29/05/09

Rosenzweig fra Atene e Gerusalemme

Atene e Gerusalemme rappresentano, fin dalla tarda antichità, le cifre emblematiche di due universi spirituali – la cultura greca e il messaggio biblico – profondamente differenti e distanti. La storia, com’è noto, li condusse ad incontrarsi, a scontrarsi e – talora loro malgrado – ad interagire in modalità riccamente articolate. Il presente volume si propone di ricostruire la comprensione che il «nuovo pensiero» di Franz Rosenzweig (1886-1929) elaborò del profilo complessivo dei due universi e di una loro possibile, feconda connessione reciproca. L’indagine si sviluppa su uno scenario tematico e problematico riccamente articolato, sullo sfondo del quale si stagliano diverse questioni di scottante attualità, come, ad esempio, quella dell’identità dell’Europa nello scenario della globalizzazione planetaria, quella del destino della religione e delle religioni nell’odierna cultura post-secolare e post-moderna, e infine quella del confronto e del dialogo fra culture profondamente differenti.

Ciglia Francesco Paolo, Fra Atene e Gerusalemme, Il "nuovo pensiero" di Franz Rosenzweig, Marietti 2009, euro 25



La Rivoluzione contro il Medioevo

Cosa vuol dire “medievale”? Cosa vuol dire “rivoluzionario”? Pietro Ferrari se lo chiede con questo saggio coinvolgente e affilato, e nella sua lucida ed impietosa critica della modernità, assume e conclude che il Medioevo e la Rivoluzione non sono fenomeni storici o culturali più o meno prossimi a noi. Sono piuttosto categorie dello spirito. Come si può pensare, allora, leggendo il libro di Pietro Ferrari, che la Rivoluzione sia una categoria dell’oggi mentre il Medioevo appartenga al passato? La Rivoluzione contro il Medioevo non è il pamphlet di un nostalgico, è piuttosto il canone argomentato e rigoroso di un intellettuale che propone un modello, non solo una weltanschauung, che possa ridare un senso, essere una sorta di bussola alla condizione smarrita dell’uomo contemporaneo. Nihil novi, direbbe qualcuno: Massimo Fini ha già fatto qualcosa del genere, e per molti versi Marcello Veneziani e Franco Cardini hanno in più scritti accennato riflessioni e spunti analoghi. Però Pietro Ferrari dimostra dov’è l’inganno, svela quello che la rivoluzione ha tatticamente e violentemente coperto, dà voce e memoria a momenti della storia che sono stati cancellati per motivi che ai più appaiono inspiegabili e che sono invece le ragioni stesse del delirio relativista che pervade il nostro tempo.

Pietro Ferrari, LA RIVOLUZIONE CONTRO IL MEDIOEVO, Presentazione di Massimo Micaletti, Edizioni Solfanelli, Pagg. 112 - € 7,00

28/05/09

La vera storia del Piccolo Principe di Alain Vircondelet


(Alain Vircondelet, La vera storia del Piccolo Principe, Piemme -
Pagine 210 - Anno 2009 - euro 13.50)

"André Gide scrisse nella prefazione a Volo di notte che il libro di Antoine de Saint-Exupéry gli aveva insegnato che la felicità dell'uomo non è nella libertà ma nell'accettazione di un dovere. Era il 1931. Fino a quell'anno e per molto tempo ancora per l'aviatore-scrittore il dovere ha un volto bifronte ma preciso: volare, per dimostrare l'ethos umano basato sul coraggio e sull'azione, e scrivere, per testimoniare quell'ethos. Ma quando si rifugiò a New York alla fine del 1940, anche sul dovere le sue idee erano confuse. Smobilitato dall'esercito dopo l'armistizio se n'era andato dalla Francia, ma tra gli emigrés di oltreoceano non si sentiva a suo agio. [...] E' questo funesto giro di anni americani il periodo che ricostruisce Alain Vircondelet in un libro che ha coraggiosamente intitolato La vera storia del Piccolo Principe (Piemme), sfidando la sterminata bibliografia di Saint-Exupéry e dell'incantato racconto che ha venduto in tutto il mondo e in tutte le lingue ottanta milioni di copie. Vircondelet è dalla parte di Consuelo, la moglie un po' imbarazzante che secondo la perfida e brillante Louise de Vilmorin, prima fidanzata di Antoine, era rimasta con lui solo perché non era mai riuscito a sbarazzarsene e che fu emarginata nel mito postumo di Saint-Exupéry. Invece secondo il biografo che ha a lungo lavorato sul materiale inedito del periodo newyorkese, la signora Saint-Exupéry è la vera ispiratrice della figura della Rosa nel Piccolo Principe (lei stessa lo sosterrà in un racconto autobiografico intitolato Memorie della Rosa che sarà pubblicato in Francia nel 2000, ventun anni dopo la sua morte), il fragile e commovente fiore che il misterioso bambino caduto nel deserto dal suo asteroide non può dimenticare e a cui ritornerà. Nutrito dei ricordi e delle emozioni di Antoine, per Vircondelet, insomma, Il Piccolo Principe è un'autobiografia mascherata. Del resto, Saint-Exupéry non era uno scrittore che inventava: lui raccontava ciò che aveva vissuto. E anche se sognava la 'douce France' e inneggiava alla ricomposizione della patria lontana, non fece mai mistero, anzi lo dichiarò esplicitamente nelle appassionate lettere alla madre, che per lui l'unica vera patria, anzi l'unico vero paradiso era l'infanzia, l'infanzia che, parola di Stendhal, è interminabile." (da Elisabetta Rasy, 'Petit prince' autobiografico, "Il Sole 24 Ore Domenica", 17/05/'09)

27/05/09

A Toruń si dibatterà sul pensiero controrivoluzionario

L'amico nonché nostro corrispondente Prof. Jacek Bartyzel ci da notizia di un congresso sul pensiero controrivoluzionario, legittimista e tradizionalista nel XIX secolo che si terrà a Toruń (Polonia) il 23 e 24 ottobre 2009. Qui di seguito l'invito in lingua spagnola con tutti i dettagli e gli argomenti trattati. Invitiamo tutti gli studiosi italiani interessati a partecipare.

Estimados Señores:


Este año y el año que viene se cumple el 200 aniversario del nacimiento de los dos « Doctores de la Contrarrevolución » eminentes de España: Juan Donoso Cortés y D. Jaime L. Balmes, así como el 100 aniversario de la muerte de un personaje emblemático del carlismo español (legitimismo y tradicionalismo) y del caudillo de llamada tercera guerra carlista – el rey de iure Carlos VII, el príncipe de Madrid, Don Carlos María de Borbón.

Deseamos tratar esos aniversarios como la oportunidad y el punto de partida para presentar el panorama del pensamiento contrarrevolucionario en la época tempestuosa de las revoluciones del siglo XIX, sobre todo en los países romanos (Francía, Italia, España y Portugal, América Románica), aunque no excluimos de área temática del Congreso así otros países, incluso sucesos e inclinaciones ideológicas desarrolladas en el periodo de anexión en las tierras polacas, como las reflexiónes teoréticas más generales sobre el fenómeno de la contrarrevolución.

Deseamos destacar, que cuando las revoluciones del siglo XIX y las ideologías revolucionarias (liberalismo, jacobinismo, socialismo, anarquismo) están bien conocidas e investigadas, la acción y el pensamiento contrarrevolucionario están en gran parte olvidados, y si aún –generalmente sólo si llega el caso de presentación de una revolución– están mencionados, de ordinario sólo en un modo simplificado y –lo característico– sobre todo desde el punto de vista prorrevolucionario.

Por lo tanto es nuestro objeto “reacordar” los cursos plenos y los pensadores contrarrevolucionarios particulares, luchandos con pluma (y a menudo también con las armas) contra la presión de una revolución; una presentación autonómica, libre de un llamamiento solamente ocasional, de las iniciativas, juicios y doctrinas políticas de los pensadores, que defendieron el orden social jerárquico, la monarquía cristiana tradicional, así como la autoridad e independencia del papado contra los liberales, radicales y socialistas, aspirandos a una revuelta social y establecimiento de un sistema político nuevo, laíco e igualitario, basado en el principio de la soberanía popular.

Sobre todo quisimos prestar atención de los participantes potenciales a la necesidad de investigar los fenómenos como:

  • las aspiraciones y el pensamiento político del “partido del orden” (parti de l’ordre) en el período de la revolución de febrero y junio 1848, así como en la Segunda República en Francia (François Guizot, Charles de Montalembert, Alexis de Tocqueville) y los tratados contrarrevolucionarios de aquella época (Jules Barbey d’Aurevilly, Antoine Blanc de Saint-Bonnet, Barnabé Chauvelot, P.-S. Laurentie);

  • los dilemas de los contrarrevolucionarios y ultramontanos en el período plebiscitario del Segundo Imperio y “la cuestión romana” (Antoine Berryer, Frédéric Falloux, H.-A.-G. de La Rochejaquelein, Louis Veuillot, Louis kard. Pie);

  • la batalla por la bandera blanca” del conde de Chambord (1871-1873) y el ocaso del legitimismo;

  • el neogüelfismo y los católicos italianos (Antonio Rosmini-Serbati, Vincenzo Gioberti, Alessandro Manzoni, Silvio Pellico) ante el Risorgimiento;

  • los ultramontanos italianos (Fray Luigi Taparelli d’Azeglio SJ, Dom Giacomo Margotti, Cesare Cantù) y los “zuavos” en la defensa del papado y Los Estados Pontificios;

  • las encíclicas contrarrevolucionarias de los papas: Gregorio XVI y beato Pío IX (también el Syllabus);

  • los defensores legitimistas de los tronos: napolitano, toscano, parmesano y otros en el período de la invasión de “los mil camisas rojas” de Garibaldi y la “fusión” de Italia bajo la batuta del Piamonte;

  • la teoría decisionista de la dictadura de Juan Donoso Cortés;

  • J.L. Balmes ante la revolución de 1848;

  • la apología de “la civilización cristiana” en las obras de J. Donoso Cortés, Jaime L. Balmes y “los neocatólicos” (Cándido Nocedal, Gabino Tejado);

  • la base doctrinal de las guerras carlistas en España (1833-40, 1845-49, 1872-76);

  • el tradicionalismo y legitimismo carlista del siglo XIX (Fray Magín Ferrer, Pedro de La Hoz, Antonio Aparisi y Guijarro, Francisco Navarro Villoslada, Canónigo Vícente Manterola, Enrique Gil Robles);

  • los “integristas” españoles y la polémica con los católico-liberales sobre “el mal menor” (Ramón Nocedal);

  • el legitimismo (el miguelismo) y el ultramontanismo en el Portugal del siglo XIX (António Ribeiro Saraiva, José da Gama e Castro, Manuel Maria da Silva Bruschy, João de Lemos);

  • la política y el pensamiento contrarrevolucionario en la América Románica del siglo XIX: México (el emperador Agustín I, el príncipe de la Cortina, Miguel de la Luz Miramón, el emperador Maximiliano I), Chile (Diego Portales), Perú (Blas Ostolaza de los Ríos, el presidente José Mª. Riva-Agüero), Ecuador (el presidente Gabriel García Moreno).


El Congreso tendrá lugar los días 23-24 de octubre de 2009 en el Instituto de Politología de la Universidad Nicolás Copérnico.

Los idiomas del Congreso: polaco, español (en caso de necesidad también francés e italiano)

El pago asciende para visitantes extranjeros: 120 €.

Intentamos publicar las memorias en un volumen bilingüe (polaco-español) tras el Congreso (nos reservamos el derecho de selección de los textos).

Pedimos enviar la declaración de voluntad de participar en el Congreso junto con el tema propuesto de la memoria hasta 30 de agosto 2009 a los organizadores:

Director Científico: Prof. UMK, Dr. hab. Jacek Bartyzel, jacekbartyzel@wp.pl

Secretarios Científicos: Dr. Dariusz Góra-Szopiński, chopin@uni.torun.pl ,

Mgr. Marcin Polakowski, polakowski.m@gmail.com

Atentamente
Jacek Bartyzel


26/05/09

Apocalissi. La fine dei tempi nelle religioni

Le profezie sui Tempi Ultimi attraggono con il loro fascino irresistibile e a volte inquietante. Apocalissi. La fine dei tempi nelle religioni è un viaggio alla scoperta di questo filone mitico presente in tutte le religioni: in un percorso universale che va dalle fedi monoteistiche alle tradizioni orientali, dall'America precolombiana all'Europa precristiana, interrogando la Bibbia e il Corano, il Vishnu Purana indù e il Popol Vuh maya, nell'ottica scientifica ma affascinante della moderna storia delle religioni. Un viaggio nel futuro dell'umanità così come immaginato, con impressionanti analogie nelle sue tappe fondamentali, dal pensiero religioso d'ogni tempo e luogo: dalla decadenza spirituale dell'uomo all'allontanamento dal divino, dalla corruzione della società agli sconvolgimenti naturali, dal regno oscuro e grottesco dell'uomo-che-si-fa-dio alla vittoria finale della luce.
(Ed. Sugarco, p. 264, euro 19,80)

25/05/09

Summa Daemoniaca: errata corrige

La “Tre Editori Srl” ci scrive nella persona del Dott. Giovanni Albertazzi per comunicarci che l'unica edizione del testo Summa Daemoniaca di P. José Antonio Fortea è quella apparsa nel loro catalogo. Dunque non esisterebbe alcuna edizione Piemme. Ce ne scusiamo innanzitutto con l'editore e naturalmente anche con i nostri lettori. In realtà la comunicazione di una nuova edizione del libro del famoso esorcista spagnolo ci era venuta da un amico libraio di solito ben informato e con tanto di immagine allegata della nuova copertina. Ferma restando la buona fede dell'amico libraio a cui in ogni caso andranno le nostre rampogne, ci rammarichiamo soprattutto di non aver osservato la regola d'oro della verifica alla fonte dell'informazione. Ma garantiamo comunque di aver imparato la lezione.

21/05/09

L'ultimo esorcismo. Filosofie dell'immortalita' terrena


In un famoso racconto di Arthur Clarke, I nove miliardi di nomi di Dio, due tecnici dell’Ibm so­no chiamati in Tibet per compiere per conto dei monaci buddhisti l’impresa di combinare le lettere dell’alfabeto per invocare Dio con tutti i suoi nomi. Impresa che se realizzata avrebbe innescato la fine del mondo. I due esperti di compu­ter svolgono il loro compito svogliatamente ma, proprio mentre se ne vanno, l’universo perde a poco a poco la sua vita...

L’intreccio possi­bile fra spiritualità e tecnologia, da Teilhard de Chardin a Philip Dick, ha affascinato teologi e scrittori e in tempi recenti anche gli scienzia­ti. Fra cui i cosiddetti teorici delle «filosofie dell’immortalità», una corrente di pensiero incentrata sul­le grandi scoperte della GNR Revo­lution, la combinazione di Geneti­ca, Nanotecnologia e Robotica che promette risultati fino a pochi anni fa impensabili, ma che rischia di invadere la sfera fisica e spirituale dell’uomo. Andrea Vaccaro, giova­ne studioso che qualche anno fa fece discutere per aver scritto il pamphlet Perché rinunziare all’a­nima?, con chiaro riferimento alle neuroscienze, ora fa un passo a­vanti nella sua ricerca e manda in libreria sempre per i tipi delle Edi­zioni Dehoniane di Bologna il volu­me L’ultimo esorcismo. Filosofie dell’immortalità terrena (pagine 158, euro 14,60), in cui disegna un futuro un po’ inquietante ma su cui cerca di compiere un’analisi serena e non demonizzante. Una vera sfi­da per la teologia di oggi dinanzi a una possibilità di cui viene addirit­tura fissata una data, il 2029.

Che cosa si intende per filosofie dell’immortalità terrena?

«È inutile tergiversare: la filosofia dell’immortalità terrena è lo stile di pensiero e di vita di coloro che cre­dono che, nell’arco di venti anni, il progresso scientifico e tecnologico condurrà a vincere le cause di ogni malattia e dell’invecchiamento, in modo tale da permettere all’uomo di restare in vita a oltranza, peraltro in uno stato di salute e giovinezza. Ho sperimentato, per primo su me stesso, che in prima audizione un tale messaggio è quasi repellente e il mittente è liquidato come uno squilibrato o uno a cui piace scher­zare. A guardare, però, le menti ec­cellenti che ci sono dietro, il movi­mento mondiale di ricerca, il tasso quotidiano delle scoperte rilevanti, la prospettiva comincia lievemente a mutare. Senza considerare gli e­normi finanziamenti che vi sono convogliati, perché la vita, oltre a essere un valore sacro, è anche un ’prodotto’ che si vende bene. Su queste basi, i filosofi dell’immorta­lità terrena credono che saremo noi la prossima generazione. Che questo diventi davvero realtà, poi, paradossalmente è irrilevante dal punto di vista filosofico, perché ciò che conta è che l’idea sia già qui tra noi. Dio non era morto realmente quando lo Zarathustra di Nietzsche ne proclamava l’epitaffio, eppure il nichilismo ha permeato di sé un intero secolo».

Quali sono i principali esponenti di questa corrente di idee?

«Negli anni Novanta, John Brockham introduceva la categoria di ’terza cultura’, riferendosi a quegli uomini di scienza che usci­vano dal loro specifico settore e of­frivano al grande pubblico, in mo­do comprensibile, sia le più recenti acquisizioni del sapere, sia le loro sintesi culturali. Figure a metà tra scienza e filosofia. I maggiori espo­nenti della filosofia dell’immorta­lità terrena appartengono a tale ca­tegoria. L’autore principale è senza dubbio Ray Kurzweil con il suo illi­mitato tecno-ottimismo e con il suo libro Fantastic Voyage: Living long enough to live forever (Viaggio fantastico: vivere abbastanza a lun­go per vivere per sempre, ndr). Con i suoi ripetuti titoli di inventore dell’anno, le onorificenze conferi­tegli dagli ultimi presidenti Usa, primati tecnologici a ripetizione, Kurzweil è un po’ un Leonardo da Vinci tra i computer. La sua rete è anche un terminale di tutte le sco­perte che provengono dai labora­tori di massimo livello ed è proprio da questa pioggia di progressi quo­tidiani che deriva, molto probabil­mente, la sua previsione estrema. Quella che ripete in più occasioni: ’Io non credo che morirò’».

Kurzweil sembra essere il capofila di questa linea di pensiero: quali sono gli altri protagonisti?

«Penso a Eric Drexler, l’uomo-sim­bolo della nanotecnologia, che ci solletica con il parallelismo tra lo spazio e il tempo, osservando che abbattere le barriere del tempo og­gi appare impossibile come appari­va impossibile, negli anni Trenta, che l’uomo potesse andare sulla Luna. Dal versante della robotica, invece, fa sentire la sua voce lo sto­rico co-fondatore del Mit Marvin Minsky, che insegna come sia or­mai giunto il tempo che l’umanità si stacchi dalla mano di Ma­dre Natura e prenda, con coraggio e responsabi­­lità, a dirigere il cor­so degli eventi, tramite il passaggio da un’evoluzio­ne darwinianamente casuale ad u­na ’selezione innaturale’ determi­nata dalla volontà dell’uomo. Im­possibile poi non citare il bioge­rontologo Aubrey de Grey con la sua fondazione intitolata bizzarra­mente Methuselah Foundation, che ha sfidato e sconfitto pubblica­mente l’intero mondo accademico nel 2005 con la SENS Challenge su Technology Review, ponendo inu­tilmente sul piatto diecimila dollari a chi avesse dimostrato erronea o infondata, in termini ingegneristi­ci, il suo programma di War on a­ging, con le strategie per eliminare l’invecchiamento. Dà per scontata l’idea anche Jaron Lanier, il precur­sore della ’realtà virtuale’. Perso­nalità variegate, dunque, nel cui curriculum, però, brilla una carat­teristica comune: quella di aver previsto, ciascuno nel suo rispetti­vo campo di competenza, il futuro prima degli altri».

E in Italia, quali sono gli epigoni di quello che pare essere un vero in­cubo, più che una possibilità?

«In Italia l’argomento non è ancora molto pervenuto. Del 2005 è il testo di Boncinelli e Sciarretta Verso l’im­mortalità? e, più recentemente, Al­do Schiavone lo ha profilato nel suo Storia e destino. Abbiamo poi alcuni siti ben sviluppati, quali E­stropico e Beyond human, che of­frono generosamente materiali di tale letteratura tradotti in italiano. Ancora, ci sono le reti nazionali as­sociate ad organizzazioni come l’Immortality Institute Humanity Plus, con profilo però più socio-po­litico che filosofico. Niente di più organico, tuttavia».

Quale intreccio con quello che lei definisce la «GNR»?

«La sigla GNR indica il sodalizio che è venuto a formarsi, nell’ulti­mo decennio, tra le discipline del­la Genetica, della Nanotecnologia e della Robotica o Intelligenza ar­tificiale forte. Il motore della GNR revolution è l’applicazione della cosiddetta Legge di Moore all’in­tero mondo della tecnologia. È come se il tempo accelerasse e­sponenzialmente. Il Progetto Ge­noma impiegò tredici anni a se­quenziare un intero Dna e fu con­siderato, appropriatamente, un’impresa enorme, non solo per i quasi cinquecento milioni di dolla­ri profusi; l’anno scorso, la stessa o­perazione sul genoma di James Watson, il Nobel della doppia elica, ha richiesto solo quattro mesi e cir­ca un milione di dollari. Il Personal Genome Project prevede che, nel 2012, ogni nascituro, nella culla, a­vrà, accanto al braccialetto con il nome, anche il suo codice geneti­co, per una spesa modica. A fine 2008, l’Ibm e la National Nuclear Security americana hanno presen­tato il supercomputer Roadrunner, capace di un milione di miliardi di operazioni al secondo: un numero che la mente umana non può nemmeno raffigurare. Con i micro­scopi e le apparecchiature varie della nanotecnologia si è ormai ca­paci di muovere un atomo alla vol­ta e la nanomedicina sperimenta dispositivi che navigano nella cir­colazione sanguigna con funzione di monitoraggio e rilascio farmaci. Tutto questo legittima la convin­zione in forma di slogan secondo cui, in virtù della GNR, ’il futuro non è più quello di una volta’».

Lei accenna a un saccheggio più o meno evidente della visione cri­stiana del paradiso o comunque delle metafore religiose: in che senso?

«Quello che promettono i filosofi dell’immortalità terrena ricalca in maniera sorprendente ciò che i Pa­dri della Chiesa descrivevano come lo stato dei beati in paradiso: bel­lezza senza difetto, forza senza in­fermità, salute senza malattia, gio­vinezza senza vecchiaia e, soprat­tutto, vita senza morte. Quello che rende interessante e distingue que­sta filosofia rispetto agli approcci illuministi e positivisti è però, nella maggioranza dei casi, un atteggia­mento di non contrapposizione verso la religione. Essi usano spessissimo i termini ’trascendenza’ e ’spiritualità’ e, i più accorti, leggo­no questo percorso dell’umanità verso l’infinito come un processo di conoscenza e trasformazione in cui sono immersi, piuttosto che co­me un’autonoma e presuntuosa deliberazione dell’essere umano».

Tecnognosi e tecnopaganesimo, tendenze cui lei accenna, possono essere considerati alternativi a u­na concezione cristiana dell’esi­stemza?

«Ecco, credo che sia centrale per il nostro discorso il ruolo della spiri­tualità in questa filosofia. Come detto, i filosofi dell’immortalità ter­rena affrontano ripetutamente la questione della spiritualità, e non potrebbe essere altrimenti dato che essi vedono bit o pattern infor­mazionali laddove i materialisti ve­devano solo atomi. Certo, le diver­se correnti danno alla spiritualità peso e significati differenti. I più invasati patiti di cyber-cultura parla­no di una sostituzione della religio­ne con una fede nella tecnologia, ma vanno poco oltre l’aggiungere il suffisso ’tecno-’ a espressioni di vago sapore spiritualista. I loro ar­gomenti sono piuttosto effimeri.

Altri, invece, ritengono che lo svi­luppo tecnologico potrà ottenere riflessi positivi anche sulla religio­ne, assicurando di poter diffonde­re, con adeguate sollecitazioni ce­rebrali (’neuroteologiche’), espe­rienze di misticismo che, seppur e­tero-prodotte, faranno provare al soggetto percorsi estatici che non lo potranno lasciare indifferente. Ci sono molte altre posizioni, da quel­la che è detta ’spiritualità impoverita’ alla ’spiritualità desacralizza­ta’ alla ’spiritualità ingegnerizza­ta’. I più ragionevoli, infine, mi sembrano quelli che avanzano con lo slogan ’Dio non ha un sito web’ ed ammettono che - a fronte di tut­te le fantasmagorie che invente­ranno - per esperienze di vera spi­ritualità occorrerà sempre rivolger­si altrove».

SCIENZIATI PRO

MARVIN MINSKY: È ritenuto l’ideatore dell’intelligenza artificiale. Il suo volume più famoso, «La società della mente» (1985), ha inaugurato il dibattito contemporaneo sulla «filosofia della mente». In un saggio più recente prefigura una sorta di «escatologia tecnologica» e si chiede: «Saranno i robot a ereditare la Terra?».

ANDY CLARK: È autore di quello che viene ritenuto il manifesto dei filosofi di nuova generazione, «Natural Born Cyborg». Se eravamo già abituati a vedere vari tipi di cyborg nei romanzi di fantascienza o nei film, Clark preconizza una terza tipologia: l’essere che è mentalmente cyborg.

MAX MORE: È lo pseudonimo di Max T.O’Connor e ama davvero gli eccessi. Anche la moglie, Nanci Clark, ha cambiato nome ed ora si fa chiamare Natasha Vita-More. Sognano una società trans-umana, un ibrido con la tecnologia intelligente. Hanno lanciato il concetto di «extropia» alternativo a quello di «entropia».

KIM ERIC DREXLER: È l’uomo-simbolo della nanotecnologia, di cui ha raccontato il successo nel libro «Engines of Creation» (1986). I processi d’invecchiamento e le forme di malattie non sarebbero che «schemi erronei nella disposizione degli atomi». La nanotecnologia, in versione medica, ha il compito di ripristinare lo schema atomico corretto (già entro il 2030).

RAY KURZWEIL: Geniale inventore, a lui si deve il computer per non vedenti in grado di riconoscere i caratteri di testo e convertirli in voce. Ora tutto il suo impegno è riprogettare l’organismo umano uscendo dallo stato di naturalità.

FILOSOFI CONTRO

PAUL RICOEUR: Il grande filosofo francese morto 4 anni fa lamentava che il progresso tecnico finisce per cancellare «ogni linguaggio simbolico pubblico che parli della possibilità e dei segni di trascendenza». Ha negato che la coscienza possa essere un prodotto del cervello.

HANS JONAS: È noto soprattutto per aver stabilito il limite che la scienza e la tecnica non possono oltrepassare per non danneggiare l’uomo. Il suo saggio «Il principio responsabilità» è un grido d’allarme contro la tecnoscienza che dissolve il concetto di «natura umana».

PAUL VIRILIO: Massmediologo e futurologo, si deve a lui l’efficace raffigurazione di «una mente che diventa un ciarpame, una discarica ingombra di un mucchio di immagini di ogni provenienza». Il riferimento è alla nostra realtà ricca di simulazioni, alla realtà virtuale che cancella l’uomo.Vedi il suo «La bomba informatica» (Cortina).

JÜRGEN HABERMAS: Per il pensatore tedesco (vedi «Il futuro della natura umana», edito da Einaudi), l’uomo di oggi finisce per non essere più certo né dell’«indisponibilità dei fondamenti biologici» della propria identità personale nè di quella «autocomprensione normativa» che si dava per scontata. Le nuove tecnologie «ci spaventano in quanto intaccano l’immagine che ci eravamo fatti di noi stessi».

JEAN BAUDRILLARD: Il pensatore francese ha denunciato che il nostro è il tempo di una società che preferisce la virtualità, che è tutta immersa nell’immanenza e nega spiragli alla trascendenza: «Il linguaggio nella sua versione digitale elimina tutto ciò che vi è in esso di simbolico, insomma tutto ciò attraverso cui esso è ben più di quel che significa».

di ROBERTO RIGHETTO (Avvenire, 20.05.2009)


17/05/09

Teologia degli animali

"Per elaborare una 'teologia' che non abbia più al proprio centro soltanto l'uomo ma assieme a lui l'animale e ogni essere vivente, ci voleva un teologo come Paolo De Benedetti. Il cui pensiero si articola non intorno ad assiomi, evidenze, certezze. Ma intorno al 'forse'. Al dubbio. Alla logica dei doppi pensieri. Solo chi, come lui, ha un senso cosi` forte della precarietà dei giudizi umani e della imperscrutabilità di quelli divini, può arrivare a elaborare una teologia che metta continuamente in discussione se stessa: fino a spostare il centro della propria attenzione dalla creatura umana, che lo ha da sempre altezzosamente occupato, alle creature minori, che sempre sono state ai margini".

(dalla premessa di Gabriella Caramore)


(Paolo De Benedetti, Teologia degli animali, Morcelliana Edizioni, p. 96, euro 10)


15/05/09

I Romani erano già stati in America?


LONDRA, 14 FEBBRAIO - Gli antichi Romani potrebbero 'strappare' il primato della scoperta dell'America a Cristoforo Colombo. Circa 1.200 anni prima che il grande navigatore genovese sbarcasse con le sue tre caravelle sul nuovo continente, sconosciuti marinai dell'impero latino sarebbero arrivati in Messico. La clamorosa ipotesi è di un antropologo americano, Roman Hristov, ex professore alla South Methodist University di Dallas, ed è basata sul ritrovamento di una misteriosa statuetta in terracotta nera, di fattura romana, nel deposito di un museo di Città del Messico. Gli studi di Hristov, che poco hanno a che fare con le 'patacche' che periodicamente circolano sull'argomento, ha trovato credito sulle pagine della prestigiosa rivista britannica "New Scientist".
Tutta la tesi dell'antropologo romano ruota intorno alla statuetta, scoperta del tutto casualmente nel 1933 durante uno scavo archeologico nella Valle della Toluca, a circa 60 chilometri da Città del Messico. Esperti messicani trovarono in una tomba dei primi anni del XVI secolo vari oggetti, tra i quali la statuetta in questione, che poi finì dimenticata in un museo fino al 1994, anno in cui Hristov l'ha di nuovo rintracciata.
Il professor Hristov ha fatto esaminare il reperto (la testa di un uomo con barba) ai laboratori del Max Plank Institute per la fisica nucleare di Heidelberg, in Germania. Le analisi con la termoluminescenza hanno permesso di accertare che il manufatto fu realizzato intorno al 200 dopo Cristo, con uno stile tipicamente romano. L'antropologo, forte di questo autorevole risultato, ritiene che l'oggetto della Valle della Toluca sia la prima 'prova' dei contatti tra gli antichi Romani e l'America.
La rivista "New Scientist" offre ampio spazio alla ipotesi di Hristov, escludendo che la statua sia finita nella tomba messicana in modo del tutto casuale oppure artatamente. La datazione del reperto riapre, dunque, uno dei più dibattuti capitoli su a chi spetti il primato della scoperta dell'America, da qualche decennio 'reclamato' anche dai Vichinghi.
La professoressa Betty Meggers, antropologa al Museo nazionale di storia naturale di Washington, sostiene che "contatti tra il mondo latino e quello americano sono possibile". Ma esclude che la statuetta sia un manufatto romano: "A mio giudizio - ha detto la studiosa - assomiglia più alla ceramica dell'Ecuador e del Giappone".
Il professor David Grove, archeologo dell'University of Illinois, ha detto che la testa di uomo barbuto della Valle della Toluca è "senz'altro di età romana ma ciò non significa affatto che gli antichi Romani siano sbarcati oltre 1.800 anni sulle coste messicane".
(Fonte: New Scientist, 02/2009)


13/05/09

Il crocifisso del samurai


È l'alba quando la giovane Yumiko viene prelevata dalle guardie dello Shogun e torturata pubblicamente. La sua unica colpa è essere figlia di Kayata, samurai cattolico che non ha potuto pagare le tasse alle autorità, i cui uomini ormai da anni umiliano i cristiani di Shimabara con una violenza cieca e annientatrice. Ma nonostante la miseria e il sangue fatto scorrere per fiaccare la loro volontà, gli abitanti del villaggio si raccolgono attorno al simbolo di cui nessuno può privarli: il crocifisso di Cristo. Lo stesso al quale i primi cristiani giapponesi venivano inchiodati dalle guardie dello Shogun. La violenza su Yumiko è la scintilla che spinge uomini e donne alla ribellione estrema: rifugiati nel castello di Hara si oppongono al giogo persecutorio e a un destino ineluttabile. L'assedio da parte degli uomini dello Shogun dura cinque interminabili mesi, senza cibo e possibilità di scampo, ma quel "branco di contadini", guidati dall'Inviato del Cielo, da Kayata e dal suo discepolo Kato, resistono, aggrappandosi alla speranza incrollabile nella resurrezione. Perché solo la fede può superare ogni sopraffazione e dare linfa vitale a un popolo in lotta.
(Rino Camilleri, Il crocifisso del Samurai, Rizzoli, 2009, euro 18,50)

Una nuova rivista: Il Filo d'Arianna

Editoriale

Varare una “rivista di cultura” oggi può sembrare temerario e perfino inutile. Gli spazi, se mai sono stati ampi, sono diventati ridottissimi. Tra la cultura fast food e quella specialistica, che nel nostro Paese partecipa della crisi generale dell’università, sembra non esserci via di mezzo, e ciò è tanto più nefasto in quanto oggi la cultura, e più in generale il sapere, devono combattere su più fronti. Non c’è solo l’avversaria di sempre, quella che i filosofi antichi chiamavano doxa, ossia le opinioni correnti e dominanti, prima riassunte nella cosiddetta “egemonia” e poi nel “politicamente corretto”. Oggi troviamo insidie anche più subdole: il “culturale”, ossia la riduzione della cultura ad evento e, congiuntamente, la vendetta del pettegolezzo sull’arte ; i circenses gabellati per “cultura”, la museificazione della bellezza e l’esaltazione dell’orrido. La retorica dell’impegno, che ci ha assillato per decenni, è passata dalle mani di cantautori e conduttori, diventati maîtres à penser e predicatori domenicali. Il lascito più cospicuo dell’epoca ideologica è la demagogia culturale ovvero l’ignoranza organizzata.
Ai livelli medio-alti si tende da un lato ad identificare la cultura con la cultura politica (quanti politologi si impancano a storici?), e dall’altro con gli esotismi letterari che ci vengono propinati di volta in volta. Abbiamo assistito a mode culturali presto cadute nel limbo del sentito dire. Ma le “scienze umane” più in sintonia con il mondo globale in cui viviamo, la linguistica — beninteso quella vera — e l’antropologia, sono al di fuori degli interessi attuali. Del resto, nel nostro Paese non si fa divulgazione scientifica e la cultura accademica usa l’incomprensibilità, o l’illeggibilità, come fashion.
L’editoria è succube dell’attualità. Gli autori sono nel migliore dei casi giornalisti e nel peggiore politici e vip della cronaca. Gli stessi bestsellers, cucinati in salsa “culturale” per soddisfare lo snobismo dei ceti emergenti, hanno imboccato la strada dello scandalismo. La letteratura (creativa) langue ed è campo di scorribande da parte di professori/ traduttori, che esibiscono come cosa propria i lustrini delle culture altrui. La critica letteraria si riduce sempre più a pubblicità (tutto ciò che si pubblica è “grande” e rappresenta una svolta epocale, che dopo qualche mese nessuno ricorda più) e non giova a quei pochi narratori che si distinguono o tentano di distinguersi dalla folla dei romanzieri d’annata. Trionfano i “contenuti” più triviali ed il nostro Paese, che fu già patria dell’estetica, sembra regredito all’età della pietra. Non parliamo della grande esiliata: la poesia. L’arte è infestata dalle pseudo­avanguardie e dai concettualismi più sfrenati ed assurdi. Di fronte alla svolta mondiale del “postmoderno”, con il suo recupero della tradizione, anche figurativa, seguita ad imperversare la Facilarte con le sue trovate tanto estemporanee (le cosiddette installazioni, per esempio) quanto inconsistenti.
Ogni discorso storico deve subire a tutt’oggi le censure dei venerabili della Resistenza e si seguita ad usare il termine (staliniano) di revisionismo come se il muro di Berlino non fosse mai crollato. Assistiamo alla trasformazione della linguistica in un’ideologia dommatica da parte di consorterie accademiche in servizio di sorveglianza permanente dentro e fuori le università per le discipline di cui si ritengono depositarie. Trionfa l’abitudine non a discutere, ma a “vincere”, costruendosi avversari di comodo. Mai come negli ultimi anni il degrado della lingua ha coinciso con la caduta del livello culturale e questa con il trionfo della politica in senso deteriore.
Sbrogliare questa matassa per ritrovare il filo della cultura, ossia di quel minimo di verità compatibile con la cultura, è diventato sempre più difficile, ed impossibile senza riannodare il rapporto con quei grandi nomi, e quelle tendenze, che hanno dato nerbo e carattere al patrimonio culturale italiano ed europeo. L’oscuramento del passato a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni ha prodotto due gravi conseguenze: la ricaduta in errori che si credevano superati e la scoperta di novità che sono soltanto anticaglie rinnovate.
Oggi, grazie alla rapidità delle comunicazioni, l’orizzonte culturale si è allargato enormemente. Ma non riusciamo a profittarne se non in termini di imitazione provinciale e, più spesso, negandoci a ciò che di veramente nuovo bolle in pentola. Siamo stati i pionieri dell’Unione europea, ma l’Europa non ci salverà, se non sapremo essere prima di tutto italiani: “Che l’Italia torni ad essere quella di un tempo, scriveva Charles Morgan nel 1945, è evidentemente un interesse dell’Europa e di tutta la civiltà, non soltanto perché l’Italia custodisce sì gran parte delle tradizioni civili, ma perché essa non è, né è stata mai, una nazione intransigente (excluding); ed in alto grado possiede la duplice qualità di ricevere con grazia e donare cordialmente”.

(Per acquisto copie scrivere a: tabulafatiordini@yahoo.it)

Sommario

Per una politica della lingua
Lucio D’Arcangelo, Un paese senza lingua
Franco Cardini, L’imperialismo culturale italiano
Renato Besana, Lingua nel caos
Maurizio Dardano, La lingua si difende da sé?
Antonio Sorella, L’italiano? Lo salverà la scuola
Massimo Arcangeli, Tutti per uno, uno per tutti

Documenti

La bella lingua
L’italiano in Europa
Il nuovo analfabetismo

Una valanga di libri

Conversazione con Ferruccio Parazzoli
Dino De Riseis, Dossier Borges
Da Buenos Aires a Babilonia
Borges e l’infamia
Tre inediti
Antologia

Civiltà delle lettere

Lucio D’Arcangelo, Ricordo di Luciano Anceschi
Giuseppe Conte, Reinventare il mondo
Giulio Rasi, Savinio e gli dèi
Marco Delleani, Lighea
Paolo Pinto, La vita altrove
Paolo Pinto, Francesco Petrarca peregrinus ubique
Monica Farnetti, Felicità di Katherine Mansfield

Archivio di poesia
Narrativa

Marco Delleani, Racconto fra le righe
Renato Besana, Quattro righe, ma buoniste
Rolando D’Alonzo, La sigaretta

Linguistica

Lucio D’Arcangelo, La foresta di suoni
Armando Francesconi, Tradurre o non tradurre

Europa e oltre

Alberto Rosselli, Turanismo e Panturanismo


11/05/09

Giorgio Colli: Filosofi sovrumani

Risvolto:

«Nel VI secolo interviene un fattore nuovo a trasformare in modo decisivo la vita spirituale della Grecia, cioè il fenomeno cosiddetto dionisiaco ... il fenomeno dionisiaco è stato prevalentemente studiato nel suo aspetto artistico e religioso, e quasi mai si è analizzata la sua relazione sostanziale con l’intera evoluzione spirituale greca, e soprattutto con la filosofia. Con un termine più filosofico si può chiamare misticismo questo movimento; mentre sin qui l’uomo aveva guardato il mondo e in questo aveva inserito come parte se stesso, ora si stacca da tutto, si volge alla propria interiorità, e ricercando in se stesso vi trova il mondo e la divinità. Vediamo così coesistere nel VI secolo in Grecia due visioni del mondo antitetiche, una politica e una mistica: dall’urto di queste forze nasce il miracolo della filo­sofia greca. Nel nostro studio seguiremo costantemente questa distinzione fon­da­mentale, sviluppandola e giustificandola sui testi dei Presocratici e di Platone». Sarebbe difficile trovare parole migliori di quelle dello stesso Colli per presentare questo suo scritto, rimasto fino a oggi inedito. Un’opera che soltanto dal punto di vista meramente cronologico si può de­finire giovanile, poiché già contiene in forma compiuta e matura interpretazioni ricorrenti in tutto il suo percorso filosofico. Interpretazioni che, esposte qui in forma più accessibile e diretta che altrove, sono ancora oggi tanto misconosciute quanto fondamentali per «comprendere nella sua essenza l’o­rigine della filosofia greca».

09/05/09

Summa Daemoniaca

Si tratta di un vero e proprio trattato di demonologia, di impianto quasi “scolastico”. L’autore, considerato come «il più grande esorcista spagnolo», ci trasporta in pieno XXI secolo «nel mondo ancestrale della possessione diabolica". Un libro sulla parte più oscura della creazione e che insegna a "conoscerla, affrontarla e sconfiggerla».

Nello stile degli antichi trattati scolastici, cioè procedendo per domande (per la precisione 183) e risposte, il giovane teologo ed esorcista José Antonio Fortea, parroco di Nostra Signora di Zulema, nei dintorni di Madrid, illustra il catechismo della Chiesa Cattolica su Diavolo, demoni e possessione demoniaca, e propone un particolareggiatissimo manuale a uso degli esorcisti. Ogni possibile quesito in merito viene sviscerato con l'ausilio di citazioni bibliche e non: quali sono i nomi dei demoni? Perché Dio permette la tentazione? Cos'è la morte eterna? Qual è il male maggiore? Come si fa a capire se un posseduto è soltanto affetto da una patologia psichiatrica? In appendice alcuni brani significativi de La mistica città di Dio, scritto nel '600 da Suor Maria di Gesù di Agreda, un'ampia selezione del Libro di Ezechiele tratta dall'Antico Testamento e passi scelti dagli Esercizi Spirituali di Sant'Ignazio di Loyola...

José Antonio Fortea, Summa Daemoniaca, Piemme, Milano 2009, pp. 260, euro 18


Addendum

Una curiosità editoriale. La prima edizione in lingua italiana di questo libro è apparsa nel 2008 a cura dei "Tre Editori" il cui logo è... un serpente con tre gambe. Per chi non lo sapesse la casa editrice è stata fondata a Città del Messico negli anni ottanta dall'avvocato di Gudrun Ensslin, la donna morta suicida in carcere e che fu a capo della Baader-Meinhof , da Ewa Reich figlia del famigerato Wilhelm e da un terzo elemento seguace di Carlos Castaneda. Il catalogo dei Tre Editori è tutto "esoterico" (qui nell'accezione più volgare e profana del termine). Ecco alcuni titoli: Christophe Boursellier Carlos Castaneda la biografia; György E. Szõny, Gli angeli di John Dee. Il Merlino di Elisabetta; Hermann Rauschning, Colloqui con Hitler. Le confidenze esoteriche del Fuhrer; R. A. Schwaller de Lubicz, Esoterismo e simbolo. La sapienza egizia rivelata dall'ispiratore di Fulcanelli; R. A. Schwaller de Lubicz, Verbo natura. Dall'anima dell'Egitto l'ultima rivelazione di un grande maestro; Dion Fortune, La battaglia magica d'Inghilterra. Una grande occultista sfida Hitler. Insomma, sarebbe interessante conoscere le ragioni che hanno indotto il "serpente a tre gambe" a pubblicare un testo di demonologia riconosciuto dalla Chiesa Cattolica e Padre José Antonio Fortea ad accettare di farselo pubblicare proprio da quell'editore. Eterogenesi dei fini?

05/05/09

Le lettere di Cristina Campo a María Zambrano

Le lettere che Cristina Campo scrisse a María Zambrano tra il 1961 e il 1975 permettono di scoprire un vertice della scrittura epistolare campiana e costituiscono senza dubbio una chiave d'accesso indispensabile per la conoscenza autentica della vita e dell'opera di due pensatrici tra le più significative del Novecento. La vita quotidiana, la gioia, la poesia, la scrittura, gli amici, i libri, la liturgia, la preghiera, la lontananza e la nostalgia, (a fedeltà della fiducia e della tenerezza, il dolore, la speranza, "ciò che rende possibile l'attesa indefinita di un miracolo": tutto questo Cristina Campo affida all'amica lontana, che lo trasfigurerà al centro della sua ricerca filosofica nella figura aurorale della fiamma, il piccolo inesauribile trattato che María Zambrano dedicò nel 1977 a Vittoria-Costina in memoria.

Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-1975, Campo Cristina, Archinto, 2009, pp. 84, euro 14,50.

02/05/09

Se non ci fosse stato bisogno della Redenzione, vi sarebbe stata egualmente l’Incarnazione?

Uno degli interrogativi più ardui e - se ci è concessa l’espressione - più appassionanti della teologia cristiana è, a nostro avviso, il seguente: «Se non vi fosse stato nessuno da redimere, Cristo si sarebbe fatto egualmente carne e sangue; si sarebbe fatto egualmente Uomo fra gli uomini, affrontando, per amor loro, la sofferenza e la morte?».
Non è, si badi, una domanda oziosamente astratta; non è una domanda per professori che hanno la sola preoccupazione di girarsi i pollici tutto il santo giorno, seduti comodamente dietro la loro cattedra, con la sicurezza dello stipendio assicurato ad ogni fine del mese.
Al contrario: è una domanda drammatica; e, inoltre, una domanda estremamente pregnante, anche sul piano speculativo e prettamente filosofico.
Drammatica: perché, per un cristiano, il mistero più altro della propria religione, l’Incarnazione, si intreccia con quello altrettanto profondo della Redenzione, e pone con forza la questione del senso della condizione umana, anzi, della condizione universale: a che cosa tendono gli enti, e con quali forze possono realizzare la propria vocazione? Se sono stati chiamati alla pienezza, cioè al Bene, come mai non possiedono l’autonoma capacità di perseguire tale fine; e come mai, pur potendo disporre dell’aiuto soprannaturale della Grazia, accade frequentemente che cadano ugualmente, né riescano a portare a termine il proprio scopo?
Pregnante: perché, se il peccato originale ha reso necessaria l’Incarnazione, allora è l’uomo che, con la sua caduta, muove il piano provvidenziale di Dio: e, in questo caso, dovremmo parlare di una teologia antropocentrica, nella quale tutto parte dell’uomo ed all’uomo ritorna; mentre, se si ammette che l’Incarnazione vi sarebbe stata comunque, allora ci si trova in presenza di una teologia cristocentrica, sulla linea del Vangelo di San Giovanni e delle Epistole di San Paolo.
«In principio era il Verbo [il Logos] - esordisce, magnificamente, il quarto Vangelo -; e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio».
E ribadisce il concetto con l’affermazione esplicita di Cristo (Gv., 10, 30): «Io e il Padre siamo una cosa sola».
Dunque, Cristo esiste «ab aeterno»: il fatto che Egli si sia incarnato, in un dato momento storico, non significa che Egli si riduce alle dimensioni del Cristo storico; al contrario: il Cristo storico è solo la manifestazione visibile, per così dire, del Cristo divino, del Cristo eterno.
E, se è eterno, allora vuol dire che il Cristo continua ad essere non solo l’alfa, ma anche l’omega della creazione: vuole dire che tutte le cose tendono a lui, o meglio, che Egli attira a sé tutte le cose, per dare ad esse la pienezza e la vita.
Come dice San Paolo nella Lettera agli Efesini (4, 7 sgg.):

«Il corpo di Cristo si svilupperà fino a quel giorno in cui l’unità della fede ci raccoglierà tutti nella conoscenza perfetta del Figlio di Dio e giungeremo a formare l’uomo adulto, a raggiungere pienamente la statura di Cristo.»

E, sempre San Paolo, nella Lettera ai Corinzi, XV, 12-28):

«Noi dunque predichiamo che Cristo è risuscitato dai morti. Allora come mai alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti? Ma se non c’è resurrezione dei morti, neppure Cristo è risuscitato! E se Cristo non è risuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore. Anzi finiamo per essere falsi testimoni di Dio, perché, contro Dio, abbiamo affermato che egli ha risuscitato Cristo. Ma se è vero che i morti non risuscitano, Dio non lo ha risuscitato affatto. Infatti se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato. E se Cristo non è risuscitato, la vostra fede è un’illusione, e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche i credenti in Cristo che sono morti sono perduti.
Ma se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini.
Ma Cristo è veramente risuscitato dai morti, primizia di risurrezione per quelli che sono morti. Infatti per mezzo di un uomo è venuta la morte, e per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione. Come tutti gli uomini muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti risusciteranno per la loro unione a Cristo. Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono. Poi Cristo distruggerà ogni Principato, Dominazione e Potenza, e consegnerà il regno a Dio Padre: allora sarà la fine. Perché Cristo deve regnare, finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte. Infatti la Bibbia afferma: «Tutto ha posto sotto i suoi piedi» [quest’ultima citazione si riferisce al Salmo 110, 1, e al Salmo 8, 7].
Ma quando dice che tutto gli è stato assoggettato, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha assoggettato ogni cosa. E quando avrà assoggettato a lui tutte le cose, allora il Figlio stesso farà atto di sottomissione a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti.»

E ancora Giovanni, nel Libro dell’ Apocalisse (22, 12 sgg.):

«Ecco, io vengo presto, e porto con me il premio, per retribuire ciascuno secondo le opere sue. Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine.»

Dicevamo che la tesi antropocentrica relativa all’Incarnazione è stata sostenuta da Tommaso d’Aquino e dalla sua scuola, con la celebre formula: «Peccato non existente, Incarnatio non fuisset»; cioè: «Se non vi fosse stato il peccato [originale], non avrebbe avuto luogo neppure l’Incarnazione» («Summa Theologiae», III, q. 1, a. 3).
È pur vero che né San Tommaso, né San Bonaventura, insieme alla maggior parte dei teologi della Scolastica, hanno presentato tale proposizione come una certezza, ma solo come una probabilità; è probabile - essi dicono - che, se non vi fosse stato il peccato, Dio non avrebbe avuto necessità di incarnarsi per liberare gli uomini da esso.
Ma quella probabilità fu trasformata in certezza dai seguaci e dai continuatori di San Tommaso e di San Bonaventura; e tale divenne ,ben presto, nella convinzione dei più.
Da parte sua, Giovanni Duns Scoto, il «Doctor Subtilis» dell’Ordine francescano, contemporaneo di Dante, aveva elaborato una dottrina diversa: per lui, era cosa certa - e non soltanto probabile - che Cristo si sarebbe incarnato egualmente, anche se non vi fosse stato il peccato originale, portando verso la pienezza l’intera creazione.
Al di là della differente interpretazione dei passi scritturistici che giustifica i diversi esiti della ricerca delle due grandi scuole teologiche medievali, la tomista (che, in questo caso, prese decisamente il sopravvento per alcuni secoli, diciamo pure fin verso il Concilio Vaticano II) e la scotista, la differenza di fondo delle due linee di pensiero verte su un aspetto che trascende di gran lunga l’oggetto della disputa, ossia la gratuità assoluta della Redenzione.
Per la scuola tomista, Cristo si è incarnato per redimere l’umanità peccatrice; dunque, Egli ci ha riscattato a caro prezzo perché fossimo liberati dagli artigli del diavolo e dalla morte stessa, frutto del peccato.
È chiaro che, alla base di questa interpretazione, l’attributo divino che viene privilegiato è la Giustizia. Dio compie un atto di riparazione, ricomprando - cioè pagando il prezzo dovuto – ciò che era stato venduto: tale il significato etimologico del verbo «redimere». Innegabilmente, questa interpretazione finisce per assumere una connotazione di tipo prevalentemente legalistico: l’Incarnazione e la stessa Passione di Cristo appaiono come la volontà di adempiere ai doveri di un contratto.
Invece l’interpretazione scotista ha questo di caratteristico, che mette in risalto la gratuità del dono fatto da Dio all’uomo mediante l’Incarnazione. Cristo si incarna per un atto di amore e per portare nel mondo la pienezza della sua vita, della sua gloria, della sua luce.
Per Duns Scoto, Cristo che si incarna compie un atto di amore gratuito, totalmente libero e, quindi, non condizionato dal peso del peccato; la Redenzione, pertanto, non è solo e unicamente il risarcimento di un danno commesso (la colpa di Adamo), ma la Redenzione dell'umanità e dell'universo tutto (come dice San Paolo) dai limiti di una condizione imperfetta, dominata dalla morte, per trasfigurarlo nella sua stessa Vita inesauribile.
Anche Teilhard de Chardin fondava la sua teologia sull'idea cristocentrica e pensava che una grande evoluzione cosmica conducesse ogni cosa verso il Cristo finale, fonte di amore inesauribile, che segna l'alfa e l'omega del creato.
Ma vediamo più da vicino le ragioni per le quali la scuola tomista perviene alla formulazione sopra citata: «Peccato non existente, Incarnatio non fuisset»; dopo di che, potremo sviluppare alcune considerazioni più specifiche in proposito.
Per farlo, ci serviamo di una pagina del saggio del teologo J. F. Bonnefoy, «Il primato di Cristo nella teologia contemporanea», in «Problemi e orientamenti della teologia dogmatica», Milano, Marzorati, 1957, vol. II, p. 193 sgg., 226); riportato anche nel libro di Samuele Girotto «Cristo, centro dell'Universo» (Torino, Marietti, 1969, pp. 318-21):

«Un altro punto della scuola tomista che restringe e oscura la vocazione del Cristo nell'universo, è quello riguardante le ragioni e le finalità dell'Incarnazione.
I teologi scotisti fermano la loro attenzione principalmente sul culto d'onore e d'amore dovuto in modo adeguato e sicuro all'infinita maestà di Dio, sulla Signoria assoluta e universale dell'uomo Cristo Gesù.
I tomisti, invece, escludono questi scopi e affermano - nel decreto dell'Incarnazione - un solo motivo o fine: quello redentivo, citando anch'essi, a prova della loro dottrina, testi biblici e patristici.
Si è già visto sopra che il loro modo di ragionare sui testi citati non corrisponde a verità. Lo documentiamo con le seguenti riflessioni storiche e teologiche.
"La ragione propriamente detta dell'Incarnazione che si trova più spesso sostenuta nella teologia latina - osserva Bonnefoy - è indubbiamente la redenzione del genere umano.
Si deve vedere in questo fenomeno un'influenza, se non addirittura una esagerazione, della dottrina di S. Agostino, maestro dei nostri grandi Scolastici..
Egli, che aveva avuto nella giovinezza una penosa esperienza del male morale, ne fu costantemente preoccupato, cosicché si potrebbe dire della sua teologia quello che il Gilson ha detto della sua filosofia: essa è una teologia della conversione.
Che il Cristo sia il nostro Salvatore, lo attestano tutte le pagine della Sacra Scrittura e lo stesso nome di Gesù. Non c'è cristiano che lo contesti.
L'errore comincia quando si dice espressamente o in modo equivalente che la nostra redenzione è l'unico beneficio dell'Incarnazione.
Questa utilità, più sentita perché più aderente a noi, non deve tuttavia nascondere altre verità non meno indiscutibili, e principalmente il fatto che la nostra elevazione alla vita soprannaturale è ugualmente un beneficio dell'Incarnazione, un frutto della Passione di Cristo.
I difensori del primato assoluto di Cristo (gli scotisti) hanno amato sottolineare questo punto di vista per combattere la tesi tomista, secondo la quale la redenzione sarebbe l'unico motivo dell'Incarnazione…
Degno di particolare interesse, per il suo tono non polemico, lo studio di Lot-Borodine sulla "Dottrina delle deificazione nella Chiesa greca fino al XII secolo".
L'autrice ha potuto scrivere, esagerando un po', quanto segue: 'D'altra parte, la caduta prevista - quasi augurabile nel sistema agostiniano, a causa dell'Incarnazione, resa necessaria da essa (cioè dalla colpa di Adamo) e inutile senza di essa - non è mai stata per l'Oriente la FELIX CULPA; ciò tanto meno, poiché l'Incarnazione non vi è mai stata concepita (nell'Oriente) in funzione della Redenzione.'
Quali che possano essere i ritocchi da apportare sotto il profilo storico a quest'ultima osservazione - continua il Bonnefoy -, è ben certo che la redenzione liberatrice, come si verifica nel genere umano, e la stessa nozione di CADUTA, presuppongono una elevazione preliminare, che la Scrittura e la Tradizione attribuiscono ai merito di Cristo re che i Padri hanno valorizzato.,
Le due fonti della Rivelazione non sembrano meno chiare - malgrado le perplessità di una parte della scuola tomista - nel considerare Gesù Cristo come il mediatore degli Angeli.
Anche qui gli autori scotisti si sono preoccupati di raccogliere le testimonianze della Tradizione relative a questo punto di dottrina. Basterebbe questo per controbattere la tesi della redenzione unico motivo dell'Incarnazione, e la conseguenza che se ne trae (dai tomisti): 'Dunque, se Adamo non avesse peccato, il Verbo non si sarebbe incarnato'.
Ecco il motivo per cui gli scotisti hanno tanto insistito su questa dottrina (cioè sulla mediazione di Cristo e dei suoi meriti in favore della santificazione e della salvezza degli angeli…).
L'insegnamento dei Padri, meglio conosciuto sulla grazia degli angeli e sulla formazione del corpo di Adamo, ha aperto una breccia nella tesi tomista del motivo unico dell'Incarnazione.
Così pure l'attribuzione non meno comune - specialmente presso i Padri greci - della prima grazia dei nostri progenitori ai meriti di Cristo determina il crollo completo della tesi fondamentale della scuola domenicana, che così si esprime: 'L'Incarnazione non è causa della grazia per gli Angeli, né per Adamo innocente'.
Un altro sublime beneficio dell'Incarnazione è la singolare predestinazione di Maria Vergine, che fu decretata da Dio anteriormente alla predestinazione degli Angeli e degli uomini, e quindi indipendentemente dalla caduta di Adamo e da qualunque debito di peccato.
Questa dottrina - cioè l'esenzione di Maria anche dal debito di contrarre la colpa - guadagna terreno di giorno in giorno, come si è potuto constatare recentemente a Roma in occasione del Congresso Mariologico del 1954. Essa è parsa a numerosi teologi come imposta dalla stessa definizione dogmatica del 1954. E coloro che la contestano riconoscono ch'essa è una conseguenza logica (e necessaria) del primato assoluto di Cristo.»

E conclude Samuele Girotto (op. cit., p. 322):

«È dunque chiaro quanto sia insostenibile, anzi erronea, la tesi tomista dell'unico motivo o fine dell'Incarnazione.
Come la redenzione del genere umano dal peccato è uno dei fini dell'Incarnazione, così pure il culto d'onore e d'amore dovuto a Dio, la Signoria universale del Cristo, il suo Primato assoluto, la deificazione delle creature ragionevoli, sono altrettante finalità della venuta di Cristo nel mondo, racchiuse nei testi biblici, bene interpretati.»

Dunque, e a parte il discorso su Maria Vergine e sul mistero della sua predestinazione, la teologia di Giovanni Duns Scoto individua diversi motivi per l'Incarnazione, oltre a quello puramente redentivo e legalistico d'impronta tipicamente vetero-testamentaria.
Il più importante di essi, posto che sia possibile istituire una graduatoria, è che la venuta di Cristo nel mondo rende più esplicito e comprensibile agli uomini il messaggio di Dio, la Buona Novella (Evangelo), attraverso la sua predicazione, la sua Passione e la sua Resurrezione, cuore e centro della teologia paolina.
Teilhard de Chardin, come è noto, ha portato alle estreme conseguenze il concetto che Cristo non è venuto nel mondo una sola volta, ma tornerà - anzi, sta già tornando - per attrarre a sé l'intera creazione, trasfigurandola in cieli nuovi e terre nuove; e che, dunque, non solo per gli uomini (e per gli Angeli) si svolge questo gigantesco dramma cosmico, ma per ogni singolo ente dell'universo, compresi quelli che, alla nostra debole scienza attuale, possono apparire privi di ragione.
Ma quale maggiore assurdo, che quello di immaginare creati da Dio degli enti perfettamente inutili? Ché tali sarebbero quelli che, privi di ragione e di coscienza, non sarebbero mai in grado di godere i benefici della rivelazione finale di Cristo e della trasfigurazione del cosmo.
C'è un passo famoso e veramente potente di San Paolo, a questo proposito, che recita così (nella Epistola ai Romani, 8, 19-23):

«La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella gloria dei figli di Dio. sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.»

Anche il corpo, quindi, attende di essere redento; la redenzione non è un fatto che riguardi solo la dimensione spirituale.
Anche la terra soffre e geme, come nelle doglie del parto, in attesa della propria redenzione. Possibile che queste parole debbano essere intese solo in senso poetico e metaforico? Francamente, la cosa ci sembra un po' eccessiva. È ben vero che San Paolo parla, talvolta, in senso figurato; ma, quando lo fa, lo dice apertamente, e non lascia sussistere margini di ambiguità su cose d'importanza fondamentale.
Ora, la prospettiva delineata qui da San Paolo è perfettamente in accordo sia con il Quarto Vangelo, sia con l'escatologia dell'Apocalisse. Il Padre e il Figlio sono una sola ed unica realtà; il Figlio è sempre esistito e si è poi manifestato al mondo, per tornare al Padre, in attesa degli ultimi tempi; la funzione della sua venuta è quella di manifestare apertamente agli uomini la gloria del Padre e annunciare loro la parola dell'Amore, che comprende ma, al tempo steso, supera la parola della Legge.
Se Cristo si fosse incarnato solo per attuare la redenzione degli uomini dal peccato, allora il suo non sarebbe stato un atto di amore assolutamente libero: sarebbe stato condizionato da uno stato d necessità. In breve, non avrebbe potuto esprimere a pieno quel messaggio di amore gratuito e disinteressato che oltrepassa di gran lunga la prospettiva legalistica e giustizialistica dell'Antico Testamento.
Se Cristo si fosse incarnato solo per liberare gli uomini dal peccato, il cristianesimo non avrebbe sostanzialmente superato l'ambito del giudaismo; perché il giudaismo non è mai arrivato all'idea di un Redentore universale che si fa uomo per amore degli uomini, di tutti gli uomini, non solo per liberarli dalle tenebre del peccato, ma anche per donare loro, a tutti gli effetti, la pienezza di figli, in un universo totalmente rinnovato e spiritualizzato.

(Fonte: /www.ariannaeditrice.it 29/04/2009; autore: Francesco Lamendola )


Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amm. comunali, per Ass. culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Ist. per la Storia del Risorgimento; la Soc. "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Ass. Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A.Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.


01/05/09

Fra il diavolo, Platone e Komeini

di Filippo Giannini

Quando una città retta da democrazia si ubriaca, con l’aiuto di cattivi coppieri, di libertà confondendola con la licenza, salvo a darne poi colpa ai capi accusandoli di essere loro i responsabili degli abusi e costringendoli a comprarsi l’impunità con dosi sempre più massicce d’indulgenza verso ogni sorta d’illegalità e di soperchieria; quando questa città si copre di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per poter continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando il padre si abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a copiarlo perché ha paura del figlio, quando il figlio si mette alla pari del padre e, lungi dal rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua avidità; quando il cittadino accetta che, da dovunque venga, chiunque gli capiti in casa possa acquistarsi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e c’è nato; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private?

In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarne tutti i vizi; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo sulle gambe di chi le ha più corte; in un ambiente siffatto, diciamo, pensate voi che il cittadino accorrerebbe in armi a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?

Ecco, secondo noi, come nascono e donde nascono le tirannidi. Esse hanno due madri. Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi.

Allora la gente si separa da coloro cui fa colpa di averla condotta a tanto disastro e si prepara a rinnegarla prima con sarcasmi, poi con la violenza, che della tirannide è pronuba e levatrice.

Così muore la democrazia: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo”.

Queste sono parole, scritte e pronunciate oltre 2.400 anni fa, da uno dei più grandi filosofi dell’umanità: il greco Platone.

Chiediamo perdono al grande filosofo se, parafrasiamo il suo pensiero e lo facciamo nostro per riportarlo, quasi per intero, ai tempi nostri: quando ai giovani presentiamo un maramaldo e lo indichiamo come eroe e si condanna l’eroe tacciandolo per maramaldo; quando al giovane poniamo come meta assoluta il raggiungimento, con qualsiasi mezzo, della ricchezza; quando si deridono i doveri e si pretendono tutti i diritti; quando ad un giovane esaltiamo le capacità di guadagno di una prostituta, deridendo, di contro, il lavoro onesto; quando si confonde la solidarietà con la furbizia o l’imbecillità; quando gli stessi governanti si vantano delle loro omosessualità e la trasformano in virtù; quando si permette di deridere il sacrificio di Cristo e dei martiri, avocando ciò come diritto alla libertà; si festeggiala sconfitta della propria Patria e di ciò si rende grazie al nemico; quando noi europei rinunciamo alla nostra millenaria civiltà per accettare il rozzo e spaccone e immorale american style of living; quando si confonde il tradito con il traditore; quando si esaltano gli scempi compiuti sui cadaveri; quando tutto questo (e tanto altro ancora) si verifica, allora dobbiamo essere pronti ad accettare, anzi propugnare qualsiasi soluzione.

Chi legge queste note certamente ricorderà l’allegoria proposta da Platone, quella dello schiavo incatenato in un a caverna con il volto rivolto perennemente verso il fondo. Egli vedrà riflesse le ombre del mondo esterno contro la parete, e per lui, che solo quelle ombre può vedere, soltanto quelle sono il mondo esterno, il mondo reale.

Se riportiamo questa allegoria al tempo di oggi, non possiamo non osservare che per i giovani, che sono perennemente incatenati non in una caverna, ma di fronte ad un apparecchio televisivo, per loro, parimenti al povero schiavo, quello che osservano e ascoltano è il mondo reale. Sicché da anni, il concetto di estetica, di valore, di virtù, di doveri, come noi li conoscevamo, tutto questo si è capovolto, è naufragato. E i giovani conoscono e si riconoscono nella violenza (Rambo insegna), corruzione, droga, godimento sfrenato, la virtù dell’omosessualità, la civiltà del dollaro, l’ambizione dei bambini di una certa area della penisola di divenire capi mafiosi; e tanto, ma tanto altro ancora. D’altra parte queste sono le ombre che vengono propinate alla nostra gioventù, non più verso una parete di una grotta, ma dallo schermo della televisione. Ma l’effetto è lo stesso. Ecco, allora, spiegato i perché e i come è possibile dei fatti di Novi Ligure, quelli di Pietro Maso, o quello dei fidanzatini Doretta Graneris e Guido Badini e di tanti altri simili.

E noi dovremmo rimpiangere il crollo di un simile sistema? L’europeo che ha accettato di far entrare nelle proprie case l’american style of living, origine di tutte le nefandezze sopra denunciate, dovrebbe ricordare l’ammonimento del santone iraniano, Komeini che, poco prima di morire ammonì: <La residenza di Satana è a New York>.

Aveva tutti i torti?