di Nuccio d'Anna
Durante la sua bimillenaria storia il Cristianesimo ha sempre mostrato un’attenzione speciale per la dimensione più elevata della vita spirituale e a questo fine nel corso dei secoli ha presentato aspetti molto vari che secondo modalità diverse hanno teso ad avviare gli asceti verso l’esperienza di quella che può essere agevolmente definita, semplificando, la visione di Dio. Non si è trattato di un fenomeno uniforme ed omogeneo, ma di modalità ascetiche a volte diversissime fra loro, di forme non sempre comparabili anche se, ovviamente, il richiamo agli stessi fondamenti evangelici ne fa aspetti di un’unica, grandiosa realtà ecclesiale. Accanto ai notissimi monaci della Tebaide, agli eremiti della Siria, ai tanti solitari che a Lérins o nei cenobi scaturiti dall'insegnamento di Cassiano intendevano seguire il dettato evangelico “Lascia tutto e seguimi !”, fra il IV e il VII secolo in Irlanda si è dato origine ad un monachesimo che ha costituito uno dei fenomeni più complessi e ricchi fra quanti ne sono fioriti nel continente. Non si è trattato di un evento trascurabile o circoscritto ad una realtà geografica limitata, ma di una presenza massiccia che in breve tempo ha raggiunto molta parte delle regioni europee, ha alimentato gli ambiti dottrinali più diversi e ha sostanziato la contemplazione, la cultura, l’arte, la miniatura, l’oreficeria, i monumenti, i simboli e le forme sacramentali che hanno costituito la base di una ricchissima vita spirituale. Il monachesimo organizzatosi nelle isole del Nord del continente ha avuto una sua specificità che lo ha reso completamente diverso rispetto a quanto conosciamo dei monasteri benedettini, qui arrivati proprio quando quelli di rito celtico cominciavano a perdere la loro forza propulsiva e tendevano ad essere assorbiti nelle fondazioni “latine”. Non solo le diverse, asprissime forme di austerità, ma la stessa loro considerazione sul significato della vita sacramentale scaturiva da una particolare condizione che faceva percepire il cosmo e i ritmi temporali come una continua teofania che il monaco doveva, semplicemente, contemplare come il riflesso della “presenza” di Dio.
Lo studio della spiritualità cristiano-celtica ha conosciuto negli ultimi anni un'attenzione e un'estensione che ha toccato aspetti vari di quell’antica struttura ecclesiale e per la prima volta non si è limitata alla stretta cerchia élitaria degli specialisti anglo-irlandesi. Si è trattato di una vera e propria riscoperta di un mondo fin qui analizzato in modo limitato che però alcuni autori hanno condotto avventurosamente, senza una conoscenza adeguata dei valori specifici di quella realtà, in certi casi addirittura presumendo di trovare impossibili rispondenze con fantasiosi cicli mitologici. Nei moltissimi manuali che studiano il Cristianesimo dei primi secoli, nonostante la grande diffusione e la capillare presenza in ogni ambito della vita sociale, il monachesimo celtico viene spesso considerato un fenomeno “quasi spontaneo”, non paragonabile in nessun modo a quanto si è sviluppato altrove. Si è voluto sostenere che tale importante fenomeno possa essere considerato solo una specie di intermezzo provvisorio che avrebbe fatto seguito alle numerose comunità eremitiche fiorite nel sud della Gallia e nelle isole tirreniche, un'esperienza ritenuta funzionale al successivo arrivo dei Benedettini che con la loro Regola molto articolata, organizzata, più attenta alle necessità di una vita comunitaria e con i loro ricchi monasteri, sarebbero stati gli autentici iniziatori della civiltà conventuale fiorita in tutta Europa. E tuttavia, questa specie di convinzione acritica seguita dagli studiosi del mondo alto-medievale e continuatasi fino ai nostri giorni senza eccessive smentite, non solo non corrisponde affatto alla realtà, ma sostanzialmente ignora la peculiarità dell’esperienza mistica dei monaci e dei contemplativi celtici e, da un punto di vista strettamente erudito, sembra persino trascurare la pur copiosa letteratura critica fiorita in Irlanda e in Gran Bretagna.
Per meglio evidenziare le profonde diversità che distinguono i monaci di rito celtico da tutte le altre forme contemplative emerse nella storia del Cristianesimo, nel corso del libro ci siamo soffermati solo quando era strettamente necessario sulla struttura amministrativa, sulle specificità organizzative o sulla storia episcopale delle isole del Nord, e abbiamo preferito approfondire le particolarità liturgiche, i tipi di preghiera e le modalità “tecnico-realizzative” che hanno sostanziato le chiese celtiche, quelle che sembrano differire sotto moltissimi punti di vista dalla più conosciuta vita ascetica dei Benedettini. È il sostrato mistico-contemplativo nel quale si muovevano questi solitari asceti, e molto meno la storia ecclesiale, a mostrare la loro peculiarità. I monaci celtici che fra il IV e il VII secolo peregrinavano senza sosta nel mondo insulare del Nord non sono stati grandi protagonisti nel campo dottrinale e, pur saldamente ancorati alla “mistica della Luce” del Vangelo di san Giovanni, non hanno elaborato sistemi speculativi in grado di costituire il fondamento di scuole o comunità di studi teologici come quelle che poi fioriranno sul continente. D’altronde, lo stesso maldestro tentativo fatto da alcuni nostalgici del folklore druidico di ricondurre le dottrine di un eretico come Pelagio alla spiritualità degli asceti irlandesi e scozzesi è solo il frutto di una povertà interpretativa che mostra, fra l'altro, di non conoscere affatto le concrete radici dalle quali ha preso consistenza il pelagianesimo, la sua negazione del significato ontologico del peccato o la riduzione della preghiera e della stessa vita sacramentale ad una vuota vestigia priva di ogni portata “realizzativa”, tutte cose che avrebbero fatto inorridire qualsiasi monaco del tempo dello splendore dell’”isola santa” di Iona.
In realtà, l’attenzione di questi asceti del Nord era rivolta alla conversione del mondo e i loro ritmi di vita si modulavano essenzialmente sulla purificazione dell'anima, sulla mistica, sulla contemplazione, sull’imitatio Christi. Le loro forme sacramentali, le preghiere così singolari, la salmodia onnipervadente, i rigidi penitenziali e i canti ci conducono verso una realtà arcaica, rocciosa, spesso aspra; parlano di un mondo lontano, irraggiungibile, silenzioso, quasi incomprensibile per dei moderni. Tutto un ordinamento liturgico e “tecnico-realizzativo” fra i più complessi svela un modo diversissimo di affrontare i temi sacramentali e quelli che si è abituati ad elencare all'interno dell’ampia e variegata area della mistica. Da questi lontani monasteri emerge una quantità di pratiche ascetiche, di dure austerità, di invocazioni, di lodi, di inni, di regole e strutture organizzative che appaiono estremamente differenti rispetto a quanto si è abituati a vedere in altre aree del continente. La stessa singolare organizzazione ad un tempo cenobitica, eremitica ed “itinerante” del loro monachesimo ha permesso che affiorassero quelle straordinarie figure di asceti e di instancabili peregrini Dei conosciuti come Culdei, una comunità di misteriosi contemplativi le cui caratteristiche di fondo non sono certo assimilabili ad altre esperienze conventuali e probabilmente costituiscono la signatura più autentica di tutto il monachesimo celtico. La loro forma spirituale rivela una profondità che per la sua specificità e per la sua aderenza ad una realtà immacolata può essere definita solo “primordiale”, rimasta fin qui sostanzialmente poco analizzata nella sua dimensione più autentica, ma che dal punto di vista della Storia delle Religioni indirizza verso un sostrato mistico-contemplativo dalle somiglianze straordinarie con aree lontane dall’Europa quali il Tibet buddhista, l’India delle prime Upanishad, l’Islam dei sufi eredi dell’insegnamento di Muhyiddin Ibn ‘Arabi, le foreste siberiane dei pustynniki, il Monte Athos degli esicasti, la Cina di alcune fra le più chiuse confraternite taoiste, il Giappone degli yamabushi, ecc.
Studiando l’attività apostolica dei monaci e di quegli innumerevoli peregrini Dei, i Deoradhs che con instancabile zelo missionario hanno percorso il continente europeo, non si può non rilevare l’enorme importanza che nei loro simboli e nella loro spiritualità hanno avuto le radici antico-celtiche dei popoli dai quali provenivano. Non si è trattata della solita, consolatoria e vaga “influenza” che resta sempre in superficie e non tocca il cuore dei fenomeni religiosi, ma della dimensione più profonda della religione druidica. D’altronde, mentre nel resto del continente le religioni antiche si trovavano al limitare estremo di un ciclo che andava a spegnersi in un crepuscolo senza luce, in Irlanda i missionari cristiani si sono trovati davanti una classe sacerdotale ancora molto vitale nonostante l'antichissimo passato e le radici “primordiali”, pienamente consapevole dei valori di cui era la portatrice, in grado di competere con i nuovi arrivati sul piano spirituale, dottrinale e rituale. Si è trattato perciò di un evento nuovo, sostanzialmente sconosciuto agli altri missionari che percorrevano il continente, ma che potevano affrontare solo apostoli cristiani perfettamente consapevoli della ricchezza del patrimonio rituale che si trovavano di fronte. La loro instancabile attività alimentata da una intensa vita liturgica e da un sostrato mistico-contemplativo molto profondo, condusse alla conversione della quasi totalità della casta sacerdotale della vecchia religione druidica e addirittura nel breve volgere di pochi decenni molti di quei cantori sacri, austeri veggenti e maghi-incantatori sono diventati famosi asceti cristiani, santi autorevoli, vescovi irreprensibili, abati illuminati e apostoli infaticabili. È un avvenimento unico nella storia delle conversioni che non autorizza affatto ad ipotizzare l'improbabile e, d’altronde, mai esistita “acculturazione latina dell'Irlanda” cui ha pensato qualche studioso prigioniero di uno schema mentale ottocentesco che lo costringe a ripetere, in modo improprio e senza adeguati approfondimenti culturali, formule tratte dall'etnologia o dalla sociologia, ed è sostanzialmente sfuggito nel suo vero significato e nelle sue implicazioni a molti storici delle religioni e del Cristianesimo che hanno preferito considerare semplicisticamente il monachesimo celtico una anticipazione barbara e rozza di quello benedettino.
La particolare articolazione di questa forma tradizionale, risultato della confluenza eccezionale nel Cristianesimo dei filid, gli autorevoli rappresentanti di una delle più antiche religioni dell’umanità che in Irlanda e in Scozia avevano conservato intatti i loro fondamenti dottrinali e rituali, è rimasta praticamente sconosciuta ai tanti ricercatori che hanno studiato la conversione dei popoli dell’impero romano senza minimamente accennare a ciò che succedeva nelle isole dell’estremità Nord dell’Europa. Proprio questa simbiosi delle forme più elevate ed “essenziali” del mondo celtico con la spiritualità cristiana, che qui ha teso sempre a preservare gli impulsi più profondi e creativi del druidismo, ha impedito persino lo svilupparsi in quelle terre di fenomeni di autentica persecuzione dall'una o dall'altra parte ed autorizza a parlare di un “monachesimo celtico” con una sua precisa identità dottrinale, liturgica e contemplativa. D'altronde, la locuzione “monachesimo irlandese” usata da alcuni specialisti, appare troppo circoscritta ad una determinata area geografica e non tiene conto che il tipo di spiritualità e lo stesso ordinamento conventuale che sottende si è estesa profondamente anche alla Scozia, alla Bretagna, al Galles, alla Cornovaglia, all'Armorica e persino a molte regioni del continente. Così come è ormai usuale distinguere per le loro peculiarità un “monachesimo siriaco”, un “monachesimo della Tebaide”, un “monachesimo copto”, un “monachesimo benedettino” o un “monachesimo athonita”, tutte forme contemplative sostanziate da ben distinte dottrine, simboli fra i più complessi e specifiche metodologie ascetiche, l'estrema articolazione e la sostanziale diversità delle forme spirituali fiorite nelle isole del Nord Europa rispetto alle altre, autorizza a parlare di un “monachesimo celtico” con una sua precisa identità mistico-contemplativa e con tutta una serie di metodi di preghiera e di sistemi liturgico-sacramentali che rendono la sua esistenza per molti aspetti un sostanziale affioramento di una religiosità primordiale, originaria.
È in quest’ambito che trova significato il sottotitolo del libro, I pellegrini della Luce. Esso intende evidenziare la speciale attitudine “mistico-visionaria” e le molte indicazioni di questi straordinari monaci. Non solo sentivano di seguire come pochi altri la dottrina della luce spirituale e le infinite articolazioni contemplative del rapporto suono-luce quali possono dedursi dalle indicazioni contenute nel Vangelo di Giovanni, ma ritenevano che la stessa luce fisica e il tracciato celeste del sole non facessero altro che costituire una sorta di veicolo di manifestazione della luce divina che già il Genesi (2, 8: “Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, ad Oriente, e qui pose l’uomo che aveva formato”) aveva indicato come lo “specifico” del Paradiso terrestre, quell’”Oriente” che non si trova nelle carte geografiche, ma è il luogo teofanico nel quale risplende la “luce primordiale” di cui parlava Dionigi l’Areopagita (CH, I, 2), la Lux Matutina sperimentata da molti mistici, quella che secondo Meister Eckhart conduce alla “conoscenza aurorale” (morgenbekentnus), l’”Oriente” di una luce “originaria”.
Abbiamo evitato di soffermarci sui motivi e sulle modalità che condussero il monachesimo celtico ad essere assorbito, lentamente, ma inesorabilmente, nelle varie famiglie scaturite dall'Ordine benedettino, e abbiamo toccato questo complesso problema solo quando era strettamente necessario ai fini di una opportuna chiarificazione. Questo processo di assimilazione è durato molto tempo, almeno dal VII al XII secolo, è stato lento, ma continuo ed inesorabile, ed ha condotto alla sparizione di quasi tutte le forme sacramentali, i ritmi liturgici, i simboli, i tipi di preghiera e di meditazione che costituivano la caratteristica specifica del mondo che dall'Irlanda si era diffuso fra le popolazioni del Nord e poi si era riversato sul continente con una infaticabile forza di penetrazione definita efficacemente da alcuni studiosi come ”invasione mistica” dell’Europa che ha dato vita ad un numero inverosimile di fondazioni monastiche dalle quali si è irradiata una raffinatissima cultura. E tuttavia, alcuni elementi di quell'antica spiritualità devono essere rimasti tenacemente vivi anche quando sembrava che la tradizione cristiano-celtica fosse irrimediabilmente sparita se ancora in pieno XII secolo san Bernardo di Clairvaux, questo grande mistico e teologo cistercense considerato l’ultimo dei Padri della Chiesa, rimaneva ammirato di fronte all'elevatezza spirituale di quello che si presentava esteriormente come un semplice asceta ed un umile abate, uno dei tanti Patres che avevano fecondato la tradizione monacale celtica, san Malachia O’Morghair, l’arcivescovo di Armagh, l’erede di san Patrizio nella sede “primaziale” d'Irlanda.
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L’Autore
Nuccio D’Anna si è occupato di simbolismo, dottrine spirituali e storia della cultura. È membro della Società italiana degli Storici delle Religioni. I suoi studi hanno toccato in modo particolare il mondo classico sul quale, fra i molti altri, ha scritto: Il Neoplatonismo (1989); Il dio Giano (1992); La Disciplina del Silenzio. Mito, mistero ed estasi nell’antica Grecia (1995); Il Divino nell’Ellade (2004); Il Gioco Cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia (2006); Mistero e Profezia. La IV egloga di Virgilio e il rinnovamento del mondo (2007); Publio Nigidio Figulo. Un pitagorico a Roma (2008). Ha anche esaminato alcune correnti mistico-estatiche del Medio Evo in La Sapienza nascosta (2001); Il Segreto dei Trovatori (2005); Il Santo Graal. Mito e realtà (2009). Da anni studia le dottrine orientali occupandosi in modo specifico della spiritualità indù e dei suoi rapporti con la cultura europea, in particolare quelli esistenti fra il Neoplatonismo e alcune forme del Vedânta indiano.
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