Cristo re e sacerdote
Potere sacerdotale e potere regale
Le riflessioni che seguono traggono spunto
dalla lettura di un articolo di don Curzio Nitoglia e da un’accurata chiosa ad
esso del dantista Alessandro Scali. Riassumiamo sinteticamente gli
interrogativi che emergono dai due scritti: i poteri sacerdotale e regale sono
in rapporto gerarchico l’uno con l’altro, ovvero il secondo deriva dal primo, oppure
sono distinti e attingono separatamente autorità e carisma da Dio? E ancora,
ammessane la distinzione, che cosa significa che il secondo è “subordinato” al
primo? Stabilire quale sia il giusto rapporto tra i due poteri è una vexata quaestio che le varie tradizioni
religiose hanno affrontato in modo diverso, pur all’interno di una convergenza
di fondo.
A onor del vero, secondo chi scrive si
dovrebbe parlare di tre poteri: spirituale, sacerdotale e temporale. Sarebbe
opportuno, infatti, distinguere tra metafisica, alla quale possono accedere
soltanto i mistici e i saggi, e
ontologia, alla quale si riferisce il secondo potere: identificare sic et simpliciter il potere spirituale
e quello sacerdotale può dar adito a gravi fraintendimenti. Per aderire al tema
in oggetto, favorendone la comprensione, ci si atterrà comunque
all’impostazione binaria.
Va rilevato innanzitutto come la Creazione o
il Manifesto, per dirla all’orientale, ubbidisca necessariamente alla legge
gerarchica, secondo la quale l’importanza dei vari princìpi è determinata dalla
loro maggiore o minore riflessione-consapevolezza dello Spirito. In codesta visione
tradizionale, pur essendo riconosciuta l’onnipervadenza del Principio e
l’unificazione dei poteri in Cristo, si ritiene che il superiore contenga
l’inferiore, non viceversa. Ciò spiegherebbe, tra l’altro, l’imprescindibilità
della Grazia: l’inferiore non può realizzare il superiore, ma ha la facoltà di
purificarsi, svuotarsi, rendersi degno, affinché il secondo, l’Oro trascendente,
riassuma in Sé l’Oro immanente messo a nudo per mezzo del deneget seipsum evangelico.
La difficoltà più ardua nel collocare
ordinatamente i vari princìpi riguarda i primi due. Nota Scali nel suo scritto:
«Insomma, che questo mondo sia nel segno della dualità (il fondamento biblico è
in Adamo ed Eva: v. Filone Alessandrino. De
opif. Mundi) non dovrebbe sorprendere nessuno». Ciò è senz’altro vero: tutto
è duale sub sole, ma appare
altrettanto evidente come l’uomo, pressoché universalmente, abbia sempre
riconosciuto una gerarchia in qualsiasi dualità, a cominciare da quella
principiale. Se la dualità fosse irrimediabile, in che modo ci si potrebbe
reintegrare nell’Unità?
Facciamo alcuni esempi: nella Bibbia, Eva,
il femminile, discende da Adamo; la luna, secondo la Prashna Upanishad, discende dal sole, il quale a sua volta discende
dal Brahman; nel darshana ortodosso del Samkhya
si ha realizzazione del Bene allorché il Purusha
si distacca dalla Prakriti (l’energia
indifferenziata) per reimmergesi nella sua completezza.
Sembra fare eccezione il taoismo antico che
nel Tao Te Ching (42) recita: «Il Tao
produsse l’uno / l’uno produsse il due / il due produsse il tre / ed il tre
dette vita a tutti gli esseri». Sebbene il due, costituito dallo yang e dallo yin, venga in teoria interpretato come una coppia di opposti
complementari, nella realtà poi si propende sottilmente per uno yang temperato dallo yin, ossia vicino al punto di
equilibrio: la maggior parte delle malattie sono di natura yin. Lo stesso potrebbe dirsi riguardo alle coppie di opposti
bene-male o luce-ombra, in cui il primo termine prevale sul secondo.
La necessità di operare distinzioni
gerachiche all’interno della dualità si esprime persino nel rapporto
orizzontale destra-sinistra; qui abbiamo puntualmente il prevalere del
destrismo: la destra è la mano pura ed è associata al sole, al maschile, la
sinistra è quella impura ed è associata alla luna, al femminile (cfr. Silvio
Curletto, La norma e il suo rovescio,
Ge 1990).
Un’altra dualità fondamentale è Immanifesto
e Manifesto, Brahman nirguna e Brahman saguna, Deus absconditus
e Deus revelatus. Secondo il darshana Vedanta, solo il primo è assolutamente reale, mentre invece per lo
Shivaismo del Kashmir (detto Trika,
poiché fondato su tre princìpi) il Manifesto non sarebbe apparenza o illusoria
sovrapposizione, bensì libera azione creativa di Dio. Tuttavia, anche in
quest’ultima Scuola, che per alcuni versi si avvicina all’insegnamento
Cristiano, il fenomenico, pur non venendo rifiutato ma anzi valutato quale
gioiosa vibrazione connaturata a Shiva, va vissuto senza immedesimarvisi ciecamente,
pena il fallire la mèta del risveglio Non-duale.
Se dunque non ci si può sottrarre ad una
valutazione scalare della dualità, ne deriverà che anche tra potere sacerdotale
e potere temporale – o, se vogliamo, tra il “dare a Dio” e il “dare a Cesare” –
si dovrà operare una distinzione gerarchica, in cui al potere incentrato sull’attenzione
all’Immutabile si attribuirà il primato rispetto al potere-giustizia inerente
il transeunte. L’esperienza insegna come il “dare a Cesare” entri spesso in
contrasto con il “dare a Dio” e come ciò accada nei casi in cui Cesare si
sottragga all’influenza divina, negando la supremazia sacerdotale. Ovviamente,
in una società fondata sulla Norma, la superiorità di un principio sull’altro
non potrà mai significare che l’inferiore dev’essere disprezzato o violentato,
bensì innanzitutto accettato ed indi aiutato, ispirato ad elevarsi alla Verità
ultima.
In riferimento al rapporto tra il potere
imperiale e quello sacerdotale, Scali usa giustamente il termine “subordinato”.
Egli sostiene altresì che sarebbe assurdo se i re in spiritualibus non facessero riferimento al Papa. Subordinato
vuol dire “dipendente, di ordine inferiore, secondario” e, nel linguaggio
matematico, indica un sottoinsieme contenuto in un insieme più grande della
stessa natura. A questo punto, però, che il potere politico possa essere
subordinato e, nello stesso tempo, distinto o addirittura autonomo, tanto da
attingere direttamente il proprio charisma
dal Principio, diventa contraddizione incomprensibile.
Certo, secondo la dottrina giovannea si
ritiene «che la deificazione dell’uomo non esiga la rinuncia a essere tale, ma
al contrario, porta al culmine il processo della sua umanizzazione [...] Non
c’è nell’uomo dualismo fra l’umano e il divino: il divino è il culmine della
sua umanità» (Dizionario teologico del
Vangelo di Giovanni, Assisi 1982), tuttavia, nel Vangelo secondo Matteo (6. 19-21), Gesù afferma: «Non accumulatevi
tesori sulla terra, dove il tarlo e la ruggine logorano e i ladri scassinano e
rubano. Accumulate invece tesori nel cielo [...] Infatti, dov’è il tuo tesoro,
ivi è pure il tuo cuore». E poco più avanti (6. 24): «Nessuno può servire a due
padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e
trascurerà l’altro: non potete servire a Dio e a Mammona». Il che equivale a
dire, tra l’altro, che il “cuore” dell’uomo è radicato nel sovrasensibile, pur
non negando l’umano. Adombrando la “dimensione” metafisica, alla quale si era
accennato all’inizio del presente scritto, e sottolineandone la preminenza,
Marco Vannini, nella sua opera La
religione della ragione (Mi 2007), scrive: «[...] bisogna intendere per cristianesimo l’evangelico abnegare semetispum: rinuncia a se
stessi, al proprio volere; fede non in quanto adesione a dottrine, ma in quanto
affidamento a Dio soltanto, fino a diventare con Lui uno spirito, un unico Uno».
Come si era già in precedenza evidenziato, l’onnipervadenza
di Dio, o, in termini Cristiani, la sua incarnazione nell’uomo, non va intesa
come limitazione o menomazione della sua trascendenza: il Mistero rimane
intatto, inaccessibile alla mente duale. Non troviamo perciò alcuna legittima
giustificazione all’annullamento dell’ordine scalare dei princìpi. Che Gesù sia
re può significare semplicemente che è tutto, sacerdote, falegname, lebbroso, e
oltre tutto. Solo il mistico o, in ottica Hindu,
il sannyasin, l’asceta che ha
rinunciato a qualsiasi identificazione, possono attingere direttamente al
divino, scavalcando qualsiasi intermediario e gerarchia. Ma tale condizione non
è certo quella in cui si trova il potere temporale, il cui dharma consiste proprio nel tutelare l’ordine e la giustizia nelle
relazioni tra gli uomini e tra questi e la natura, mantenendoli focalizzati sul
Centro, ovvero sul Sacro: il fine ultimo ed universale.
All’ordine sacerdotale, detentore del potere
ontologico, competerà invece la custodia dell’accesso al Centro; dal che si
deduce come sia impensabile raggiungere la mèta – almeno per chi segua la via
progressiva dei Padri (Pitriyana) –
senza passare attraverso la sua approvazione. L’auctoritas di cui la casta sacerdotale è investita non va però
interpretata come facoltà di imporre brutalmente agli uomini verità spirituali.
Queste non possono per loro natura essere subite passivamente, bensì accettate
dalla ragione e intuite o comprese con l’Intelligenza del Cuore (la buddhi) prima di essere praticate volontariamente.
Perciò, mentre al sacerdote spetterà di custodire la validità della dottrina, ispirando
e persuadendo con l’esempio, al re competerà emanare e far rispettare all’uomo
decaduto dell’Era Oscura (incapace ormai di essere il re di se stesso) alcune
leggi fondamentali; beninteso tale giustizia dovrà conformarsi alla
realizzazione del Bene e non ostacolarla. In simile chiave troviamo assai appropriato
che Dante assegni all’uomo due fini: l’uno legato alla sua anima immortale e
l’altro legato alla sua individualità o personalità incarnata. Essi potrebbero
corrispondere al Dharma universale
della reintegrazione nel Divino e allo svadharma
inerente alla natura propria dell’ente, il cui compimento prelude alla
realizzazione del fine ultimo.
A proposito della dialettica tra i due
poteri, ci sembra opportuno rammentare il grande pensatore Julius Evola, il
quale osò proclamare la pari dignità tra la Via dell’Azione e la Conoscenza.
Stimiamo profondamente Evola e il suo lavoro di riproposizione della visione
tradizionale, ma crediamo che su questo tema egli abbia manifestato una sorta
di cedimento dovuto al suo “attaccamento” alla casta cui apparteneva. Dal punto
di vista del Sanatana-dharma vi sono due
tipi di azione: quella sacrificale, purificatrice, il cui compito non consiste
nel conoscere direttamente, per identità (la qual cosa sarebbe impossibile dato
che l’Assoluto non è “oggetto” o “mèta” raggiungibile dall’io-mente), ma nel
togliere il superfluo e nell’indurre l’ente al silenzio attraverso
l’espletamento del proprio dovere personale, affinché emerga la Verità in Sé,
eternamente presente; e quella spontanea, libera, non sempre comprensibile dalla
ragione, di cui gode l’illuminato o il santo, nella quale si riflette, per
quanto umanamente possibile, il libero creare, vibrare od emanare del divino.
Sintetizzando, la Via dell’Azione è
propedeutica alla Conoscenza, ma di quest’ultima, in virtù del suo porsi al di
là di qualsiasi dualità o acquisizione dicibile, non si può dire che costituisca
una “via”. Lo ribadiamo, la Conoscenza non riguarda necessariamente nemmeno il
sacerdote: questi, occupandosi di teologia e di riti, la addita soltanto e rimane
nella sfera dell’azione, sia pur sottilissima.
Interessante è notare come il sovvertimento
del giusto rapporto tra i poteri abbia segnato l’inizio del Kali-yuga. Nell’epopea del Mahabharata viene ritratto uno scontro
tra due grandi dinastie di kshatriya,
una legittima, i Pandava, e l’altra illegittima, i Kaurava; la prima sceglie di
affidarsi alla guida divina di Krishna, la seconda vi preferisce una vasta
armata e rimarrà sconfitta. Più tardi, rispetto ai tempi pre-storici ritratti
nel Mahabharata, (collocati dalla
tradizione all’incirca nel 3000 a.C.), abbiamo un altro moto di sovversione
della Norma coincidente col dilagare del Buddhismo, che induce gli kshatriya a rifiutare la supremazia dei brahmana e ad abbandonare le qualità
proprie ai guerrieri, improntate ad un agire distaccato dai frutti, per
assumere i valori degli asceti rinunciatari. Ciò aggraverà ulteriormente la
decadenza generale della società e, in particolare, dello status tradizionale dei prìncipi. Non a caso il primo impero storico
dell’India venne creato dall’usurpatore Mahapadma Nanda, sovrano di bassa casta.
La sovversione della Norma-Dharma e del giusto rapporto gerarchico
tra le varie funzioni ordinanti la società è quindi proseguita con l’avanzare
della Storia sino allo sfascio e alla confusione, considerati “emancipazione
dall’oscurantismo” e segni di “evoluzione”, dei nostri giorni. Naturalmente a
tali condizioni degenerate non si sarebbe giunti se alla casta sacerdotale e a
quella politica fossero sempre corrisposti poteri autentici; purtroppo nell’Era
Oscura gli incapaci e i corrotti assumono sin troppo spesso le massime cariche,
interpretandole quali privilegi invece che come responsabilità e servizio, e i
meritevoli di fiducia vengono ignorati o addirittura perseguitati.
Tornando al nesso tra potere sacerdotale e
potere regale, non sembra che vi possano essere dubbi nel riconoscere, almeno
in linea di principio, come il secondo debba sottomettersi al primo,
attingendovi ispirazione, approvazione e guida. D’altro canto, ripugna pensare
ad una auctoritas spirituale e
sacerdotale che non sappia distaccarsi da istanze coercitive e che,
fraintendendo o dimenticando l’essenza che la anima, usi la violenza per
coartare gli uomini nell’alveo dell’ortodossia, ovvero del corretto
orientamento. Le uniche azioni plausibili da parte degli uomini che si votano
allo Spirito, il quale ha dotato l’ánthropos
di libero arbitrio, conferendogli un alto valore, parrebbero pertanto non
superare gli ambiti dell’esempio e della persuasione.
A causa della confusione alla quale si
accennava poc’anzi, oggi risulta assai difficile stabilire dove finisca il
potere sacerdotale e cominci quello regale. Concludiamo quindi con una
riflessione di Giovanni M. Tateo, tratta dalla sua recensione all’importante
volumetto di Frithiof Schuon Considerazioni
sull’opera di René Guénon: «Sia detto subito, prima di entrare nel merito,
che discernere effettivamente quale sia la posizione dottrinale più corretta su
questioni di grande delicatezza e importanza, richiede certamente non solo
delle qualificazioni personali e delle competenze notevoli, ma anche, o
soprattutto, una grazia ed una illuminazione che solo la divina Misericordia
possono concedere».
Giuseppe Gorlani
Aldo , calare tali precisazioni riguardo le differenti concezioni imperiali dell'oriente ed occidente cristiano sarebbe possibile?
RispondiEliminaGrazie ed a risentirci, Davide