Sono passati cento anni dalla nascita, avvenuta l’8 aprile 1911, e quasi sedici dalla morte di Emil Cioran, il 20 giugno 1995. Ripensare a Cioran, che – come Czeslaw Milosz – rappresentò l’epoca della disgregazione della Mitteleuropa tra le due guerre, porta a riconsiderarlo anche alla luce del nostro tempo. Vi avvengono crolli e mutazioni che non è esagerato dire epocali, dato che hanno sconvolto quasi di colpo la storia, la geografia, la fisica. Da un lato, grazie anche alla "rete", che rivoluziona i rapporti di spazio e tempo, grandi stati d’Africa e d’Asia rovesciano regimi ed equilibri antichi, con una rapidità imparagonabile a quella che visse Cioran stesso come esule dalla Romania nel 1937.
Dall’altro il nucleare incontrollato di Fukushima rappresenta l’esperienza della catastrofe come possibilità quotidiana: una novità rispetto alla sua eventualità volontaria, finora più rara, scatenata dalle bombe di Hiroshima. Non si tratta di vagliare improbabili visioni profetiche di Cioran. In fondo, era prevedibile quanto scrisse nel 1970: «L’umanità ha conosciuto angosce incredibilmente più intense di quelle che proviamo oggi – pensiamo alle pestilenze, all’attesa della fine del mondo, alle invasioni barbariche. Sì, certo. Ma essa non aveva i mezzi per affrettare da sé la "fine del mondo". Gli dèi potevano sempre intervenire, e d’altronde erano loro a decretare la fine. Oggi sappiamo che questa si prepara nei laboratori e può sopraggiungere in ogni momento, vuoi per calcolo, vuoi per inavvertenza. È questo che rende l’avventura umana così interessante. Giacché proprio di avventura si tratta». Piuttosto, dobbiamo capire meglio perché continuiamo ad amare la sua natura colta e selvaggia, e suggerire nuove ragioni di farlo, a chi ancora non lo conosce. Non è un filosofo in senso classico, né moderno. «Ho sempre sospettato la filosofia di ingenuità, dovrei dire di orgoglio ingenuo. Niente è più facile che fabbricare opposizioni servendosi di categorie… Pensare vuol dire cercare la sfumatura, non semplificare. Ma la sfumatura è nemica della categoria».
È ingenua anche la formula di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Perché le domande vere sono quelle originarie alle quali non si può dare riposta, ma attraversano la carne, e, si voglia o no, riguardano tutte la morte. Non è un moralista né un romanziere. La sua immensa curiosità per gli esseri umani e gli scrittori – Montaigne, Pascal, Swift, Dostoevskij, Baudelaire, Dickinson, Beckett – è una ricerca della verità che proietta in lui: «Perché ogni cammino che non conduce alla nostra solitudine o non ne proceda, è deviazione, errore, perdita di tempo».
Così il suo io diventa un’amplificazione del teatro del mondo. Non è un teologo. Figlio e nipote di preti ortodossi, conosce le Scritture sacre, tutte le teologie e le religioni, ma il suo insonne accerchiamento di Dio, anche a colpi di insulti e blasfemìe, è il fallimento più tragico. Per lui Dio non risponde. È il Nulla, o la Figura Oscura della mistica, che sembra presente solo nell’esperienza estatica della musica, quando ascoltando Bach o Haendel, si è costretti a dire: «Dio deve esistere». Ma questa "prova" dell’esistenza di Dio non ha durata. Cioran ripiomba nell’ «esilio metafisico» dal Paradiso cui appartiene e dal quale è stato cacciato. La sua unica arma è la nostalgia: «Nessuno è più estraneo di me a questo mondo […] Sentire piangere la propria carne, sentire nel proprio sangue scorrere lacrime: è in preda a queste sensazioni che si può capire Plotino quando dice che l’esistenza quaggiù è "l’anima che ha perduto le ali"».
È tentato dal Vuoto buddista: quiete di una felicità senza materia. Nemmeno questa condizione è sua. Lo risveglia il dolore, l’incubo del tempo, dal quale emerge solo in momenti di grazia. La natura della mente di Cioran, sottile e velocissima, capace delle astrazioni più ardue, attraversa tutte le contraddizioni e gli estremi del pensiero, incapace di fermarsi ad abbracciare l’uno o l’altro. Qualcuno lo accusò di "gioco". Non è un poeta. Odia chi è falsamente poetico e il lirismo in prosa. In realtà la sua prosa densissima, asciutta, tagliente, serba la linfa di una poesia nascosta. La lingua francese gli ha imposto il senso del limite e della rinuncia. Governando la folle abbondanza del rumeno con la grammatica francese, Cioran contiene la propria esplosione autodistruttiva.
Al suo stile di scorci, aforismi, omissioni, dentro il quale avvertiamo il flusso di nostalgia segreta, dobbiamo l’intero fascino di Cioran, che solo attraverso il "non" può essere se stesso. In questa forma ellittica si salvano i frantumi dell’immenso mondo mitico e religioso, storico e letterario che lo scrittore coltissimo depone in riva alla Senna. Il cardinale Gianfranco Ravasi non poteva scegliere una figura più complessa e opportuna, per inaugurare le riflessioni del Cortile dei Gentili, commentandone il paradosso del Nulla tragico che non è mai il "mero nulla" di tanti individui, più cornici che uomini. Forse pensando alla sua malinconia atroce, ha rievocato la pesatura delle anime egizia nel pensiero di ascendenza biblica: «Nel giorno del giudizio verranno pesate solo le lacrime». Un’antichità magnanima e selvaggia scuote le parole di Cioran: «Quanto detesto la civiltà per il discredito in cui ha gettato le lacrime! È per aver disimparato a piangere che siamo tutti senza risorse, inchiodati ai nostri occhi aridi».
Rosita Copioli, www.avvenire.it
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