Venezia - Carpaccio, pittore di storie (e di misteri), è un "pittore tanto raro e spesso non rappresentato anche in grandissime istituzioni" che tre soli dipinti riuniti fanno un felice avvenimento soprattutto se studiati, analizzati e restaurati per la prima volta in senso moderno. Questo il primo significato della mostra-dossier aperta a Venezia, fino al quattro marzo, alle Gallerie dell'Accademia (sala XXIII), con il titolo appunto "Vittore Carpaccio. Tre capolavori ritrovati". C'è da ricordare che Venezia è probabilmente la città che negli ultimi due secoli ha subito la più vasta e profonda diaspora del patrimonio culturale, per ragioni interne perché "è stata specialmente un grande centro di produzione di beni culturali", per ragioni imposte e violenze esterne durante le due occupazioni in nome di Napoleone e dell'Austria con la raffica di soppressioni di chiese e conventi. Ma il senato della Serenissima aveva cominciato nel 1768 con le soppressioni. In "Venezi altrove", l'almanacco annuale della Fondazione Venezia 2000 sulla presenza veneziana nel mondo, straordinario per le scoperte e le mille amare curiosità, Alvise Zorzi "valuta in oltre 25 mila i dipinti così sparpagliati ai quattro venti", in migliaia le sculture "in gran parte distrutte", oltre agli "ori e argenti, in gran parte fusi o ingoiati, in lingotti, dalle casse del Monte Napoleone in Milano". Per non citare manoscritti, codici e libri: nel Cinquecento Venezia era il maggior mercato librario al mondo.
Anche uno dei tre dipinti del Carpaccio in mostra, il "Sangue del Redentore", è stato sottoposto a tutte e due le esperienze di sradicamento. Per le soppressioni napoleoniche, nel 1810 è stato ritirato dalla chiesa di San Pietro Martire di Udine e conservato nel deposito demaniale della ex Commenda di Malta per poi essere sottoposto ad una trasferta non voluta a Vienna insieme "a decine di dipinti di prima qualità", dal 1838 al 1919, unendo l'occupazione austriaca alla Prima guerra mondiale. Per il Carpaccio il destino più gramo ha colpito il ciclo delle "Storie di Santo Stefano" di cui nulla è rimasto a Venezia ( un telero perduto, gli altri quattro divisi fra Brera, il Louvre, lo Staatliche Museen di Berlino e la Staatsgalerie di Stoccarda).
Le Gallerie dell'Accademia conservano ad ogni modo il maggior numero di opere di Carpaccio riunito in un museo (quindici) fra cui il "Ciclo di Sant'Orsola", nove teleri, l'unico ciclo completo in un museo. I tre dipinti in mostra erano le ultime opere di Carpaccio di proprietà delle Gallerie che avevano bisogno di un restauro. Oltre a "Sangue del Redentore" sono l'"Apparizione dei crocifissi del monte Ararat nella chiesa di Sant'Antonio di Castello" e la "Crocifissione e apoteosi dei diecimila martiri del monte Ararat". Il sintetico catalogo (Marsilio) è a cura di Giovanna Nepi Scirè, soprintendente del Polo museale veneziano, e di Sandra Rossi che ha anche diretto i restauri eseguiti dalla ditta Arlango di Vicenza.
Il merito dei tre interventi è dell'iniziativa privata, italiana e americana. Del comitato "Save Venice Inc., California Chapter"per il "Sangue del Redentore". Della Banca Intesa per l'"Apparizione", nell'ambito del mai abbastanza lodato programma pluriennale di restauri "Restituzioni", non solo in ambiente veneto e giunto alla tredicesima edizione. Per il terzo restauro, quello della "Crocifissione e apoteosi", si tratta di un gesto che commuove: il lascito testamentario di Rona (Ronnie) Goffen, la storica dell'arte che nel 2000 aveva curato insieme a Giovanna Nepi Scirè la mostra sul nuovo colore" di Giovanni Bellini alle Gallerie dell'Accademia, e scomparsa nel settembre 2004.
Il "Sangue del Redentore" (una tela di 163 per 163,5 centimetri) è firmato e datato da Carpaccio 1496 come si ricava dal cartiglio al centro della piattaforma sagomata su cui è in piedi il Cristo risorto che si appoggia alla Croce mentre dalle ferite dei chiodi e del costato schizzano fili ininterrotti di sangue, raccolti in un calice e trasformati in ostia. Viene considerato "una delle più alte figurazioni del mistero dell'Eucarestia". Il dipinto è anche intitolato "Cristo con gli strumenti della passione adorato da quattro angeli". Sono infatti gli angeli che reggono l'asta con la spugna imbevuta di aceto, la lancia del colpo al costato, i chiodi, i bastoni. Alle spalle del Cristo due angioletti reggono un drappo damascato. i lati lo sfondo si apre in due magnifici paesaggi di collina con una città e mura merlate, una chiesa, una castello che domina un bosco. Ancora, a sinistra, un cervo libero sulla strada, a destro, un cervo azzannato da un leopardo.
Non si conosce né committenza, né collocazione originaria. Nel 1773 il dipinto venne osservato nella sacrestia della chiesa di San Pietro Martire a Udine, che non doveva essere la prima destinazione. Carpaccio non è mai documentato ad Udine. Così lo sfondo che si vorrebbe uguale e o simile a chiesa e castello di Udine non è confermato "dal raffronto con le vedute attestate a fine Quattrocento". Il dipinto assegnato alle Gallerie veneziane, dal 1925 è tornato ad Udine in "deposito temporaneo" (termine burocratico che salvaguarda la proprietà), non a San Pietro Martire, ma nel Museo civico. E qui tornerà, in "deposito temporaneo" di dieci anni, rinnovabile, dopo la mostra.
Il dipinto è composto da due pezzi di tela di lino e soffriva di due piccole mancanze di tela causate da vecchie bruciature di candela. Lacune e abrasioni erano molto diffuse provocate probabilmente da "antiche incurie" e "incaute puliture". Numerose le cadute degli strati preparatori e pittorici (soprattutto sugli incarnati del Cristo e i visi degli angeli). Molti dei ritocchi erano applicati non sulle stuccature, debordanti rispetto alla mancanze, ma sulla tela. Tutto il dipinto aveva intorno una fascia di colore nero di circa tre centimetri. Le indagini hanno rivelato disegno preparatorio e piccoli pentimenti e varianti in corso d'opera come nella mano ripiegata del Cristo e sulle dita alzate di un angelo.
Se questo (e gli altri due dipinti) non avevano gravi problemi di conservazione, erano invece "molto penalizzati" nella presentazione estetica, cioè nel godimento di quello che Carpaccio aveva dipinto, per le vernici fortemente ingiallite da polveri e particellato, "vecchi ritocchi fuori tono" che "appiattivano e offuscavano gli originali valori cromatici e spaziali". Dopo il restauro incarnati, tessuti, cielo, nuvolette, mura merlate e castello appaiono luminosi e incisi nella profondità. I materiali sovrapposti sono stati alleggeriti.
Il secondo dipinto di Carpaccio ci trasporta all'interno di Sant'Antonio di Castello, la chiesa trecentesca molto vicina all'Arsenale, particolarmente cara alle nobili famiglie che avevano combattuto nelle guerre sul mare contro turchi e pirati, e distrutta insieme ad altri edifici nel 1807 durante il periodo napoleonico per creare giardini pubblici. La scena, dominata da quattro archi a sesto acuto, dovrebbe essere la processione nella navata centrale animata dalla Scuola dei Diecimila Martiri che aveva sede nella chiesa ("illustri e rispettabili cittadini nonché stimatissimi uomini di mare" che potevano fruire di particolari indulgenze papali), per ricordare la miracolosa visione avuta nel giugno 1511 da Francesco Antonio Ottoboni, priore di Sant'Antonio. Nel sogno il priore avrebbe visto i martiri, incolonnati a due a due con la corona di spine e la Croce, la lunga tunica come Cristo, che lo rassicuravano sulla salvezza del convento dal contagio della peste.
Secondo la leggenda, i martiri sono i novemila soldati romani guidati da Acazio che verso la fine del IV secolo, pure abbandonati dall'imperatore, sconfissero i ribelli armeni dopo aver invocato l'aiuto di Cristo e i mille soldati pagani che si unirono a loro nella conversione. Nonostante la minaccia dell'imperatore, ritornato vergognoso a godere del trionfo, di crocifiggerli tutti come Cristo, e attuata durante un violento temporale. L'Ararat è il nome di due monti della Turchia al confine con Armenia e Iran (sui quali si sarebbe posata l'Arca di Noè alla fine del Diluvio).
In segno di ringraziamento per la protezione dei martiri e in loro onore, un nipote del priore fece erigere nel 1512 un magnifico altare in marmo sul quale nel 1515 verrà collocata la celebre, monumentale e impressionante pala del Carpaccio, la "Crocifissione e apoteosi dei diecimila martiri del monte Ararat". Questa datazione, già variamente contestata, è stata smentita proprio dalle analisi scientifiche eseguite in occasione del restauro. Si era infatti in sospetto perché nell'"Apparizione dei crocifissi" l'altare è già montato, ma la pala, "non chiaramente leggibile nel dipinto", sembra essere una "Orazione nell'orto". Ora grazie alla riflettografia, sotto l'antica ridipintura dell'"Orazione nell'orto", "si legge chiaramente la presenza dell'impostazione generale" per la "Crocifissione e apoteosi dei diecimila martiri" che "Carpaccio avrebbe probabilmente definito in modo più particolareggiato se il nostro dipinto fosse stato realizzato in prossimità del 1515". Sandra Rossi concorda quindi sulla proposta di spostare la datazione al 1512-1513.
"L'apparizione dei crocefissi" di Carpaccio veniva considerata di "indiscusso valore storico-documentario", ma di una più modesta qualità artistica (mettendone così in dubbio l'autografia) dovuta anche ai ritocchi alterati e alla vernice ingiallita. Il restauro ha rimesso i valori al loro posto col recuperare "numerosi dettagli, che solo un grande artista come Carpaccio sarebbe stato in grado di organizzare così sapientemente in una visione d'insieme". Anche il disegno sottostante visibile nelle indagini è analogo ai risultati ottenuti con i raggi X e all'infrarosso su dipinti certi del Carpaccio.
Lo stato di conservazione dell'"Apparizione dei crocifissi" è "abbastanza buono". Un bel progresso se si pensa che nel 1809 era stato giudicato "pessimo", "in tela quasi perita". In particolare il dipinto non ha lacune significativa, ma la superficie pittorica è generalmente abrasa probabilmente per una pulitura aggressiva, la famigerata "spulitura", e le ridipinture antiche e quelle grossolane novecentesche erano estese. Sono state eliminate solo queste ultime perché così si è potuta recuperare pittura originale. Per documento sono stati lasciati due piccoli tasselli sporchi, uno in basso dove era stata corretta la prospettiva del pavimento a grandi mattonelle bianche e rosse diagonali.
La pulitura ha restituito "notevole definizione" alla cappella sotto il barco di legno che occupa la parte sinistra del dipinto. Ora si vedono le cassettine per le offerte appoggiate alla balaustra e varie sculture all'interno, la lampada di foggia orientale con globi di vetro che scende dal soffitto con lunghe funi. Sul tramezzo e sulle travi degli archi gotici sono appesi ex-voto (gambe e mani, remi, modellini e modelloni di navi, bandiere amiche o strappate al nemico). Uno "spicchio d'ombra" di natura novecentesca, aggiunto in basso a destra, è stato eliminato: era stato ottenuto per sovrapposizione di una velatura e non con un tono più scuro delle ombre originali.
Le riflettografie hanno rivelato che Carpaccio ha dipinto e poi eliminato la trave dell'arco corrispondente all'altare Ottoboni a forte sviluppo verticale, forse per dare piena visibilità proprio all'altare. Ugualmente il pittore è ri-intervenuto in tempi diversi per allungare la veste verde del martire che, accanto al portone di ingresso, invita i compagni ad avanzare. Altri due interventi dovrebbero essere successivi: tutti sono stati mantenuti. Nel rifoderare la tela che è stata rimontata su telaio estensibile, si è scoperto che "la tela originale è stata accorciata su tutti i lati di alcuni centimetri" come dimostrano le tracce di pittura sui bordi ripiegati e i segni dei chiodi. Ancora, la tela è formata da quattro pezzi di tela semplice giuntati fra loro: due a trama grossa e due a trama fitta. Una composizione che apre qualche dubbio sul livello della committenza, senza escludere che il Carpaccio abbia avuto semplicemente problemi pratici in quel momento a procurarsi una tela unica anche per tempi ristretti di consegna.
Impressionante la "Crocifissione e apoteosi dei diecimila martiri del monte Ararat" , firmata e datata da "V. Carpathius" 1515, in un cartellino in un angolo a sinistra. Il maggior numero di martiri è in primo piano, con modalità che uno non si attenderebbe. Come risolvere il problema di trovare diecimila croci fatte secondo le regole? Usando come croci i tronchi e i rami degli alberi dei boschi del monte. Ma poiché tronchi e alberi non sono fatti per questa necessità le crocifissioni si sono trasformate in giochi di equilibrismo, di contorsionismo, con mani e piedi che si devono adattare, a forza, a tronchi e rami. I corpi vengono stirati, forzati, divaricati. Ci sono martiri abbracciati ad un tronco con un chiodo addirittura infisso nella pianta di un piede. Anche i carnefici devono sottoporsi a queste scalate. Mentre il sangue cola lungo i tronchi.
Impressionante per il gran numero di figure e di azioni che il Carpaccio ha non ammassato, ma collocato ciascuno nel proprio spazio in rigorose prospettive, con attenzione "lenticolare per i dettagli", il tutto legato in un discorso che "si tiene". E con la gioia visiva, luminosa, incisa, ottenuta dal restauro fra i bianchi dei corpi nudi e dei turbanti, i rossi delle vesti, il verde leggero e cupo delle chiome degli alberi, l'azzurrino dei rilievi in lontananza, il grigio delle nuvole. Dei tre dipinti è il meglio conservato e il "più elaborato dal punto di vista della tecnica pittorica, probabilmente perché opera matura e realizzata per una committenza prestigiosa".
Giorgio Vasari ha scritto: "Fece meglio che trecento figure, fra grandi e piccole: ed inoltre, cavalli ed alberi assai, un cielo aperto, diverse attitudini di nudi, e vestiti molti, scorti, e tante altre cose; e si può vedere che egli non la conducesse se non con fatica straordinaria". E anche gli altri artisti non rimasero insensibili. Sandra Rossi ci ricorda che alle Gallerie si conserva una tavola del 1540 del Tintoretto, copia della parte inferiore della "Crocifissione e apoteosi" (la parte superiore è andata perduta). Non sappiamo se veramente sono trecento le figure, ma tutta la superficie, un'unica tela di lino alta più di tre metri (3,10) per 2,47, è piena di scene alle quali Carpaccio si è preparato con un ricco disegno sottostante, come hanno rivelato le indagini scientifiche (insieme ad una serie di pentimenti).
Glissando sul fatto che i martiri furono crocifissi durante una violenta tempesta (rappresentata da un po' di nuvolaglia), Carpaccio ha riunito su vari piani almeno quattro momenti. In primissimo piano, sul lato destro, probabilmente Acazio e gli altri comandanti dei legionari sono davanti all'imperatore e a re pagani a cavallo, dagli alti turbanti e un folto seguito che innalza la Mezzaluna. Acazio è inginocchiato a voler riconoscere l'autorità dell'imperatore, ma deve ubbidire ad un altro re celeste. E l'imperatore lo minaccia con lo scettro. Un comandante addita l'imperatore ai compagni, ma un altro punta l'indice decisamente al cielo, per indicare il loro nuovo imperatore. Sulla sinistra, il nucleo delle crocifissioni, sparse anche sulla destra. Sullo sfondo, fra boschi e laghi e rilievi, lo scontro armato fra legionari e ribelli. Sospesa su questa scena, quasi premonizione della "Città celeste" che attende i martiri, una collina sulla quale calano gli angeli che accompagnano i legionari alla crocifissione. A coronamento del tutto c'è una bellissima invenzione di Carpaccio. I cieli concentrici, in prospettiva e quindi in ellisse schiacciatissima. Una immagine che sarebbe piaciuta a Stanley Kubrick per "2001. Odissea nello spazio".
Secondo Sandra Rossi, la pala "accoglie eco della più aggiornata cultura contemporanea" (Dürer, Michelangelo, Bosh) "ed è un fondamentale capolavoro introduttivo al 'proto-manierismò del Cinquecento veneziano".
Quando si parla delle Gallerie dell'Accademia ci si chiede sempre quando ci saranno le "Grandi Gallerie" (anche quando ci saranno la "Grande Brera", i "Grandi Uffizi", la "Grande Barberini"). Allora la superficie di 5.850 metri quadri in cui sono esposte 400 opere, passerà a undicimila metri quadri per 700 opere più altri mille metri quadri di servizi al pubblico per farne un museo moderno. La persona giusta per la risposta è Renata Codello, architetto, soprintendenza ai beni architettonici e del paesaggio di Venezia, progettista e direttore dei lavori, che ha coinvolto nell'allestimento Tobia Scarpa, nipote di Carlo Scarpa la cui impronta segna tuttora la Gallerie dagli anni Cinquanta. La fine dei lavori di cantiere (cominciati nel marzo 2005) era prevista entro fine 2008, sarà entro il luglio 2009. Renata Codello osserva che il progetto di trasformazione è cominciato prima dell'istituzione del Polo museale che ha un regime economico-amministrativo diverso dalla soprintendenza, non certo più favorevole. In più si è scelto di mantenere aperte le Gallerie durante i lavori e questo non li ha facilitati. Pareti, impianti di illuminazione, eccetera, verranno consegnati pronti "per poter appendere i quadri". Il progetto di allestimento vero e proprio è stato avviato di pari passo da Giovanna Nepi Scirè insieme ad un vasto programma di restauri di cui i tre Carpaccio in mostra sono un esempio. I tempi per l'apertura al pubblico dovrebbero quindi essere contenuti.
Nelle "Grandi Gallerie" sarà rappresentato il meglio della pittura veneta, dal Trecento, da Nicolò di Pietro, all'Ottocento, ad Hayez. Non ci sarà un raddoppio esatto delle opere visibili perché saranno finalmente esposti dipinti del Seicento, periodo che praticamente non è rappresentato. Sono dipinti anche di grandissime dimensioni, tre-quattro metri quadri di superficie, ora nei depositi. I soldi ci sono e disponibili (23 milioni 930 mila euro). Al ministero per i Beni e le attività culturali sono stati chiesti altri due milioni di euro per opere collaterali (pavimentazione del chiostro palladiano con i vecchi masegni o con il nuovo cotto a spina di pesce, illuminazione esterna, un tipo di arredi per caffetteria, eccetera).
di Goffredo Silvestri
Notizie utili - "Vittore Carpaccio. Tre capolavori ritrovati". Dal 27 gennaio al 4 marzo. Venezia. Gallerie dell'Accademia (sala XXIII). Dorsoduro.
Orario: lunedì 8,15-14; da martedì a domenica 8,15-19,15.
Biglietti: ordinario 6,50 euro, cumulativo 9,50 (per Gallerie dell'Accademia, Cà d'Oro, Museo d'arte orientale). Infoline 041-5200345.
Fonte: La Repubblica