24/05/12

Potere spirituale e potere temporale in Dante. Alessandro Scali replica a Giuseppe Gorlani

   
di Alessandro Scali 
 
Amici, le osservazioni di Gorlani mi chiamano a due risposte: la prima a nome e per conto di Dante, spirito intransigente e mordace; la seconda sarà la mia, tenuta a bada e stringata per quanto possibile.

Quanto a me, una volta osservato: 

-                     che i dotti rilievi sull’insufficienza della classica ripartizione “temporale-spirituale” non considerano l’ampiezza di significato  comunemente attribuita al secondo termine, per cui poco utili appaiono nello specifico;

-                     che il tema è stato spostato su tavoli inesistenti, atteso che l’idea che i due poteri non siano gerarchicamente ordinati non ha mai attraversato mente e intelletto di Dante (e pertanto nemmeno la volgarizzazione del suo umile scudiero). Bisognava prima capire perché Farinata degli Uberti staziona nell’Inferno, e perché  Giustiniano, in paradiso, si relaziona prima con papa Agapito;

-          che non è bastato né a Dante rimarcare: “Illa igitur reverentia Caesar utatur...”, né a me di sostenerlo con “...la funzione temporale sia subordinata a quella spirituale...”, integrato poi col praestantior di Giona d’Orleans, per uscire dalla taccia di essere ambedue  extra Traditionem;

-          che l’etimologica speculazione del critico sul “subordinato” dimentica l’inversione di gerarchia che si determina tra il mondo dei principî e quello terreno, per cui preordinato e subordinato si ribaltano (come Dante tra Inferno e Purgatorio);

-          che con tutta evidenza il prefato evita sia di sterilizzare Dante e la sua Monárchia, sia di demolire le fonti citate a rincalzo (colonne della dottrina cristiano-cattolica), eventualmente citandone altrettante non meno autorevoli e di opposta valenza (ma rimanendo in temporalibus);

-                     che il suddetto, pur avendo presente Evola e Guenon, non si è accorto che la posizione dantesca è esattamente quella che trova il punto di equilibrio, nella nota divergenza tra i due intercorsa, in quella “sostanza inferiore a Dio”, in cui si unificano i due poteri, identificabile nel cristianesimo in Meiki-Tsedeq (Re di pace e di Giustizia) così come nella tradizione induista nel Brahâtmâ si unificano Mahâtmâ e Mahânga;

poco rimane da aggiungere, salvo il rammarico di confessarvi che tutto ciò è di nano-importanza rispetto allo sgomento nel vedere ancora ignorato il dramma che stringe soprattutto i popoli cattolici, e in particolare il nostro, dramma esistenziale che inutilmente Dante ha interpretato e denunciato. Traduco: è possibile che ancora non ci si renda conto che è giusto sia dire: bisogna perdonare l’assassino, come predica la Chiesa, sia richiederne la dura condanna, come la giustizia reclama? Il cattolico che non distingue tra i doveri legati a questo mondo e a quello superiore ha preso terra a Babilonia: non corrisponde né agli uni né agli altri. Si rifletta invece sul perché, a fronte di queste  legittime opposte posizioni, fu lo stesso Giovanni Paolo II a richiedere che si intervenisse militarmente in Serbia, dove la guerra etnica aveva scatenato forze sataniche.
Non è insomma chiaro che nelle vicende mondane lo spirituale si “subordina” (scil.: viene dopo) al temporale, proprio in funzione anagogica? Nel mondo dei principî si comincia dall’alto, (dal “Quarto” upanishadico e dionisiano), in quello terreno dal basso (l’inferno) a mettere ordine. E nemmeno è chiaro che nel contesto sociale l’etica si impone con la spada (la legge), onde preparare il terreno per il trascendente, e che viene sempre prima la giustizia e poi la pace?
E sopraintende alla giustizia terrena il potere temporale o l’autorità spirituale, cui spetta unicamente il compito di mantenere vivo il contatto col metafisico, elaborandone (la ruminatio) il simbolo?
 E’ possibile che su fondamentali di quest’ordine ci sia ancora chi fa accademia?

1 commento:

  1. Dichiarando i miei dubbi sulla questione serba, innazitutto a me pare che la si pone egualmente male la faccenda.
    Le complicazioni sorgono nel dimenticare che ogni trasposizione è su piani diversi seppur analogica.

    Innazitutto Pietro non è di per sé figlio del tuono.

    Guardando ad oriente la dottrina delle due spade non ha senso poiché l'Imperatore è al contempo chierico.

    Troppo spesso diciamo interno ed esterno scordando l'intermedio.
    Troppo spesso dichiariamo che che i gradi iniziatici principali siano 2 ( grandi e piccoli misteri ) mentre invece sono tre ( cfr. Guénon "la triplice cinta druidica" ) come 3 sono le marga hindù inerentemente alla natura degli individui.

    Qual è dunque il grando imperiale e come correlarlo alla istituzione petrian che sembra così simile?

    Daouda

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