Ottimo cronista, il dottor Watson, ma forse un po' inadeguato all'impresa che dovrebbe sostenere. Descrive in modo meticoloso le imprese dell'ineffabile Sherlock Holmes, eppure dà sempre l'impressione di non comprenderne del tutto il metodo. Perché, insomma, come accidenti fa Holmes a fare quello che fa? Deduce, induce o, meglio ancora, abduce? Semplicemente intuisce o più logicamente inferisce? Formulate in rigoroso linguaggio filosofico, sono le stesse domande che ogni lettore di Arthur Conan Doyle si è posto almeno una volta, accontentandosi magari di fidarsi un po' alla cieca non tanto dell'autore, quanto piuttosto del suo mirabolante personaggio. Sono, nello stesso tempo, interrogativi seri, che meritano risposte circostanziate. La storia del poliziesco, infatti, è strettamente intrecciata con quella del pensiero contemporaneo, attraverso una serie di rimandi niente affatto inconsapevoli, sui quali si sofferma il nuovo, robusto e leggibilissimo saggio di Renato Giovannoli. Accompagnato da una complice prefazione di Umberto Eco, questo Elementare, Wittgenstein! può essere considerato come l'ideale prosecuzione di un altro studio di Giovannoli, l'ormai classico La scienza della fantascienza, anch'esso basato su un'attenta verifica delle fonti e delle relative premesse culturali. Fin dal titolo, il libro attuale fa perno sulla figura di Ludwig Wittgenstein, osservata nei momenti più significativi della sua ricerca. E così se nel "primo Wittgenstein", quello del Tractatus logico-philosophicus, si possono rintracciare gli indizi necessari all'individuazione del modello investigativo adoperato dal proverbiale Holmes, nel "secondo Wittgenstein", quello delle Philosophische Untersuchungen, emergono con prepotenza i segnali di una crisi che trova parallela espressione nei romanzi hard-boiled di cui lo stesso filosofo si dichiarava avido lettore.
Come e più di ogni altra forma letteraria, infatti, il poliziesco è anzitutto una rappresentazione del mondo e, di conseguen za, deriva da una concezione del mondo. Prendiamo Holmes, appunto, il detective razionalista nel cui modo di procedere Giovannoli individua gli elementi di una fedeltà addirittura ossessiva ai maestri della logica secentesca, primi fra tutti Leibniz e Cartesio. A ogni causa, in questa prospettiva, corrisponde un unico effetto: tutto sta a individuarlo con esattezza, dopo di che anche il più intricato degli enigmi si risolve da solo. È un processo di semplificazione comune, sia pure con le debite distinzioni, ad altri maestri del poliziesco classico, da S.S. Van Dine ad Agatha Christie. Ma se l'effetto, e cioè l'indizio, fosse intenzionalmente falsificato? Il dubbio, introdotto tra gli altri da Maurice Leblanc (l'inventore del ladro gentiluomo Arsène Lupin), prelude alla svolta "esistenzialista" che permette a Giovannoli di rintracciare puntuali consonanze fra l'opera di Martin Heidegger e le tormentate invenzioni di un narratore come Cornell Woolrich. Un accrescimento di complessità al quale corrisponde una diversa percezione dello spazio - sempre più incerto e contraddittorio - all'interno del quale si svolgono le avventure degli antieroi cari a Dashiell Hammett e a Raymond Chandler. Tanto che l'esito estremo dello studio di Giovannoli coincide con la trama programmaticamente frammentata di Città di vetro, il "non-poliziesco" al quale Paul Auster affida la raffigurazione definitiva della metropoli come labirinto dell'esperienza.
In questa interpretazione Giovannoli si avvale a più riprese dei racconti e delle riflessioni critiche di Gilbert Keith Chesterton, il cui personaggio-simbolo, il cattolicissimo padre Brown, è qualcosa di più del semplice interlocutore polemico contrapposto al razionalista e protestante Holmes. Chesterton, al contrario, si conferma come il portavoce più lucido di una visione teologica del poliziesco come «simbolo di misteri più alti» che troverà degna continuazione nella riflessione di Jorge Luis Borges. Del resto, che si tratti della Genesi o del Silenzio degli innocenti, l'indagine sulle tracce di un assassino ha sempre qualcosa di metafisico.
In questa interpretazione Giovannoli si avvale a più riprese dei racconti e delle riflessioni critiche di Gilbert Keith Chesterton, il cui personaggio-simbolo, il cattolicissimo padre Brown, è qualcosa di più del semplice interlocutore polemico contrapposto al razionalista e protestante Holmes. Chesterton, al contrario, si conferma come il portavoce più lucido di una visione teologica del poliziesco come «simbolo di misteri più alti» che troverà degna continuazione nella riflessione di Jorge Luis Borges. Del resto, che si tratti della Genesi o del Silenzio degli innocenti, l'indagine sulle tracce di un assassino ha sempre qualcosa di metafisico.
(Renato Giovannoli, Elementare, Wittgenstein! Filosofia del racconto poliziesco, Medusa. Pagine 374).
(Autore: Di Alessandro Zaccuri; Fonte: Avvenire del 10/03/2007)
Addendum
Renato Giovannoli è scrittore esperto di fantasy e autore di un libro davvero appassionante, La scienza della fantascienza. Chi ha letto questo libro sa che non è una storia della fantascienza, né una riflessione sull’attendibilità scientifica della fantascienza, bensì un libro sulle principali idee finzionalmente scientifiche che circolano nei principali romanzi e racconti di fantascienza. Queste idee dimostrano una insospettabile coerenza, come se costituissero un sistema, pari per omogeneità e consequenzialità a quello della scienza.
L’indagine di Giovannoli è stata possibile (e appare plausibile, nella sua rigorosa trattazione delle leggi della robotica, della natura degli alieni e dei mutanti, dell’iperspazio e della quarta dimensione, dei viaggi nel tempo e dei paradossi temporali, degli universi paralleli e via dicendo) per almeno tre ragioni: la prima, e la più banale, è che gli autori di fantascienza si leggevano e si leggono tra loro, e quindi alcuni temi migrano da storia a storia, e vengono ripresi e approfonditi, così che si è creato come un sistema parallelo a quello della scienza ufficiale; la seconda è che i romanzieri di fantascienza avevano sottocchio i problemi posti dalla scienza, e sviluppavano le loro finzioni non in opposizione alle soluzioni della scienza, ma semplicemente traendone le conseguenze più estreme, seguendo rigorosamente non tanto una logica dell’inverosimile quanto una logica dell’ipotetico; e la terza è che alcune delle idee ventilate dalla fantascienza (e basterebbe partire dai padri fondatori, o almeno da Verne e dalle meraviglie del futuro descritte da Salgari o Robida) di fatto sono poi diventate realtà, come i viaggi spaziali, o le applicazioni dell’intelligenza artificiale, tal che non si può prescindere dal sospetto che per tanti aspetti la scienza della fantascienza avesse non solo anticipato ma in un certo qual modo ispirato la scienza della scienza.
(Autore: Di Alessandro Zaccuri; Fonte: Avvenire del 10/03/2007)
Addendum
Renato Giovannoli è scrittore esperto di fantasy e autore di un libro davvero appassionante, La scienza della fantascienza. Chi ha letto questo libro sa che non è una storia della fantascienza, né una riflessione sull’attendibilità scientifica della fantascienza, bensì un libro sulle principali idee finzionalmente scientifiche che circolano nei principali romanzi e racconti di fantascienza. Queste idee dimostrano una insospettabile coerenza, come se costituissero un sistema, pari per omogeneità e consequenzialità a quello della scienza.
L’indagine di Giovannoli è stata possibile (e appare plausibile, nella sua rigorosa trattazione delle leggi della robotica, della natura degli alieni e dei mutanti, dell’iperspazio e della quarta dimensione, dei viaggi nel tempo e dei paradossi temporali, degli universi paralleli e via dicendo) per almeno tre ragioni: la prima, e la più banale, è che gli autori di fantascienza si leggevano e si leggono tra loro, e quindi alcuni temi migrano da storia a storia, e vengono ripresi e approfonditi, così che si è creato come un sistema parallelo a quello della scienza ufficiale; la seconda è che i romanzieri di fantascienza avevano sottocchio i problemi posti dalla scienza, e sviluppavano le loro finzioni non in opposizione alle soluzioni della scienza, ma semplicemente traendone le conseguenze più estreme, seguendo rigorosamente non tanto una logica dell’inverosimile quanto una logica dell’ipotetico; e la terza è che alcune delle idee ventilate dalla fantascienza (e basterebbe partire dai padri fondatori, o almeno da Verne e dalle meraviglie del futuro descritte da Salgari o Robida) di fatto sono poi diventate realtà, come i viaggi spaziali, o le applicazioni dell’intelligenza artificiale, tal che non si può prescindere dal sospetto che per tanti aspetti la scienza della fantascienza avesse non solo anticipato ma in un certo qual modo ispirato la scienza della scienza.
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