese dura da quarant’anni, e i tibetani, malgrado le avversità, tentano di preservare la loro cultura, alla quale sono profondamente legati. Nonostante tutti i danni che sono stati fatti, e tutte le distruzioni perpetrate, non è troppo tardi. Rimane la speranza, non solo di preservare la nostra cultura, ma anche di farla rinascere. C’è però un grande pericolo che la minaccia: parlo del trasferimento massiccio di popolazione cinese. I tibetani sono attualmente diventati minoritari nel loro stesso Paese. In tutte le più grandi città del Tibet – Lhasa, Chamdo, Shigatse, Gyantse – la popolazione è per i due terzi cinese, e solamente per un terzo tibetana.
Certo, nelle regioni di campagna più isolate si trovano ancora luoghi interamente abitati da tibetani, ma non appena le terre sono fertili, o situate a minor altitudine, laddove le condizioni di vita sono più clementi, i cinesi si insediano numerosi.
26/06/08
Il tramonto del Tibet
25/06/08
Gabriella Caramore: La fatica della luce. Confini del religioso
L'esperienza religiosa è anche un viaggio: allontanarsi da ciò che è noto verso qualcosa che da un lato attrae, "chiama", dall'altro persiste nella sua lontananza, nel suo enigma. Ma un viaggio è innanzitutto un lavoro su di sé, uno "straniarsi" per esporsi ad altro. Appunto, una "fatica" come quella che fa la "luce" – che dà il titolo a questo libro – per illuminare il mondo. Un percorso lungo i confini, incerti, tra credenti e non credenti, investigando luoghi della Bibbia, eventi della vita, del nascere, del morire, e figure del linguaggio e dell'arte. Un libro di domande sul religioso – chi è il Dio sconfitto?, cosa significa sperare?, come essere liberi? – poiché, osserva l'autrice, solo nell'ostinazione di questo insonne interrogare si conserva l'umano. Un libro di formazione: un compito sempre da ricominciare, mai concluso.
Gabriella Caramore
La fatica della luce. Confini del religioso
Morcelliana, Brescia 2008
256 pagine - euro 16,00
Raimon Pannikar: Mistica e spiritualità.
La composizione del volume è semplice: una prima parte porta come lemma la Nuova innocenza in quanto la mistica autentica non è una riflessione sull'Essere, ma un atteggiamento libero e spontaneo che sorge dalla pienezza della persona. Una seconda parte tratta della meditazione su cui poco si può dire perché essa è silenzio; seguono tre esempi di santi, le cui differenze ci mostrano che non esiste un solo concetto di santità.
La terza parte è formata da uno studio, sistematico e filosofico, sull'esperienza mistica. In questa parte cerca di confutare l'idea assai diffusa sulla mistica intesa come equivalente a fenomeni straordinari riservati a una piccola élite di mortali. Tutti siamo potenzialmente aperti all'esperienza mistica. L'idea che tutti siamo "figli di Dio", presente in tante religioni, è stata formulata dal cristianesimo e costantemente ripetuta, ma poco meditata. Segue come appendice una riflessione filosofica sull'esperienza suprema da prospettive diverse e una preghiera che viene dal profondo del suo essere.
Mistica e spiritualità.
I/1. Mistica pienezza di vita
Jaca Book, Milano 2008
382 pagine - euro 45,00
24/06/08
Gli Ebrei e Pio XII
(Fonte: http://www.papanews.it)
Tunguska
Il 30 giugno del 1908 una zona semidesertica della Siberia centrale nei pressi del fiume Tunguska Pietrosa fu teatro di un evento misterioso che ancora oggi, a un secolo di distanza, fa discutere gli astronomi di tutto il mondo. Si è trattato sicuramente dell’impatto di un corpo celeste, un meteorite o il nucleo di una cometa, ma data l’eccezionalità dell’evento, ritenuto il più violento di cui si ha memoria, molti hanno scomodato altre cause quali lo scontro con un mini buco nero o con un corpo composto da antimateria, oppure il solito Ufo che in questi casi non guasta mai.
Il ' fenomeno' provocò un vero e proprio disastro ambientale e sicuramente se si fosse verificato qualche ora prima o qualche ora dopo ( per la precisione avvenne alle 7.14 locali) l’oggetto, complice gli effetti della rotazione terrestre, sarebbe caduto in America o in Europa con conseguenze inimmaginabili.
I dati parlano da soli. L’impatto, il cui boato fu udito a mille chilometri di distanza, incendiò 2 mila chilometri quadrati di foresta e provocò la morte di migliaia di animali, ma essendo la zona abitata solamente da nomadi e cacciatori non si registrarono vittime umane. Una persona che abitava a pochi chilometri dal luogo del disastro ebbe la sua capanna distrutta e tutte le sue renne fuggirono dallo spavento.
Secondo un’altra testimonianza, un abitante della zona, che a una sessantina di chilometri dal luogo dell’impatto se ne stava tranquillamente seduto davanti alla sua casa, raccontò di essere stato investito da una improvvisa vampata di calore, come se la sua camicia stesse prendendo fuoco, e fu scaraventato ad alcuni metri di distanza restando a terra svenuto.
La violenza dell’impatto è stata paragonata a una esplosione di 15 milioni di tonnellate di tritolo, pari a un migliaio di bombe atomiche del tipo Hiroshima, e la fortissima onda d’urto, che secondo i dati registrati dai sismografi fece per ben due volte il giro della terra, rischiò di far deragliare alcuni vagoni della ferrovia Transiberiana a 600 chilometri dal luogo dell’impatto. Per molti giorni, infine, le zone dell’Europa e dell’Asia situate alle alte latitudini fecero registrare dopo il tramonto strani bagliori notturni che però furono spiegati come aurore boreali di particolare intensità. Nessuno, infatti, pensava all’evento di Tunguska perché all’epoca la circolazione delle notizie era assai limitata e poi a quei tempi la Russia era sicuramente più interessata ai difficili eventi dell’impero di Nicola II, per cui la caccia ai meteoriti passò in secondo piano. E infatti, cessata la buriana della prima guerra mondiale e della rivoluzione d’ottobre, il primo sopralluogo avvenne solamente nel 1921 e a effettuarlo fu il geologo Leonid Kulik, che in seguito avrebbe guidato altre quattro spedizioni senza però riuscire a scoprire le tracce dell’impatto.
Dell’evento Tunguska si è interessato anche il dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna, che nel 1999 organizzò una importante spedizione scientifica per raccogliere ulteriori dati.
E fu proprio la spedizione italiana ad avanzare l’ipotesi che il lago Cheko, profondo 50 metri e largo mezzo chilometro, sia stato causato da un frammento del corpo misterioso che un secolo fa impattò con la Terra.
L’oggetto, infatti, molto probabilmente si spezzò in tre parti e una di queste avrebbe causato la formazione del laghetto, che nelle approssimative mappe dell’epoca non è mai indicato.
Opportuni scandagli, infatti, hanno messo in evidenza la strana forma di questo lago, che non assomiglia affatto alla morfologia dei comuni laghi siberiani e inoltre i materiali raccolti sul fondo sarebbero compatibili con l’ipotesi di un impatto.
Secondo i dati raccolti l’esplosione avvenne a un’altezza compresa fra i 5 e i 10 chilometri e sarebbe stata causata da un oggetto di circa 50- 80 metri di diametro che entrando in atmosfera ad una velocità di 1 Km/ sec si frantumò.
Alcuni sostengono l’ipotesi del meteorite mentre altri, soprattutto i russi, sostengono che il fenomeno sia stato causato dallo scontro con una cometa. E nel 1978 l’astronomo Lubor Kresak cercò di dimostrare che il responsabile di Tunguska fu un frammento della cometa Hencke. Sta di fatto che in fondo al lago deve esserci sicuramente qualcosa. Opportune tecniche di acustica subacquea, infatti, hanno messo in evidenza una eco anomala, probabilmente causata da un masso di 10 metri di diametro individuato a una decina di metri oltre il fondo. E proprio questo sasso potrebbe essere il relitto dell’oggetto che causò l’evento di Tunguska.
Una prossima spedizione dovrebbe effettuare carotaggi per risolvere definitivamente il problema. Purtroppo queste spedizioni sono molto costose e fino ad oggi nessuno sponsor si è fatto avanti per finanziare l’impresa. I fisici di Bologna, però, sono fiduciosi e restano in attesa di ritornare di nuovo sui luoghi per chiudere una volta per sempre la questione. Ma per ora, dopo cent’anni, il mistero di Tunguska resta ancora sepolto in fondo a quel piccolo lago della Siberia.
(Fonte: Avvenire del 23/06/2008)
21/06/08
San Tommaso «Nel segno del sole»
Entrando nella vita religiosa sapevo bene di rinunziare a qualsiasi programma personale: questo sarebbe stato stabilito dall'obbedienza. E si sa: quando si dice obbedienza, si dice Provvidenza. Ora, dopo oltre settant’anni di vita conventuale, e dopo aver percorso i decenni più lunghi e operosi dell'esistenza terrena, in una visione retrospettiva, mi accorgo che Qualcuno ha segnato una traccia in questo mio lungo travaglio, un disegno unitario e coerente.
Pur nel variare degli uomini e delle circostanze, vedo che mi è stato assegnato quasi di continuo l'umile compito del divulgatore al servizio di un grande maestro. Della lunga familiarità con i suoi scritti, e indirettamente con la sua anima, non ho che da ringraziare il Signore. Poiché alla sua ombra non mi sono mai sentito frustrato, menomato, o condizionato. Anzi...
Ho atteso per decenni a volgarizzare la Somma Teologica di san Tommaso d'Aquino; e subito dopo ho dovuto sobbarcarmi la traduzione della Somma contro i Gentili… Tuttavia nutrivo in cuore la speranza che finalmente mi si offrisse l'occasione di scrivere un saggio dottrinale e storico sull'Aquinate, per mettere a fuoco le mie osservazioni sulla personalità e sulla dottrina del «buon frate Tommaso». Ma ecco che, dopo aver accantonato gli studi per quattro anni, sempre secondo le disposizioni dell'obbedienza, mi viene offerto l'incarico di scrivere una vita aneddotica del Santo.
Anche questa volta si trattava di un volgarizzamento: mettere la vita di lui alla portata di tutti, persino dei ragazzi. Potevo sottrarmi alla mia vocazione di divulgatore? Ho pensato quindi che, nonostante la stanchezza e il peso dell'inerzia prolungata, bisognava riprendere contatto coi libri e con gli editori.
La fatica, devo confessarlo, è stata assai minore di quanto pensassi: ho ripreso il lavoro con gioia, con entusiasmo. E non c'è da meravigliarsi; perché la vita di san Tommaso, definito a piacere «il più dotto dei santi», o «il più santo dei dotti», è piena di fascino non meno della sua dottrina.
L'aneddotica intorno a un caposcuola così celebre si è arricchita molto nel corso dei secoli, e naturalmente si è inquinata, per l'apporto delle opposte passioni che si sono affrontate nella controversia quotidiana. Per non correre il rischio di compromettere la verità, ho limitato la mia raccolta alle fonti più sicure, che risalgono ai secoli XIII e XIV. Ma neppure ho preteso di essere esauriente entro questi limiti: ho scelto solo i fatti più significativi, per delineare il profilo del Santo.
Speriamo che l'agilità stessa dell'opuscolo contribuisca a farlo conoscere, e a ridestare nei cuori la nostalgia della santità.
(Autore: P. Tito Centi - Prefazione alla nuova biografia di San Tommaso «Nel segno del sole», Edizioni Ares, 12 euro)
Huxley, conversione e supplizio
È uno degli autori indispensabili per orientarsi in questo primo scorcio del XXI secolo. Uno scrittore tutt’altro che rassicurante, è vero, ma dei suoi libri è sempre più difficile fare a meno.
Anche se, per una bizzarra congiuntura editoriale, nel nostro Paese l’opera di Aldous Huxley è attualmente disseminata in cataloghi diversi. I titoli di maggior richiamo sono rimasti alla Mondadori, che di recente ha riproposto in anastatica la prima versione italiana de Il mondo nuovo, apparsa nel lontano 1933. Però, se si vuole rileggere Giallo Crome (il giovanile romanzoconversazione che anticipa la pessimistica profezia di una società asservita all’ingegneria genetica) ci si deve rivolgere alla raffinata Mattioli 1885. La raccolta completa dei racconti è ospitata in un corposo tascabile Baldini Castoldi Dalai, mentre nel 2007 è toccato al Castoro presentare al pubblico italiano I corvi, la favola che Huxley scrisse nel 1944 per la nipotina Olivia.
In una simile panorama di dispersione, non stupisce più di tanto che una casa editrice finora apprezzata per l’esplorazione di tutt’altre latitudini letterarie, la romana Cavallo di Ferro, decida di riproporre I diavoli di Loudun
( nella traduzione di Matteo Ubezio), uno dei testi più controversi e in gran parte fraintesi nella lunga carriera di Huxley. Pubblicato originariamente nel 1952, questo studio storicobiografico sul Seicento francese è conosciuto più che altro per la corrusca versione cinematografica diretta da Ken Russell nel 1971 e tratta dal dramma firmato nel 1960 da John Whiting. Il quale, pur attingendo a piene mani al lavoro di Huxley, ne modificò in modo considerevole la prospettiva, insistendo sull’elemento di oppressione politica e di conseguente rivolta libertaria che, in realtà, è pressoché assente nel testo di partenza.
Nato nel 1894 nel Surrey e morto nel 1963 a Los Angeles, Huxley apparteneva a una delle famiglie più in vista dell’élite intellettuale britannica. Dapprima poeta, poi narratore e saggista, nella seconda metà degli anni Trenta si era stabilito negli Stati Uniti, tentando senza successo la carriera di sceneggiatore ad Hollywood. In compenso, nell’ambiente cosmopolita e disinvolto della Costa occidentale Huxley trovò più di un’occasione per approfondire le sue ricerche sulla « filosofia perenne » , alle quali si era dedicato dopo aver superato l’iniziale visione scettica e materialista dell’esistenza. Certo, lo spiritualismo di Huxley può oggi apparire ambiguo, così come niente affatto condivisibile - per quanto sintomatico - risulta il suo entusiasmo per le esperienze indotte dall’Lsd, testimoniato nel celebre saggio Le porte della percezione. Eppure Huxley ebbe il merito di fornire, in anni pesantemente condizionati da ideologie contrarie, un’immagine non unidimensionale dell’essere umano, dimostrandosi capace di distinguere con equilibrio anche in una materia delicata come quella affrontata nei
Diavoli di Loudun. Si tratta del celebre processo per stregoneria intentato nel 1634 contro il parroco della città francese, Urbain Grandier, finito sul rogo in seguito alle accuse mosse dalla superiora delle Orsoline locali, suor Jeanne des Anges, che si proclamò da lui indemoniata trascinando le consorelle in un parossismo di autosuggestione e abbrutimento. Pur rimanendo fedele alla sua posizione antidogmatica, Huxley evita di condannare l’intera istituzione ecclesiastica e si sofferma al contrario sull’inatteso percorso di conversione spirituale affrontato da Grandier alla vigilia del supplizio. Le pagine dedicate al radicamento trinitario dell’autentica esperienza mistica rivelano, tra l’altro, una comprensione profonda della tradizione teologica cristiana. Che Huxley abbia poi scelto di non aderirvi è un altro discorso, sul quale ci si potrebbe soffermare meglio se qualche altro editore italiano volesse rendere di nuovo disponibile
L’eminenza grigia, il libro del 1941 che precede e in ampia misura integra le riflessioni poi sviluppate nei Diavoli di Loudun (Cavallo di Ferro. Pagine 400. Euro 18,50).
(Autore: Alessandro Zaccuri)
«Codice Gesù» : l'ennesimo teorema
Merita il titolo di coraggioso il lettore che s’accosta alla lettura di «Codice Gesù» di Robert Eisenman (Piemme, pagine 444, euro 22,50). Lo attendono centinaia di pagine di citazioni, rimandi, paragoni, e ragionamenti labirintici e tortuosi. Sarebbe il meno, se i frutti fossero buoni. Ma qui è evidente il difetto di quell’equilibrio di metodo che ogni storico, qualunque sia il campo sul quale applica la propria erudizione, è tenuto a rispettare. Lo squilibrio non è velato neppure dal sottotitolo del libro: «I manoscritti segreti di Qumran smascherano le manipolazioni e le falsificazioni dei Vangeli».
Siamo sulla scia solita, e ormai annosa, delle rivelazioni gridate e dei pugni alzati.
Diciamolo subito, i manoscritti di Qumran erano 'segreti', cioè impubblicati, vent’anni fa, e più, prima che ne fosse completata l’edizione integrale. Definirli ancora segreti oggi è come minimo disonesto. Ed è piuttosto triste constatare che esistono studiosi così fanaticamente appiccicati ai propri desideri da forzare una ricostruzione delle origini cristiane che incontri a tutti i costi la propria idea. Eisenman ripete ciò che già scriveva nel suo precedente «Giacomo, il fratello di Gesù», e cioè che gli eventi storici legati alla Chiesa primitiva sono stati ripetutamente alterati, travisati o eliminati, così che i Vangeli sarebbero del tutto inutilizzabili dal punto di vista storico. Secondo Eisenman, per ricostruire i fatti occorre rifarsi esclusivamente a fonti extrabibliche (manoscritti di Qumran e Nag-Hammadi, vangeli gnostici, Talmud, testi apocalittici, testi storici ecc.) degni di fede appunto perché 'non inquinati dalla fede'.
Convinto che il Nuovo Testamento sia stato costruito, con intenti cospiratori, da un certo Epafrodito, coadiuvato da san Paolo, cerca di rinvenire tutte le pezze che possano rattoppare la sua convinzione.
Il teorema è applicato con stupefacente coerenza: ogni documento che può contraddire i Vangeli, non importano datazioni, contraddizioni o sospetti di falsità, è degno di pensosa considerazione. Al contrario, tutto quanto può confermarli è guardato in tralice, con sospetto rancoroso. Il malvagio è, al solito, la Chiesa primitiva, una Spectre violenta, formata da una banda di teppisti culturali e maneschi manipolatori. Calatosi nella scena del crimine come un investigatore da telefilm, Eisenman identifica persino i colpevoli più attivi: Paolo («uomo polemico» e «privo delle benché minima traccia di simpatia umana») ed Epafrodito, algido segretario tuttofare dell’imperatore Domiziano. Resta da capire perché un lettore dovrebbe sottoporsi alla punitiva lettura di questo libro che, oltretutto, manca d’un indice dei nomi; grave mancanza perché qualora ci si scordi di segnare la pagina in cui compare il nome del colpevole (Epafrodito, il maggiordomo di Domiziano), tocca rileggersi tutto il libro per ritrovarlo. Il che, francamente, è chiedere troppo.
18/06/08
La Cappella Sistina ha codici ebraici?
Gli straordinari affreschi della Cappella Sistina, opera del genio di Michelangelo, non sarebbero tanto straordinari solo per la loro unica bellezza: nascosti tra le oltre 300 figure che affollano la Cappella, infatti, vi sarebbero 'messaggi nascosti' e significati secondi che, una volta decifrati, cambierebbero la lettura sino ad oggi attribuita alle pitture. Questa sorta di 'Codice di Michelangelo' è l’ultima tentazione esoterica in materia di storia dell’arte. È dunque in arrivo sui banchi dei librai «The Sistine Secrets: Unlocking the Codes in Michelangelòs Defiant Masterpiece» - «I Segreti della Cappella Sistina: Decifrare i Codici dell’Insolente Capolavoro di Michelangelo» - di Benjamin Blech e Roy Doliner. Secondo gli autori, gli affreschi della Cappella Sistina andrebbero letti come un messaggio «sovversivo» che trasforma la dottrina cattolica in una proposta di «amore mistico universale» - da raggiungersi attraverso la fusione del cristianesimo con la religione ebraica. Blech - rabbino e professore di Talmud alla Yeshiva University di New York - e Doliner scrittore esperto di cose vaticane residente a Roma - avrebbero 'scoperto' lettere ebraiche nascoste tra le figure degli affreschi. Per quanto suggestiva, l’ipotesi enunciata da Blech e Doliner - che fanno risalire l’erudizione di Michelangelo nelle dottrine ebraiche ai suoi anni passati alla corte dei Medici, dove si tolleravano studi non prettamente canonici - non è la prima ad aver insinuato il dubbio di un’interpretazione diversa da quella classica. Cosa credere, dunque? «In realtà», ha detto al 'Sunday Times' il professor Charles Hope, del Warburg Institute di Londra, «queste teorie non si possono provare con certezza e sono spesso frutto di una lettura moderna dei dipinti». (Fonte: Avvenire del 18/06/2008)
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15/06/08
Ricercatori dell'Enea ricreano la Sindone in laboratorio
E’ di ieri la pubblicazione sulla rivista “Applied Optics”, mensile della “Optical Society of America A” di Washington, dei risultati di una indagine realizzata da un gruppo di ricerca italiano, coordinato dal fisico Giuseppe Baldacchini del Centro Enea di Frascati, che per la prima volta al mondo è riuscito a ricreare in laboratorio immagini su un tessuto di lino aventi le stesse caratteristiche della figura impressa sulla Sindone di Torino.
Il risultato sarebbe stato ottenuto irradiando tessuti di lino con un brevissimo e potentissimo lampo di luce ultravioletta, che avrebbe permesso la colorazione delle sole fibrille più superficiali, senza passaggio di colore sul rovescio della tela, esattamente come è per il sudario che la tradizione cristiana ritiene abbia avvolto Gesù Cristo.
E se anche si tratta solo di alcune anticipazioni dello studio che sarà presentato ufficialmente solo ad agosto negli Stati Uniti, l’indagine ha comunque già riacceso l’interesse sull’argomento.
Lo stesso professor Baldacchini, che in passato ha svolto attività di ricerca anche presso le Università statunitensi di Berkeley e Salt Lake City e che ha potuto utilizzare per l’esperimento i potentissimi impianti laser ad eccimeri del Centro Enea di Frascati, ha evidenziato come "i risultati ottenuti finora avvalorano seriamente l'ipotesi iniziale teologica che l'immagine della Sindone sia stata originata da un potente lampo di luce che la Chiesa ha da sempre attribuito alla resurrezione".
Un esperimento che, sostiene ancora il sessantasettenne ricercatore dell’Enea, “apre scenari inquietanti e imprevedibili ma di estremo interesse per ulteriori studi” e che, di certo, darà il via a nuovi dibattiti.
L’annuncio della nuova Ostensione era stato dato ufficialmente lo scorso 2 giugno da papa Benedetto XVI che, nel corso dell’udienza in Sala Nervi, concessa agli oltre 7.000 pellegrini della Diocesi di Torino scesi a Roma per la “Redditio Fidei”, aveva confermato di aver accolto il desiderio del cardinale Poletto “consentendo che nella primavera 2010 abbia luogo un’altra solenne “Ostensione della Sindone”.
(Fonte:/www.cronacaqui.it)
P.S. di Luca Senatori
11/06/08
La teologia del Novecento
Da quarant'anni i teologi della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale si cimentano, in stretto confronto reciproco, con le massime questioni poste alla teologia nella rapida e a tratti addirittura convulsa vicenda del Novecento. È parso maturo il tempo per cimentarsi in un'opera collettiva, che tentasse un bilancio. Le premesse in tal senso erano disposte dalla precedente sintesi da essi tentata a proposito dell'epoca moderna (vedi Storia della teologia, IV: Epoca moderna, Casale Monferrato 2001). Ne è risultata un'opera di grande mole, che propone non una sintesi, ma dieci saggi sintetici. I primi cinque sono dedicati ai momenti qualificanti della vicenda teologica fino al Concilio: modernismo, teologia dialettica, teologia del magistero e ressourcement, svolta antropologica, concilio Vaticano II. Gli altri cinque sono dedicati invece alle questioni maggiori intorno alle quali si coagula (e anche si frammenta) il dibattito teologico successivo: il profilo scientifico della teologia, il rapporto con la storia, la forma pratica della fede, la questione ermeneutica, la figura storica del cristianesimo.
La teologia del Novecento. Momenti maggiori e questioni aperte (Edizioni Glossa, pagine 804, euro 70,00) di Giuseppe Angelini e Silvano Macchi.
04/06/08
Paul Ricoeur intorno alla morte
In margine a Paul Ricoeur, Vivant jusqu’à la mort (Suivi de Fragments), Seuil, Paris 2007.
Ricoeur rifacendosi a testimonianze di medici sostiene la necessità di vedere nel malato terminale l’«agonizzante» e non il «moribondo»: l’agonia è propria di colui che lotta per la vita ed è ancora vivo, «finché sono lucidi i malati che stanno per morire non si percepiscono come moribondi, come prossimi alla morte, ma come ancora viventi» (42) e inoltre «ciò che occupa la capacità di pensiero ancora preservata non è la preoccupazione di ciò che c’è dopo la morte, ma la mobilitazione delle risorse più profonde della vita ad affermarsi ancora» (43). Di fronte all’estrema sofferenza l’uomo rimane uomo, fino alla fine. Proprio nell’agonia Ricoeur individua la possibilità di comunicare con l’Essenziale, il «linguaggio fondamentale» (44) che dinanzi alla morte supera le distinzioni confessionali e accomuna e affratella tutti gli uomini. In altri scritti degli ultimi anni Ricoeur aveva chiamato questo «religioso comune» (43) con il termine di «Fondamentale» che non è da intendersi come una sorta di “religioso” sincretistico superficiale («il religioso non esiste culturalmente che articolato nella lingua e nel codice di una religione storica» (44), ma è invece il massimo della «profondità», dell’«ampiezza» e della «densità» che l’uomo può cogliere al culmine della lotta contro la morte (come già affermava in alcuni passaggi di La critique et la conviction, 1995).
Il riconoscimento dello status di «vivente» all’uomo agonizzante apre lo spazio per l’«accompagnamento» e la compassione che è il «lottare-con» (46): «accompagnare è forse il termine più adeguato per designare l’atteggiamento grazie al quale lo sguardo sul morente si muta in sguardo verso un agonizzante, che lotta per la vita fino alla morte (…) e non verso un moribondo che presto sarà un morto» (47), è «accompagnare in immaginazione e simpatia la lotta dell’agonizzante ancora vivente, vivente ancora fino alla morte» (48), è «aiutare per mezzo di una parola non medica, non confessionale» ma «poetica e in questo senso prossima all’essenziale, l’agonizzante non moribondo» (49), fondendo «comprensione e amicizia» (52, 47). Punto di partenza e di arrivo della lotta contro la sofferenza e la morte è la «fraternità» tra uomini accomunati dal soffrire e dalla morte, ma soprattutto dal desiderio di vivere e dal sì gioioso alla vita: è la fraternità che si oppone al dispiegarsi funesto del Male assoluto: «l’eterna lotta tra la fraternità e il Male assoluto» è la verità che caccia i fantasmi (73). Ricoeur ripresenta qui quell’atteggiamento francescano del sentirsi «uno fra tanti» nella fraternità, già evocata in Le volontaire et l’involontaire nel 1950 e ripresa citando Bernanos in una nota di Soi-même comme un autre (1990). Si tratta di esorcizzare allora il «fantasma» del Male assoluto che vuole che «la Morte sia più reale che la Vita» (61), per farlo è necessario riconoscersi affratellati all’umanità e solidali con essa. Questo processo richiede di attivare quello che già in altre opere Ricoeur aveva chiamato il «lavoro della memoria» che si unisce al «lavoro del lutto» (63, 73) proprio di «coloro che hanno fatto prevalere la vita sulla “memoria della morte” » (64).
La sfida della morte richiede allora due passaggi. Il primo è esercitare il lavoro del lutto a spese dell’attaccamento a sé (76), «amare l’altro che mi sopravvivrà» (77), trasferire sull’altro l’amore per la vita, cosicché il distacco rivela la sua dimensione di generosità (78), si tratta di leggere l’agonia in termini di dono per gli altri, in termini di «morire per», poiché «il dono trasforma il distacco [di sé] in beneficio per l’altro» (89), il «dono-servizio» genera una comunità (91); il secondo passaggio è allora il «confidare in Dio» (75), affidarsi alla sua cura, alla sua memoria, in questo è la grazia: «Niente mi è dovuto. Non mi aspetto nulla per me; non chiedo nulla; ho rinunciato – tento di rinunciare! – a reclamare,a rivendicare. Dico: Dio, tu farai di me ciò che vorrai. Forse niente. Accetto di non essere più» (79). Non vi è più il desiderio di sopravvivere e di conservarsi, ma di essere «custoditi nella cura di Dio» (86). Risuona ancora Soi-même comme un autre («la grazia consiste nel dimenticarsi»). In questa «rinuncia all’ipse per prepararsi alla morte» (84) sta l’orizzonte della gaieté. Alla prospettiva heideggeriana dell’«essere-per-la-morte» Ricoeur contrappone l’«essere-fino-alla-morte» e addirittura l’«essere contro la morte» come scrive in un biglietto poche settimane prima di morire che ben riassume tutto il suo filosofare: «Dal fondo della vita, una potenza sorge, che dice che l’essere è essere contro la morte. Credetelo con me» (144).
I Fragments gettano una luce interessante sul rapporto controverso per la critica tra filosofia e fede nel pensiero ricoeuriano. Il cristianesimo per Ricoeur è «un caso trasformato in destino attraverso una scelta continua» (99), una casualità non subita, ma assunta, «è questa eredità, indefinitamente confrontata, sul piano dello studio, con tutte le tradizioni avverse o compatibili, che io dico trasformata in destino attraverso una scelta continua» (100). Ricoeur riprende il binomio di «convinzione» e «critica», di «motivazione» e «argomentazione» che dà come risultato l’«opinione retta», ponderata e una sorta di «adesione» che non è ingenua «fede» (101). La scelta continua passa attraverso la «controversia» che si distingue dalla neutrale «comparazione»: «la comparazione è sguardo dal di fuori, la controversia caratterizza l’impegno del credente fedele a una tradizione religiosa» (105) che approda così all’«adesione» sempre radicata nelle eredità culturali. Ricoeur precisa di non accettare la definizione di «filosofo cristiano»: «io sono (…) un filosofo tout court, anzi un filosofo senza assoluto», e insieme «un cristiano d’espressione filosofica, come Rembrandt è un pittore tout court e un cristiano d’espressione pittorica e Bach un musicista tout court e un cristiano d’espressione musicale» (107). Essere cristiano è un’adesione nata dalla controversia e non intacca affatto l’essere filosofi pieni, esercitare una filosofia che in sé ha una sua autonomia, autarchia, autosufficienza (108) come la pittura e la musica.
Il testo è ricco di suggestioni sebbene frammentario come ogni testo rimasto incompiuto. Alcune copie riprodotte dei fogli manoscritti di Ricoeur danno l’idea del travaglio di pensiero dell’autore. Il lettore attento non mancherà di notare che alcune indicazioni permettono di gettare una luce interessante su tutta l’opera precedente di Ricoeur. Anche per questo si tratta di un testo prezioso.
(Autore: Mauro Cinguetti. Fonte: recensione pubblicata su "Filosofia e Teologia", 2/2007, pp. 388-390).
01/06/08
L’ultima tribù di Indios
La tribù di "uomini rossi" che è stata fotografata dall'aereo mostra, di fatto, una quindicina di persone dai volti dipinti e armati di arco. La scoperta della spedizione finanziata dal governo dello stato brasiliano di Acre e dal Funai, agenzia governativa che difende i diritti degli indios in Brasile, conferma così l'esistenza di queste comunità tribali che alcuni sostengono essere, invece, "fantasiose". Anzi, secondo recenti stime gli indios "invisibili" ovvero nascosti nella foresta sarebbero circa cinquecento. Per di più, il gruppo di "guerrieri forti e in buona salute" fotografato apparterrebbe al maggiore delle quattro tribù isolate che ancora restano nell'area e di cui vi è una buona documentazione della loro presenza.
Gli indios ripresi dall'aereo sono quasi certamente sedentari e si pensa vivano in villaggi costituiti da poche grandi capanne chiaramente comunitarie. La loro principale forma di agricoltura appare basata essenzialmente sulla coltivazione di patate, banane e manioca, pianta da cui si ricavano fecole, speciali farine e amidi ad alto potere calorico. Dalle immagini, si vedono anche uomini intenti al lavoro su alcune piante, segno certo di attività rivolta ad un luogo abitato in modo non occasionale. Come pure si nota che il sito delle capanne è ricavato su di uno spiazzo ripulito dagli alberi. Insomma, una comunità organizzata.
Dagli anni '80, la Funai ha adottato la politica di non cercare un contatto umano con gli indios che ancora vivono isolati preferendo il sorvolo delle aree da loro abitate con elicotteri ed aerei con ritorno annuale o biennale. Il maggior pericolo per queste tribù primitive resta la distruzione del territorio ad opera dell'industria mineraria illegale cui si aggiunge un vasto disboscamento. Una minaccia che alle sorgenti del fiume Envira, il luogo dove è stato scoperto il villaggio, incombe su circa 250 indios. Proprio con la diffusione di queste immagini, la Fondazione nazionale per gli Indios, spera di sensibilizzare la società internazionale attirando la sua attenzione sul grave pericolo che stanno passando queste tribù. Non si dimentichi che perfino un minimo contatto con gli occidentali potrebbe risultare addirittura fatale anche a causa di molte malattie che risultando loro completamente nuove diverrebbero letali. Come un semplice raffreddore. Un evento poi non tanto remoto. Infatti, nel passato si sono avuti nella regione violenti scontri tra indios e braccianti. Nel mondo si contano ancora un centinaio di gruppi che vivono nel quasi completo isolamento. La maggior parte di queste tribù tribali si trova in America meridionale, soprattutto Brasile e Perù, ma altre vivono in Australia, Nuova Guinea e Isole Andamane. Tutti luoghi remoti e spesso inesplorati del pianeta. E' certo che si tratta di popolazioni uniche che una volta scomparse, lo sono per sempre.
(Autore:Marco Cerpelloni)