di Giuseppe Gorlani
Ho letto il breve articolo di Massimo Fini intitolato “Liberate Kabul” e ne sono stato toccato. Verso la fine degli anni Sessanta e agli inizi degli anni Settanta ho trascorso in Afghanistan alcuni mesi, innamorandomene, e dunque percepisco con particolare intensità e sofferenza il dramma che lo sta devastando. Prima dell’invasione russa e, in seguito, di quella anglo-americana, l’Afghanistan era un Paese bellissimo: l’aria, i villaggi, l’architettura, il cibo, l’ospitalità, la musica, l’abbigliamento, i volti, tutto era in armonia con la sua natura incontaminata. Dal punto di vista sociale non dubito che vi fossero pregi e difetti, ma vi si respirava un’atmosfera di grande armonia.
Personalmente, la cosa che trovavo più affascinante era che tale Paese vivesse fuori dal frenetico scorrere del tempo storico occidentale e dalle sue ansie progressiste, ancorato ad una sorta di medioevo immutabile. Gli Afghani avevano una percezione del tempo ed una visione escatologica radicalmente diverse da quelle del mondo moderno occidentale, il quale, tra l’altro, di escatologia non si occupa affatto o finge solo di occuparsene.
La battaglia che là si sta svolgendo può dunque essere interpretata simbolicamente: da un lato abbiamo un occidente degenerato, antitradizionale, avverso ad ogni forma di autentica spiritualità, mondialista, convinto che il “destino manifesto” gli dia il diritto di imporsi su tutti gli altri popoli; dall’altro, una società ierocratica, non interessata a qualsivoglia forma di sapere che non orienti verso Dio, sorgente, sostegno e fine ultimo di tutto. Il primo pone al centro l’inquietudine di un anthropos che, pur convinto di emergere dal nulla o dal caso e a questi di ritornare, si muove con la tracotanza cieca e la frustrazione del tiranno circondato da oggetti da sfruttare; ho utilizzato l’aggettivo “cieca”, poiché, come già accennato, tale hybris non contempla minimamente (o forse solo in modo superficiale) la questione dell’impermanenza e della morte, ovvero dell’epilogo e della finalità dell’ente individuato e quindi, per contrasto, dell’Assoluto. La seconda pone al centro il culto, l’attenzione per l’Essere, variamente inteso.
Di recente ho letto in “Corriere Metapolitico” un interessante articolo di Christian Rangdreul intitolato “Geopolitica della Talvera”, nel quale, a proposito del Grande Gioco, si legge: «È stato infatti Rudyard Kipling a chiamare in questo modo la lotta di influenze che ha opposto, che oppone ancora, e che opporrà sino alla fine della storia, la Talassocrazia – ieri l’Inghilterra, oggi gli Stati Uniti – e la Tellurocrazia – la Russia – per il controllo dell’Asia centrale, cuore insieme alla Siberia dell’“Isola del Mondo”, la “più grande isola”, vale a dire il blocco Eurasia-Africa». La “talassocrazia”, dominio del mare, potere che si fonda sulla signoria dei mari, è associata all’acqua e dunque al mentale, all’io psicosomatico volubile, preda di passioni, emozioni ed istinti. La “tellurocrazia”, dominio della terra, contenente nel proprio intimo un nucleo di fuoco, rimanda invece a ciò che è stabile e permanente, al sé spirituale.
Secondo me, tale contrapposizione non è tuttavia irriducibile. In un’ottica tradizionale, infatti, i vari elementi o principi (tattva) costituenti l’Universo si reintegrano gerarchicamente gli uni negli altri sino a risolversi nell’Essere. Lungo la via del ritorno al Centro, l’acqua (il mercurio volubile) dovrebbe essere fissata dal fuoco (lo zolfo, lo spirito) con lo scopo di risvegliare il nous, l’azoto dei saggi, l’acqua di fuoco, la buddhi, l’Intelletto d’Amore dantesco: l’aspetto sottilissimo della mente capace di intuire il sovrasensibile e di fungere da ponte tra il dicibile e l’indicibile.
Benché in un mondo ordinato secondo la Norma (Dharma) sarebbe naturale che i vari elementi cooperassero all’armonia dell’insieme, nell’Era oscura o Età del Ferro, in cui stiamo vivendo, la contrapposizione di cui sopra resta relativamente valida, provocando disordine e tormento. Le forze della terra e le forze del mare si stanno contendendo il “cuore” del pianeta, in cui arde il Fuoco segreto, scaturigine di ogni potere. E se si considera come l’Afghanistan sia assai prossimo all’Hearthland, si comprende la ragione per la quale nel presente scorcio di Kali-yuga là si stia combattendo.
Nell’articolo di Fini, dal quale ho preso spunto per queste riflessioni, si sottolinea giustamente la sproporzione delle forze in campo. Gli occidentali hanno armi sofisticatissime (terribili bombe all’uranio impoverito, droni, Dardo, Predator, aerei senza equipaggio teleguidati dal Nevada), gli afghani hanno poco più di fucili e mortai. Si tratta davvero di una battaglia tra la Macchina e l’Uomo. Ed è una vergogna che l’Europa ed in particolare l’Italia (in antico detta Saturnia Tellus, Terra di Satya, la Verità) si siano messi dalla parte della Macchina contro l’Uomo. È una presa di posizione radicalmente anti-europea e anti-italiana che ci fa soffrire nell’intimo, giacché non appartiene alla nostra natura improntata all’aurea mediocritas oraziana.
Fini chiama “sporcaccioni” i celebri firmatari dell’appello per la liberazione di Sakineh (V.S. Naipul, Robert Redford, Juliette Binoche, Robert De Niro, Colin Firth, Sting, Ed Miliband, Kouchner, Antonia Fraser, Bernard-Henry Lévy): elevano un’adultera assassina a simbolo di libertà e di emancipazione della donna, ma ignorano le decine di migliaia di donne che l’occidente sta massacrando in Afghanistan, magari col prestesto di liberarle dalle barbarie del chadri a cui sarebbero sottoposte. A “sporcaccioni”, termine colorito ma efficace, si può tranquillamente aggiungere “ipocriti” o “sepolcri imbiancati”. A costoro non importa che il sangue scorra a fiumi e che le peggiori sofferenze dilaghino, purché i loro effimeri privilegi vengano preservati e le loro mani non si sporchino: ci penseranno alcuni avidi mercenari e le imbattibili macchine che l’homo oeconomicus ha inventato per sbrigare il lavoro di rimuovere i dissidenti o, meglio, i resistenti all’omologazione.
Tiziano Terzani racconta, non ricordo in quale sua pagina, di essersi trovato, all’inizio dell’invasione occidentale dell’Afghanistan, in un ospedale di Kabul accanto ad un bambino gravemente ferito (uno tra i tantissimi che l’ennesima bomba “umanitaria” aveva dilaniato) al quale aveva portato dei biscotti; mentre se ne stava in piedi, stravolto e imbarazzato per tutto il dolore che lo circondava, venne ricoverato un uomo con una brutta ferita al ventre, il quale gli disse: «Siete degli ipocriti. Prima ci bombardate e poi ci portate biscotti». Terzani, che era un uomo onesto e di cuore, afferma di aver provato per la prima volta vergogna di essere occidentale. Un conto è leggere sui giornali che dei civili sono stati uccisi per errore, tutt’altra cosa è vedere de visu lo scempio che le bombe, sganciate in nome della libertà e del progresso, fanno di un popolo la cui unica colpa è quella di essere quel che è e di vivere dove vive.
Lo si deve ammettere: la maggior parte degli uomini occidentali vive immersa nell’ipocrisia senza rendersene conto o rendendosene conto solo di sfuggita; i media hanno saputo adeguatamente distrarla ed anestetizzarla. E così, sotto lo sguardo annebbiato e privo di immaginazione delle moltitudini la menzogna sale in cattedra e il massacro continua.
Per concludere, da soggetto poco interessato alle “magnifiche sorti e progressive” qual sono, parteggio per l’uomo in quanto Purusha, espressione sintetica di consapevolezza della Terra-Natura-Cosmo, parteggio per gli afghani che si rifiutano di essere addomesticati e messi in gabbia, per i palestinesi che fronteggiano con sassi il terzo esercito più armato del mondo, per le antiche tribù indiane aggrappate alle loro foreste e alle loro montagne che le multinazionali pretenderebbero di spazzare via in nome del profitto. Parteggio per i sadhu vagabondi e analfabeti, per le vacche sacre, per gli ordini contemplativi, per lo studio devoto delle antiche lingue, ricche di risonanze prediscorsive, per la trasmissione orale della sapienza; parteggio per le foreste, per i fiumi, gli alberi e gli animali selvatici. L’intuizione mi suggerisce che il trionfo della Macchina e dei suoi servitori si rivelerà presto illusorio e, anzi, controproducente, poiché il suo crollo travolgerà quelli che oggi presumono di trarne vantaggio.
C’è un momento, posto sul cammino di tutti, in cui ci si rende conto che il significato ultimo non sta nel possedere questo o quello o nel controllare paranoicamente l’esistente (fatica di Sisifo), bensì nello svegliarsi alla propria reale natura, identica al Principio (Arché). Da un simile risveglio non può che derivare un esistere (da ex-sistere: apparire, emergere dall’Essere) inteso quale gioco o danza armoniosa, giusta e compassionevole. Nessun possesso può essere equiparato alla felicità connaturata alla Conoscenza divina che arde al Centro. Inevitabilmente, prima o poi, l’uomo se ne renderà conto e allora si acquieterà, rivolgendo innanzitutto all’interno il proprio sguardo e poi, quando tornerà a guardare all’esterno, contemplando le “diecimila cose” dal di dentro. A ben pensarci non c’è niente di meno altro dell’“altro”. L’“altro” sono “io”.
Fonte: www.ariannaeditrice.it