29/04/08

Gli atti del processo ‘Darwin vs Ingegnere Supremo’

«Alla fine di tutto, l’impressione che se ne ha è quella di un continuo cambiamento di piani, dalla scienza alla filosofia, dai dati alle illazioni più arbitrarie, tale per cui l’aspetto scientifico continua a slittare in secondo piano rispetto alle opinioni, sempre non verificate. L’ipotesi evoluzionistica è cioè una grande, colossale Chiesa che per essere creduta chiede costantemente di rinunciare alla ragione. Strenuamente la difende un nugolo di chierici dogmatici e clericali. Per questo noi non smettiamo mai di dirci fieramente laici, cioè liberi di guardare e valutare, e responsabili nel farlo. Ci sembra questo un bel processo intelligente di studio». È questo, in sintesi, il «verdetto» di un meticoloso «Processo a Darwin» (Piemme, pagine 190, euro 15) scritto da Marco Respinti, giornalista de «Il Domenicale» che dopo aver firmato negli ultimi anni diverse pubblicazioni sulla cultura anglosassone e il mondo conservatore angloamericano ha condensato in un pamphlet affilato anni di letture e approfondimenti sul darwinismo e il mistero della nascita e dello sviluppo della vita. Una chiarificazione introduttiva su cosa sia da intendersi con gli (spesso abusati) concetti di «scienza» e «metodo scientifico», un «ripasso» della genesi storica della teoria evoluzionistica prima e darwiniana poi, una collezione delle incongruenze interne a quest’ultima, dei falsi della paleontologia moderna e delle prove che i discepoli elaborarono ad hoc per comprovare le posizioni del maestro. Infine una disamina delle posizioni sostenute dai più noti banditori odierni del neodarwnismo, da Richard Dawkins a Telmo Pievani, per quanto riguarda la provincia italica, per concludere, in spregio al politically correct divulgativo, che «nulla, davvero nulla attesta con certezza le teorie darwiniane». Con un’apertura di credito alla bistratta scuola dell’«Intelligent Design». Una voce decisamente fuori dal coro, insomma, quella di Respinti, che se non altro ha il merito di bilanciare, nell’editoria nostrana, il dibattito sull’enigma dell’«origine delle specie», homo sapiens sapiens incluso. (A.G.)

28/04/08

R.S.I.: scomode verità e squallide menzogne

Volentieri rilanciamo:

GIOVANNI DE LUNA – PROFESSORE DI STORIA ALL’UNIVERSITA’ DI TORINO

di Filippo Giannini

Mi perdoni il Professor Giovanni De Luna se mi permetto di interferire nella sua scienza; ma, a mio modo di vedere, la storia del suo recente articolo su Il Messaggero del 25 aprile scorso non l’ha approfondita, almeno in alcuni particolari. E questo ad esser buoni.

Mi riferisco al titolo del citato articolo, che attesta: “LA STORIA HA GIA’ GIUDICATO (???) – Senza Salò non ci sarebbero state le deportazioni degli ebrei italiani”. Chiedo:che c’entra Salò che è un paesino? Forse il Professor De Luna voleva scrivere: Senza la Repubblica Sociale Italiana non ci sarebbero state ecc., ecc..

Tempo fa terminai un mio precedente lavoro con queste parole: “Anche il più sprovveduto dei miei lettori comprenderà bene i motivi per i quali quell’uomo viene ogni momento, da più di sessant’anni dalla morte (dal suo assassinio), crocifisso da questa masnada di ladroni. E se qualcuno ancora non ha preso conoscenza di ciò, allora, da buon cristiano, l’avverto: si faccia curare”.

Il professor De Luna inizia con queste parole: <Il 25 aprile non ha bisogno di rivisitazioni e di puntualizzazioni, perché la ricerca e il giudizio storico su quel periodo sono ormai consolidati (…)>.

E no, caro professore, è il solito bla…bla…bla che sa tanto di vulgata resistenziale. E ancora una volta no, perché il Suo asserto che “la storia ha già giudicato” è completamente privo di senso: infatti, quando mai la Storia GIUDICA? E ancora una volta “no” perché fra le “libertà” che vi vantate di aver “riconquistato” c’è anche quella che riguarda l’informazione. Prendo ad esempio la più potente forma dell’informazione di oggi, cioé la televisione, e la sfido, Professore, a indicarmi una sola, fra le mille e mille volte, che trattando del tema Mussolini e fascismo, si sono messe, anche una sola volta a confronto le due parti. Mai. E’ sempre stato un monologo. E’ l’attuale sistema. LA STORIA SI PERMETTE DI CONDANNARE: ma è la vostra storia, che non ha nulla a che vedere con la VERA STORIA, quella basata su documentazioni e fatti.

E veniamo agli ebrei e a Salò.

Dopo la fuga (8 settembre 1943) di Vittorio Emanuele III e dell’illegittimo Governo Badoglio (illegittimo, perché tale era), fuga nelle braccia dell’ancora nemico anglo-americano, venne lasciata ai tedeschi, in verità un po’ incacchiatelli, buona parte della Penisola. Forse il Professore sosterrebbe che sarebbe stato preferibile se i tedeschi avessero governato l’Italia con i loro metodi – tipo Polonia – anziché avere un Governo italiano?

Forse il Professor De Luna non ricorda quanto ha scritto Renzo De Felice nel suo Mussolini l’alleato, pag. 60: <Se Mussolini non avesse accettato, Hitler avrebbe fatto dell’Italia terra bruciata, come, del resto, dopo il suo tradimento essa meritava>. Avrebbe preferito questa soluzione il Professor De Luna?

E andiamo ai fatti.

Ho scritto diversi articoli sull’argomento Ebrei-Fascismo ed anche un libro, Uno schermo protettore, ma, grazie alle libertà riconquistate, sia gli uni (gli articoli) che l’altro (il libro) hanno trovato solo coraggiosi giornali, ovviamente limitati nella tiratura, ed editori con scarsa diffusione. E questo, ripeto, grazie alla riconquistata libertà.

La Storia, almeno dal mio punto di vista, diventa scienza esatta quando vengono fissati i quattro cardini di base: fatti e date da una parte, cause ed effetti dall’altra. Al di fuori non c’è Storia, ma fantasia.

Sia nei miei articoli che nel mio libro ho raccolto una massa di documenti che dimostrano come Mussolini e il Fascismo non solo non perseguitarono gli Ebrei, ma li salvarono. E questo si ripeté anche nella Repubblica Sociale Italiana (altro che “Salò”), anche se, grazie alla coraggiosa fuga dell’illegittimo Governo Badoglio, le cose si fecero un pochino più difficoltose per la presenza tedesca che divenne ingombrante proprio dopo l’8 settembre.

I documenti dimostrano - e lo ripeto – che, prima di quell’infausta data, nonostante le pressanti richieste dei tedeschi, nonostante le vigenti leggi razziali, MAI UN EBREO FU CONSEGNATO AI TEDESCHI, né quelli in Francia, né quelli in Jugoslavia o in Grecia, né, tanto meno, quelli italiani.

La storica ebrea Rosa Paini (I sentieri della speranza) attesta: <L’8 settembre ’43 segnò per l’Italia l’inizio del dramma che nessuno aveva immaginato e voluto (…). Per gli ebrei stranieri e italiani incominciava una nuova tragedia>.

E allora, quando avvenne che i tedeschi entrarono nel ghetto di Roma portandosi via un migliaio di ebrei? Egregio Professore, il 16 ottobre 1943, quando Mussolini era stato appena liberato ed il suo Governo non era, quindi, ancora in condizione di operare.

Ecco quanto ha scritto Werner Neulen: <La resistenza italiana alla ‘soluzione finale’ assunse la forma di un sabotaggio ufficioso. Si ebbero, inoltre, ripetuti tentativi di liquidare le bande fasciste che collaboravano con le SS alla caccia degli ebrei (nell’ottobre 1944 Pietro Koch, uno dei peggiori protetti di Kappler, fu arrestato e imprigionato su ordine di Mussolini>.

E veniamo al 16 ottobre 1943, quando a seguito di un Dispaccio telegrafico dal Westfalen, del 9.10.1943, n° 1645 i tedeschi (per la verità erano austriaci) entrarono nel ghetto di Roma. Le testimonianze più valide vengono da coloro che quelle tristissime esperienze le vissero. Chi incontrarono le SS nel ghetto a difendere quei disgraziati? Gli eroici partigiani? Ma quando mai! Un uomo in Camicia nera, Ferdinando Natoni che <si fece avanti verso i tedeschi con decisione e mostrando la sua divisa, li invitò con fermezza ad andarsene: cosa che fecero scusandosi per il disturbo arrecato>. Questa è una testimonianza che abbiamo raccolto ed è contenuta, con maggiori particolari, nel mio libro. Essa proviene da quanto mi hanno dichiarato due sorelle, le signore Marina e Mirella Limentani, ebree salvate, appunto dal fascista Natoni, morto a 96 anni e, come ci ha riferito la figlia, signora Anna dalle SS degli ebrei catturati nel suo edificio. Cosa che avvenne>. La signora Anna ci ha raccomandato di ricordare che il padre .

C’era anche la milizia fascista accanto alle SS nell’operazione del Ghetto? Chi lo dichiara, attesta un falso. E c’è un documento, il rapporto ufficiale inviato da Kappler a razzia conclusa a Wolff, comandante delle SS in Italia, che attesta : <In vista dell’assoluta sfiducia della polizia italiana qualora impiegata in azioni del genere, non si è ritenuto opportuno invitarla a partecipare>.

Il caso Natoni non fu davvero isolato. A parte alcuni fascisti fanatici antisemiti come Interlandi, Preziosi, Koch e pochissimi altri, i fascisti, anche nella difficilissima situazione che la defezione di Badoglio aveva creato nell’Italia del centro Nord, si prodigarono nella salvezza degli ebrei. Per motivi di spazio posso ricordarne solo alcuni: Guelfo Zamboni, console a Salonicco, Giorgio Perlasca finto diplomatico spagnolo a Budapest, Giovanni Palatucci, questore di Fiume, Guido Leto, già capo dell’Ovra e tanti altri che dimostrano che sia Mussolini che tutti i fascisti si adoperarono per fare da “Scudo protettore” degli ebrei. Il professore De Luna sa che il fascistissimo Roberto Farinacci nascose nella sua tipografia due ebrei: Emanuele Tornagli e la signora Iole Foà? Sa che Giorgio Almirante, ex Capo di Gabinetto del Ministro Mezzasoma e futuro Segretario del Msi nel periodo 1944, aprile 1945 nascose la famiglia dell’ingegner Emanuele Levi? Sa che fra le centinaia di migliaia di giovani e meno giovani che si arruolarono nelle file delle Forze Armate della Rsi, c’erano tanti ebrei? Come è stato scritto da Bruno Casalbono, sul periodico Oltre, del febbraio 1993: <Va subito detto che gli italiani, nei riguardi del popolo ebraico, non hanno alcuna colpa da farsi perdonare (…). Nella mia Compagnia, in Rsi, composta da 110 Granatieri di Sardegna, tre erano ebrei, in divisa come noi, armati come noi, che combattevano come noi e con noi>. Casalbono ricorda anche: <Gli ebrei che hanno dimenticato il bene ricevuto dalle Autorità fasciste, stanno al gioco soffiando sul fuoco acceso da chi ha molto da perdere>.

La stessa testimonianza ci è stata rilasciata da Gregorio Misciattelli, ex ufficiale della Legione ‘M’ d’assalto Tagliamento, composta dai più convinti giovani fascisti, ebbene, nella Compagnia c’erano alcuni ebrei.

Un caso davvero singolare riguarda un ebreo austriaco rifugiatosi in Italia dopo l’Anschluss, il tenente Karl Reier che chiese e ottenne la nostra cittadinanza. Allo scoppio del conflitto si arruolò nell’aviazione italiana: ra gli ufficiali del 18° Stormo non era l’unico ufficiale ebreo, anzi c’erano anche Ufficiali Superiori. Nessuno se ne preoccupava>.

Mi auguro che queste poche righe risultino sufficientemente chiare per dimostrare quanto fosse trascurata e di nessuna importanza per i fascisti la questione ebraica. Nel contempo, risulti chiaro che quegli infelici ebrei italiani – e non solo italiani – che vennero trasportati nei lager dell’Est, furono di fatto consegnati ai tedeschi dal primo Governo antifascista.

Mussolini stesso si distinse nell’opera di condanna e lo scrive uno storico israeliano, Meir Michelis (Mussolini e la questione ebraica, pag. 377): <Parlando con il professor George Zachariae, il suo consulente medico, nel febbraio 1944, Mussolini deplorò la follia razzista di Hitler: “Io non sono un antisemita e riconosco che scienziati e tecnici ebrei hanno dato al mondo alcune individualità eccezionali. Non posso approvare la maniera con cui è stato risolto in Germania il problema ebraico, perché i metodi adottati non sono conciliabili con la libera vita del mondo civile e ridondano a danno dell’onore tedesco>.

Chi scrive queste note si riconosce su quanto disse il Duce. Però, faccio un appello ai vari, tanti, troppi Professori De Luna: smettete di fare la storia su misura, così come ordinato da questa classe di disonesti e incapaci. Smettete di ingannare il popolo italiano e non solo quello italiano: Mussolini non era Hitler, il fascismo non era né nazionalsocialismo né comunismo.

Caro professor Luna, a detta di tanti studiosi non allineati, il fascismo era portatore di un nuovo Rinascimento.

Altro che male assoluto.

27/04/08

STORIA VERITA' - Una nuova speranza


IL BIMESTRALE ‘STORIA VERITA’

Che cosa è STORIA VERITA’ e quali sono gli obiettivi culturali che questa piccola ma combattiva testata vanta e persegue? STORIA VERITA’ è nata 12 anni fa per volontà dell’Editore Enzo Cipriano e di un gruppo di intellettuali per colmare un vuoto e per combattere, con gli strumenti dell’intelletto e in virtù dell’amore per la libertà di espressione, la presunta (diciamo ‘presunta’ in quanto non reale) 'egemonia culturale’ della Sinistra nel settore della storiografia, soprattutto quella riguardante l’epoca delle grandi ideologie, cioè il Novecento. Una ‘presunta egemonia’ (lo ripetiamo) che si è potuta imporre nell’immaginario collettivo del popolo italiano solo e soltanto grazie all’appoggio sistematico di soggetti politici e finanziari estremamente potenti e ben radicati nei centri di potere e nella finanza. Per decenni, la Sinistra istituzionale ha infatti lavorato con lo scopo, per altro brillantemente conseguito, di creare una sorta di conformista monopolio della storiografia e del sapere in genere, negando nel contempo dignità culturale non soltanto ai ricercatori ‘tradizionalisti’, ma a tutti coloro i quali non condividevano determinati principi. In buona sostanza – grazie anche al completo e colpevole disinteresse manifestato, anche in questi ultimi anni di bipolarismo, dai partiti di Centro-Destra – la Sinistra ha avuto buon gioco nel negare a più soggetti l’opportunità di esprimere liberamente e con cognizione di causa opinioni circa la storia intesa come genesi non del tutto casuale della specie umana. Non solo, recentemente, certa Sinistra si è presa pure il lusso di esercitare una sorta di blanda e incompleta ‘revisione’ dei fatti relativi al secolo scorso, vedi ad esempio le foibe e gli eventi del ‘triangolo rosso’ emiliano: storie e temi in realtà da decenni a noi noti, ma sconosciuti al grande pubblico, tentando di darsi un’immagine più liberale ed aperta, ma agendo in realtà con il preciso scopo di addomesticare, attraverso un’accorta, misurata, ma molto disinvolta tecnica della ‘parziale ammissione’ (cioè storicamente contingentata) di realtà spaventose che, se analizzate con più cruda e radicale onestà intellettuale e politica, avrebbero smascherato una volta per tutte l’inconsistenza scientifica e la sostanziale falsità ideologica insite nell’indagine storiografica marxista o post marxista. Detto questo riteniamo che STORIA VERITA’ possa – nel suo piccolo - contribuire a ribaltare questo criterio o prassi di indagine mistificatorio, malato, oltre che inadeguato, dando spazio alla rivisitazione obiettiva, e quindi non conformista, di eventi che hanno determinato, nel bene e nel male, quei cambiamenti epocali ai quali stiamo assistendo e dei quali, purtroppo, molti italiani non sono ancora in grado di darsi una spiegazione logica: impossibilità determinata, come si è accennato, da decenni di disinformazione. Il tutto per offrire al lettore non certo soluzioni definitive, bensì un’opportunità di scelta e soprattutto strumenti che lo possano aiutare a decrittare il presente attraverso un’onesta e corretta comprensione del passato. Il tutto, nella convinzione che il vero impegno culturale non possa limitarsi all’isolamento e all’autocompiacimento di tipo elitario, ma alla corretta e sempre più ampia divulgazione e, nel nostro caso, alla rivalutazione di un patrimonio culturale immanente, quello della Tradizione (cioè l’insieme dei miti e delle credenze ‘naturali’ basate sull’azione sui quali l’Occidente ha creato le sue fortune: anello di congiunzione tra culto del sacro e ragione) che tanto scherno, ma anche tanta paura suscita nei politici, negli storiografi e nei filosofi di Sinistra così ciecamente impegnati nella loro speculativa e spregiudicata azione pedagogica di massa, al punto da dimenticare il vero, autentico ed immutabile ‘comune sentire’ dei popoli e delle nazioni.
Alberto Rosselli
monicai@tin.it

Organigramma: Direttore responsabile, Enzo De Canio, Direttore editoriale, Alberto Rosselli. SV si avvale, tra gli altri, del contributo dei seguenti studiosi e collaboratori volontari: Carlo Gambescia, Carmelo Ferlito, Bruno Pampaloni, Roberto Roggero, Marco Picone Chiodo, Mario Bozzi Sentieri, Luca Pignataro, Francesca Niccolai, Ercolina Milanesi, Piero Grasso, Emilio Cavaterra, Massimiliano Afiero, Luigi Emilio Longo, Adriano Bolzoni, Alain Giresse, Lorenzo Utile, Antonio Grifone, Marco Cimmino, Michele Rallo, Gianni Bernabò Brea, Massimo Fini, Alain De Benoist, Giovanni Perez, Gabriele Fergola, Enzo Erra, Daniele Lembo, Enrico Petrucci, Angelo D’Andrea, Rodolfo Sideri, Bruno Gatta, Dalmazio Frau, Ansemo da Montebello, Pietro Grassi, Maurizio Cabona, Gianandrea Gaiani, Pino de Rosa, Andrea Lombardi, Mario Merlino, Mauro Franciolini, Roberto Mauriello, Paolo Deotto, Paolo Porsia, Angelo D’Andrea.

STORIA VERITA’
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21/04/08

In libreria "René Guénon, testimone della Tradizione"

Con la pubblicazione del volume René Guénon, testimone della Tradizione, lo studioso francese Jean-Pierre Laurant – che di René Guénon (1886-1951) è indubbiamente lo specialista riconosciuto a livello internazionale – porta a compimento una pluridecennale ricerca e riflessione sul soggetto delle sue indagini, di una tale ampiezza nel suo progressivo svolgimento che egli può essere considerato a giusto titolo il padre di quanti – e non sono pochi – dedicano la propria attività intellettuale a studiare quell’importante segmento della storia spirituale contemporanea che trova in Guénon un particolare epicentro.

L’esistenza e l’opera di René Guenon sono senza dubbio singolari: intellettuale cattolico è morto musulmano al Cairo nel 1951 e per tutta la vita si è contrapposto alla civilizzazione occidentale. Ritenendo che essa si sia corrotta a causa di un cattivo uso della ragione, si è battuto con forza e convinzione per un ritorno alla Tradizione originale che oggi, per esempio è ancora “viva” in altre civiltà.

Il lavoro di Laurant su Guénon non è stata un’impresa del tutto agevole, considerata la vastità dell’opus guénoniano (sia dal punto di vista del numero delle pubblicazioni, e ancor più perché l’ambito di tale opus è un ambito senza frontiere nel tempo e nello spazio che riguarda tutto, dall’antichità al mondo contemporaneo), nonché la mole di testi consacrati a Guénon da qualche decennio a questa parte. In questo senso, l’articolata disamina di Laurant costituisce un imprescindibile e puntuale stato dell’arte sulla materia che permetterà agli studiosi e appassionati di potersi ricondurre ad essa come a un’opera di riferimento.

17/04/08

Una tragedia che non ha parole


In occasione del 93° anniversario del genocidio armeno il Consiglio per la comunità armena di Roma ha promosso la Campagna di sensibilizzazione “Una tragedia che non ha parole” con la pubblicazione di un manifesto in memoria delle vittime del Metz Yeghern.
Si tratta di una campagna unica nel suo genere che prevede oltre che alla pubblicazione del manifesto su alcuni quotidiani (free press ed a pagamento) anche la trasmissione, in formato spot, sui mezzi pubblici provvisti di video.
Lo spot è in programmazione sia sul Canale Moby Tv Metro sia sul canale Columbus (per gli autobus) già dall’ 11 aprile e fino al 30 aprile, con 150 passaggi giornalieri (il palinsesto di programmazione dura circa 6 minuti).
L’iniziativa riguarda 900 autobus a Roma, la linea A della metropolitana romana e sarà esteso anche alle città di Milano (20 autobus), Siena (20 autobus), Firenze (60 autobus) e Bari (70 autobus).
Il manifesto reca la dicitura "24 aprile 2008 - 93° anniversario del genocidio armeno: un tragedia che non ha parole" stampata sullo sfondo di un primo piano di un uomo con la bocca cucita ed è un chiaro riferimento al silenzio che per lunghi anni ha caratterizzato l'immane tragedia che subì il popolo armeno agli albori del XX secolo e che la Commissione dei diritti dell'uomo dell'ONU aveva definito nel 1973 «il primo genocidio del XX secolo».
Il “Consiglio per la comunità armena di Roma”, sempre attento, vigile e sensibile alla salvaguardia della memoria del "Metz Yeghern" (Grande Male) e avverso ad ogni sorta di negazionismo, vuole con questo manifesto sensibilizzare l'opinione pubblica ed in particolare le giovani generazioni perché tragedie simili non accadano mai più e affinché la memoria di un milione e mezzo di armeni non sia calpestata in nome di bieghi interessi politici od economici. Nella prospettiva di adesione della Turchia all'Unione Europea pensiamo sia giusto, utile e indispensabile che Ankara faccia i conti con il proprio passato, così come fece la Germania con grande coraggio e onestà.
Il “Consiglio per la comunità armena di Roma” si sente vicino a tutti quegli intellettuali turchi come il Premio Nobel Pamuk, la scrittrice Shafak, lo storico Akcam e tanti altri che, a rischio della propria incolumità, sono coinvolti, da qualche tempo, in una battaglia a favore della verità scomoda che contrasta la "verità" imposta dallo Stato.

Roma 24 aprile 2008

Ore 17.30

"Una tragedia che non ha parole"

S. Messa Solenne in rito Armeno
in suffragio del milione e mezzo di martiri armeni, vittime del genocidio del 1915 perpetrato dall'allora governo turco.
Presiede
Mons. Joseph Kelekian
Rettore del Pontificio Collegio Armeno
A fine Messa Preghiera di Requiem nella piazza antistante la Chiesa Armena di fronte al
Khatc'kar
eretto in memoria delle vittime del 1915
Chiesa Armena di S. Nicola da Tolentino
Salita S. Nicola da Tolentino 17

Ore 19.30

Serata in ricordo del 24 Aprile 1915 dedicata all’Armenia ed il suo popolo
L’Associazione Culturale Sequenze
con il contributo della
FONDAZIONE ROMA

Presenta
“Pietre Urlanti”
scritto e diretto da Satenig Gugiughian
Introduce il giornalista Roberto Olla.
L’Orchestra Sinfonica di Roma, diretta dal maestro Francesco La Vecchia eseguirà l’Opera n°6 “Patetica” di Pëtr Il’ič Čajkovskij.
Auditorium Conciliazione - Via della Conciliazione, 4 - Roma

(Fonte: Alberto Rosselli)

Auguri a Sua Santità Benedetto XVI

16 aprile 2008
Papa Benedetto XVI, è nato a Marktl am Inn, diocesi di Passau (Germania), il 16 aprile del 1927 (Sabato Santo), e battezzato lo stesso giorno. Il padre, Commissario di polizia, proveniva da un’antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera, di condizioni economiche piuttosto modeste. La madre era figlia di artigiani di Rimsting, sul lago Chiem, e prima di sposarsi aveva lavorato come cuoca in vari hotels.
Trascorse l’infanzia e l’adolescenza in Traunstein, piccola località vicina alla frontiera con l’Austria, a 30 km. da Salisburgo. In questo contesto, che egli stesso ha definito “mozartiano”, ricevette la sua formazione cristiana, umana e culturale.
Non fu facile il periodo della sua giovinezza. La fede e l’educazione della famiglia lo prepararono ad affrontare la dura esperienza di quei tempi, in cui il regime nazista manteneva un clima di forte ostilità contro la Chiesa cattolica. Il giovane Joseph vide come i nazisti colpivano il parroco prima della celebrazione della Santa Messa.
Proprio in tale complessa situazione, egli ebbe a scoprire la bellezza e la verità della fede in Cristo; un ruolo fondamentale per questo svolse l’attitudine della sua famiglia, che sempre dette chiara testimonianza di bontà e di speranza, radicata nella consapevole appartenenza alla Chiesa.
Negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale fu arruolato nei servizi ausiliari antiaerei.
Dal 1946 al 1951 studiò filosofia e teologia nella Scuola superiore di filosofia e di teologia di Frisinga e nell’università di Monaco di Baviera.
Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1951.
Un anno dopo intraprese l’insegnamento nella Scuola superiore di Frisinga.
Nel 1953 divenne dottore in teologia con la tesi “Popolo e casa di Dio nella dottrina della Chiesa di Sant’Agostino”. Quattro anni dopo, sotto la direzione del noto professore di teologia fondamentale Gottlieb Söhngen, ottenne l’abilitazione all’insegnamento con una dissertazione su: “La teologia della storia di San Bonaventura”.
Dopo aver insegnato teologia dogmatica e fondamentale nella Scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga, proseguì la sua attività di docenza a Bonn, dal 1959 al 1963; a Münster, dal 1963 al 1966; e a Tubinga, dal 1966 al 1969. In quest’ultimo anno divenne cattedratico di dogmatica e storia del dogma all’Università di Ratisbona, dove ricoprì al tempo stesso l’incarico di vicepresidente dell’Università.
Dal 1962 al 1965 dette un notevole contributo al Concilio Vaticano II come “esperto”; assistette come consultore teologico del Cardinale Joseph Frings, Arcivescovo di Colonia.
Un’intensa attività scientifica lo condusse a svolgere importanti incarichi al servizio della Conferenza Episcopale Tedesca e nella Commissione Teologica Internazionale.
Nel 1972, insieme ad Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac ed altri grandi teologi, dette inizio alla rivista di teologia “Communio”.
Il 25 marzo del 1977 il Papa Paolo VI lo nominò Arcivescovo di Monaco e Frisinga e ricevette l’Ordinazione episcopale il 28 maggio. Fu il primo sacerdote diocesano, dopo 80 anni, ad assumere il governo pastorale della grande Arcidiocesi bavarese. Come motto episcopale scelse “collaboratore della verità”, ed egli stesso ne dette la spiegazione: “per un verso, mi sembrava che era questo il rapporto esistente tra il mio precedente compito di professore e la nuova missione. Anche se in modi diversi, quel che era e continuava a restare in gioco era seguire la verità, stare al suo servizio. E, d’altra parte, ho scelto questo motto perché nel mondo di oggi il tema della verità viene quasi totalmente sottaciuto; appare infatti come qualcosa di troppo grande per l’uomo, nonostante che tutto si sgretoli se manca la verità”.
Paolo VI lo creò Cardinale, con il titolo presbiterale di “Santa Maria Consolatrice al Tiburtino”, nel Concistoro del 27 giugno del medesimo anno.
Nel 1978, il Cardinale Ratzinger prese parte al Conclave, svoltosi dal 25 al 26 agosto, che elesse Giovanni Paolo I, il quale lo nominò suo Inviato Speciale al III Congresso mariologico internazionale celebratosi a Guayaquil, in Ecuador, dal 16 al 24 settembre. Nel mese di ottobre dello stesso anno prese parte al Conclave che elesse Giovanni Paolo II.
Fu relatore nella V Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1980 sul tema: “Missione della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo”, e Presidente delegato della VI Assemblea Generale Ordinaria del 1983 su “La riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa”.
Giovanni Paolo II, il 25 novembre del 1981, lo nominò Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale. Il 15 febbraio del 1982 rinunciò al governo pastorale dell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga; il 5 aprile del 1993 venne elevato dal Pontefice all’Ordine dei Vescovi, e gli fu assegnata la sede suburbicaria di Velletri - Segni.
E’ stato Presidente della Commissione per la preparazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che, dopo sei anni di lavoro (1986–1992), ha presentato al Santo Padre il nuovo Catechismo.
Giovanni Paolo II, il 6 novembre del 1998, approvò la sua elezione a Vice Decano del Collegio cardinalizio da parte dei Cardinali dell’Ordine dei Vescovi, e, il 30 novembre del 2002, quella a Decano con la contestuale assegnazione della sede suburbicaria di Ostia.
Fu Inviato Speciale del Papa alle celebrazioni per il XII centenario dell’erezione della Diocesi di Paderborn, in Germania, che ebbero luogo il 3 gennaio 1999.
Dal 13 novembre del 2000 era Accademico onorario della Pontificia Accademia delle Scienze.
Nella Curia Romana è stato membro del Consiglio della Segreteria di Stato per i Rapporti con gli Stati; delle Congregazioni per le Chiese Orientali, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei Popoli, per l’Educazione Cattolica, per il Clero e delle Cause dei Santi; dei Consigli Pontifici per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e della Cultura; del Tribunale Supremo della Segnatura Apostolica; e delle Commissioni Pontificie per l’America Latina, dell’“Ecclesia Dei”, per l’Interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico e per la Revisione del Codice di Diritto Canonico Orientale.
Tra le sue numerose pubblicazioni, occupa un posto particolare il libro: “Introduzione al Cristianesimo”, silloge di lezioni universitarie pubblicate nel 1968 sulla professione della fede apostolica; “Dogma e predicazione” (1973), antologia di saggi, omelie e riflessioni dedicate alla pastorale.
Ebbe grande eco il discorso che tenne davanti all’Accademia bavarese sul tema “Perché sono ancora nella Chiesa” nel quale, con la solita sua chiarezza, affermò: “Solo nella Chiesa è possibile essere cristiano e non ai margini della Chiesa”.
Continuò ad essere abbondante la serie delle sue pubblicazioni nel corso degli anni, costituendo un punto di riferimento per tante persone, specialmente per quanti volevano approfondire lo studio della teologia. Nel 1985 pubblicò il libro-intervista: “Rapporto sulla fede” e, nel 1996, “Il sale della terra”. Ugualmente, in occasione del suo 70° genetliaco, venne edito il libro: “Alla scuola della verità”, in cui vari autori illustrano diversi aspetti della sua personalità e della sua opera.
Numerosi sono i dottorati “honoris causa” che egli ha ricevuto: dal College of St. Thomas in St. Paul (Minnesota, USA) nel 1984; dall’Università cattolica di Lima nel 1986; dall’Università cattolica di Eichstätt nel 1987; dall’Università cattolica di Lublino nel 1988; dall’Università di Navarra (Pamplona, Spagna) nel 1998; dalla Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA) nel 1999; dalla Facoltà di teologia dell’Università di Breslavia (Polonia) nel 2000.

07/04/08

Scricchiola il paradigma degli storici sulle origini «recenti» della civiltà

L'8 ottobre del 1922 l'American Weekly, inserto del New York Sunday American, pubblicava un articolo intitolato Il mistero di una suola di scarpa pietrificata, vecchia di cinque milioni di anni. Si trattava del rinvenimento, in una località del Nevada (Stati Uniti Sud-Occidentali, nell'area del Cosiddetto Great Basin, Gran Bacino, di uno stranissimi reperto archeologico: l'impronta di una parte di suola (per la precisione, la parte posteriore, corrispondente al "tacco"), cucita in pelle, all'interno di una roccia del Triassico. Autore del sensazionale rinvenimento era stato un rispettabile ingegnerie minerario e geologo, John T. Reid.

Ora, i geologi pongono l'inizio dell'era triassica a duecentoquarantotto milioni di anni fa, e la sua fine duecentotredici milioni di anni fa: un periodo durante il quale, secondo il paradigma scientifico ufficiale, mancava ancora moltissimo tempo alla comparsa dei primi uomini sulla faccia del nostro pianeta; per non parlare di scarpe o massimi che fossero, i quali sono, evidentemente, il frutto di un livello di civiltà relativamente progredito. E allora? E allora, in questo come in molti altri casi, agli scienziati accademici non restava che una cosa da fare: dare torto ai fatti, per salvare le loro belle teorie. Ed è quanto essi fecero.

Il fatto è riportato, fra l'altro, nel libro di Michael A. Cremo e Richard L.. Thompson, Archeologia proibita. Storia segreta della razza umana (titolo originale: The Hidden History of the Human Race, 1996; traduzione italiana di Mariagrazia Oddera, Roma, Newton & Compton Editori, 2002, pp. 146-147).

Quello che gran parte delle persone comuni ignorano è che ritrovamenti del genere non sono affatto così rari, e si contano ormai a decine; ma la cosa difficilmente trapela al di fuori della letteratura specializzata, perché l'informazione scientifica è monopolizzata dai sostenitori del paradigma dominante, secondo il quale l'uomo "moderno" è apparso sulla Terra in tempi a noi relativamente vicini, non più di 100.000 anni fa; mentre le più antiche civiltà conosciute, quella mesopotamica e quella egiziana, non rimonterebbero indietro nel tempo a più di 6.000 anni fa. Tutti i fatti e tutte le speculazioni che sono in contrasto con tale paradigma, non diciamo di molti milioni di anni - come nel caso della suola di mocassino del Nevada, sopra riferito - ma anche soltanto di qualche migliaio di anni, vengono automaticamente respinti e, se possibile, censurati e insabbiati, sicché la maggior parte delle persone di media cultura non ne sono neppure a conoscenza.

Così, per fare un altro esempio, oggi è stato provato che la Sfinge della piana di Gizah, in Egitto, è stata dilavata dall'acqua; e che l'ultimo periodo in cui la valle del Nilo conobbe un clima particolarmente piovoso fu al termine dell'ultima glaciazione, fra 15.000 e 13.000 anni fa; mentre le piogge furono ancora discretamente abbondanti fra i 9.000 e i 7.000 anni fa, e non oltre. È chiaro, pertanto, che la Sfinge non poté essere costruita più tardi di tale periodo; altrimenti non potrebbe presentare segni di erosione da acqua piovana, che dovette protrarsi per migliaia di anni. Questo senza contare le prove astronomiche, che tendono anch'esse a retrodatare di parecchio, rispetto alla cronologia "ufficiale", l'intero complesso monumentale di Gizah.

D'altra parte, tutti sanno che gli antichi testi religiosi dell'India - per non parlare di quelli Maya - parlano di epoche storiche antichissime; epoche in cui l'uomo non avrebbe dovuto neppure esistere, secondo la paleontologia e l'antropologia accademiche, non avrebbe dovuto nemmeno esistere; ma in cui, secondo i testi sacri e profani dell'induismo, non solo esisteva e possedeva un alto livello di civiltà, ma sfruttava addirittura tecnologie a noi note da meno di un secolo un secolo o da pochi decenni, quali, ad esempio, il volo mediante aerei a reazione e armi sganciate dall'alto, simili alle moderne bombe atomiche.

Ma gli scienziati che, attualmente, custodiscono il paradigma del sapere "ufficiale" non sono disposti a dare alcun credito a simili racconti. Benché non abbiano, in genere, la minima competenza in fatto di sanscrito o di storia e civiltà dell'India antica, essi negano puramente e semplicemente la possibilità che siano esistite delle cose simili, perché ciò contrasta con il loro punto di vista relativamente al dogma evoluzionistico neodarwiniano. Perciò si affettano a liquidare ogni circostanza che potrebbe metterlo in dubbio, come destituita di ogni serio fondamento; e non esitano a ridicolizzare e sbeffeggiare quei rari colleghi che hanno il coraggio di allontanarsi dai sentieri noti e ufficialmente riconosciuti. Prendere sul serio uno dei numerosi reperti archeologici anomali significa giocarsi una brillante carriera universitaria; e fare un'apertura di credito agli antichi testi maya o indù significa, oltre che esporsi alla pesante ironia degli autoproclamati custodi della scienza ufficiale (che, spesso, sono dei giornalisti o dei divulgatori scientifici di modesto livello critico), non trovare una rivista specializzata o una casa editrice disposte a pubblicare i loro studi, a meno di scivolare nel vasto ma screditato arcipelago della stampa e dell'editoria grossolanamente "esoterica", ufologica e sensazionalistica.

E non parliamo del racconto platonico circa il continente scomparso di Atlantide, contenuto nei due dialoghi Timeo e Crizia. Anche se un certo numero di ricercatori hanno fatto notare delle concordanze impressionanti fra le pagine di Platone e una serie di dati emersi dalla geologia, dalla paleontologia, dalla mitologia e dalla linguistica, coloro i quali si azzardano a leggere quei due dialoghi, anche solo come ipotesi di lavoro, non in senso esclusivamente simbolico, ma anche storico, viene immediatamente sommerso da una valanga di scetticismo ed ironia. Gli studiosi di filosofia, in questo caso, sono in genere fra in più accaniti oppositori di una interpretazione storica del racconto contenuto nel Timeo e nel Crizia: come se prendere Platone alla lettera volesse dire, di per se stesso, venir meno al rispetto dovuto al grande filosofo e abbassare la vicenda da lui narrata a letteratura pseudo-scientifica alla Von Däniken, o giù di lì.

Le cose vanno avanti così, per forza d'inerzia. Le tesi alternative al paradigma dominante vengono regolarmente bloccate, censurate o messe in ridicolo; mentre una valanga di riviste divulgative e di pubblicazioni scolastiche veicola l'immagine di un evoluzionismo assolutamente provato e dimostrato, di un quadro perfettamente esaustivo capace di spiegare perfettamente, o quasi, le prime tappe dell'uomo moderno, dal tipo di Neanderthal a quello di Cro Manon, senza dubbi o incertezze se non per quanto riguarda particolari del tutto secondari.

Scrive Peter Lemesurier in Gli dei dell'alba (titolo originale Gods of the Dawn, 1997; traduzione italiana di Luca Vanni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1998, pp. 8-13):

"(…) gli storici continuano ancor oggi a far partire quest'ultima [la storia] dal quarto millennio a.C. È vero, sostengono, le tecniche di coltivazione si andavano sviluppando e diffondendo già nel 9.000 a. C. e una sorta di città sorgeva a Gerico già nell'8.000 a. C.: tuttavia soltanto nel 3.000-4.000 a. C. entrano in scena, in Medio Oriente, segni in cui possiamo riconoscere una scrittura; e senza scrittura ovviamente non c'è storia. Su quanto c'era prima di allora non ci sono che dicerie, miti, superstizioni, racconti di dubbia provenienza e ricostruzioni speculative basate su fonti non scritte; su quanto c'era prima, insomma, c'è solo preistoria, una preistoria che soltanto gli archeologi possono sperare di decifrare. Una preistoria che, in base a tale impostazione, è chiamata a coprire l'intera esistenza della Terra a eccezione degli ultimi pochi battiti dell'orologio geologico.

"Su questo punto non si insisterà mai abbastanza. Per lo storico ogni evento noto (e sottolineo 'noto') accaduto in passato si colloca all'interno degli ultimi seimila anni. Egli dà per scontato che durante i lunghi eoni che precedono quel periodo, milioni e milioni di anni, non si sia verificato alcun evento storico, nulla di registrabile, nulla di documentato.

"È un'idea sconcertante; così sconcertante che la maggior parte degli storici ignorano del tutto quanto sconcertante essa sia Solo specialisti di altre discipline, scossi dalla mostruosità di tale idea, tornano continuamente a additare un'intera serie di eventi 'storici', che spostano indietro di diversi millenni i termini ortodossi della storia.

"Ovviamente gli storica provano una certa irritazione dinanzi a queste proposte e in genere le tacciano senz'altro di eresia (circostanza che tradisce sempre e inevitabilmente la presenza di un dogma). «Chi è questa gente?», chiedono di solito. «Che ne capisce di storia?». E, quando scendono nel merito, «Dove sono le prove?».

"Da quest'ultima domanda segue che a prova data gli storici dovrebbero risolversi a cambiare atteggiamento e a sposare prospettive più ampie. Così, trascurando a bella posta i primi due interrogativi, i non specialisti hanno debitamente fornito quelle che essi ritengono autentiche prove. Ecco alcuni dei loro argomenti.

"- I Maya e gli Aztechi, che nei loro calcoli contemplavano date risalenti fino a 300 milioni di anni addietro, sostenevano che prima dell'età presente, di cui fissavano l'inizio al 3.114 a. C., il mondo aveva conosciuto altre quattro ere.

"«Superstizione di popoli primitivi»dicono gli storici.

"- Gli antichi scritti indù noti come Purana affermano che attualmente l'umanità si trova alle battute iniziali dell'ultima di quattro ere, la prima delle quali ebbe inizio circa quattro milioni di anni fa.

"«Pure speculazioni religiose» dicono gli storici

"- Il sacerdote egiziano manto, archivista di Tolomeo Sotèr e di Tolomeo Filadelfo (323-247 a. C.) affermò che la civiltà egiziana esisteva già 36.525 anni prima della fine della XXX dinastia (332 a. C.) e nella sua Storia dell'Egitto lasciò veri e propri documenti atti a provarlo. L'opera scomparve intorno al IX sec. d. C., ma in compendio (compresa qualche citazione diretta) è giunta fino a noi, in particolare negli scritti di Sesto Giulio Africano II-III secolo), Eusebio di Cesarea (IV secolo) e Giorgio Sincello (IX secolo), anche se non tutti i dati da essi riportati coincidono. Il ben più antico papiro di Torino (XIII sec. a. C.) presenta dati altrettanto sconvolgenti, mentre sembra che buona parte dei dati di Maneto sia contenuta nelle dimensioni stesse della Grande Piramide e dunque fissata per sempre nella pietra.

"«Fantasie numerologiche da sacerdote» dicono gli storici.

"- Un'autorità come Platone riferisce che il venerabile saggio, legislatore e politico ateniese Solone (638-558 a. C. circa) era stato ragguagliato dai sacerdoti egiziani del suo tempo sulla distruzione di una grande civiltà chiamata Atlantide, annientata da terremoti e diluvi circa novemila anni prima, nonché sulle altre innumerevoli catastrofi che prima di quella si erano abbattute sul genere umano.

"«Supestizione religiosa» dicono gli storici.

"- Il celebre medium e chiaroveggente statunitense Edgar Cayce (1877-1945) sosteneva che in origine la Grande Piramide egiziana di Giza fosse stata costryita sotto l'egida dei coloni di Artlantide, tra il 10.490 e il 10.390 a. C. (lettura 5.748-6).

"«Fandonie per ingenui»dicono gli storici, o più precisamente gli egittologi, che oggi ricopromno a un tempo il duplice ruolo di archeologi e di storici.

"-Un'iscrizione attribuita al faraone Khufu (Cheope) sulla Stele dell'Inventario della XXI dinastia (che ora si conserva al museo del Cairo) dice che la Grande Piramide e la Sfinge esistevano già molto tempo prima che egli salisse al trono.

"«È falsa» dicono gli egittologi.

"Nessuno però ci spiega perché mai quella che evidentemente è la copia di un'iscrizione antecedente debba essere ritenuta un falso. Con lo stesso criterio tutti gli scritti dell'antichità, di nessuno dei quali esiste l'originale manoscritto, dovrebbero essere rigettati in quanto 'contraffazioni'.

"Il fatto che gli storici non tengano in considerazione un medium come Edgar Cayce è del tutto comprensibile, data la razionalità che essi amano ostentare. Per ragioni consimili è anche comprensibile il loro manifesto disprezzo per la parola di chi è 'solo' un sacerdote. Ma il fatto che essi non tengano conto di iscrizioni epigrafiche autentiche, per non dire della testimonianza fornita dagli scritti dei più eminenti storiografi e dotti del mondo antico (molti dei quali, si dà il caso, erano sacerdoti), è molto più preoccupante. Gli ingegnosi astronomi e matematici maya, il grande Platone e il grande Solone, l'archivista egiziano Maneto, tutti costoro sarebbero sciocchi creduloni da gettare nella medesima ignominiosa pattumiera.

"Cosa ben strana, visto che per la parte successiva all'inizio del periodo dinastico (3.100 a. C.) la cronologia di Maneto è accolta dagli storici e dagli egittologi e costituisce il fondamento stesso della loro comprensione della storia egiziana. Per quanto si cerchi di non attribuire loro secondi fini, si ha tuttavia l'impressione che essi non vogliano accettare il resto della medesima testimonianza…

"Tutto ciò ricorda piuttosto da vicino il poco dignitoso imbarazzo dei cosmologi fedeli al dogma di moda del 'big bang' e dell'universo in espansione, di fronte al continuo emergere di prove che gettano dubbi sulla loro diletta teoria. Critici come gi eminenti astronomi Halton Arp e Viktor Amazaspovich Ambartsumian sono ostracizzati, messi al bando, anatemizzati, mentre vengono continuamente elaborate teorie sussidiarie sempre più complesse volte a puntellare il dogma custodito e a neutralizzare le nuove prove: così l'intero edificio minaccia di crollare sotto il suo stesso peso. Qualcosa di molto simile ai castelli speculativi con cui nel medioevo si cercava di stabilire quanti angeli potessero danzare sulla capocchia di uno spillo, salvo che la speculazione medievale era un po' più scientifica: in fondo tutti avevano visto degli spilli, e qualcuno sosteneva persino di avere visto anche gli angeli…

"Ma forse tutto ciò non è poi tanto sorprendente. Gli esperti sono diventati tali solo dopo essere riusciti a rigettare il sapere acquisito. Devono la loro posizione al finanziamento pubblico che ottengono soltanto sulla base della loro comprovata perizia nelle relative aree di pertinenza. Forse sono le persone meno adatte a cui rivolgersi se si è in cerca di nuove prospettive.

"In fondo Darwin era un teologo. Einstein era un impiegato dell'ufficio brevetti di Berna quando propose la sua 'teoria speciale' della relatività. Alfred Wegener, l'uomo che formulò la teoria della deriva dei continenti, non era un geologo, ma un meteorologo.

"E così gli storici, e con loro la storia stessa, rimangono aggrappati alla struttura della cronologia postbiblica elaborata temporibus illis da Giuseppe Giusto Scaligero (1540-1609), celebre figlio dell'uomo che fu mentore di Nostradamus ad Agen. E verosimilmente essi continueranno a rimanervici fino a quando non emergeranno prove più schiaccianti, tali da costringere infine i loro orizzonti a espandersi..

"Ma questo, piuttosto sorprendentemente, è proprio quello che sembra si stia verificando ora…"

Comunque, se vogliamo dirla tutta, una delle ragioni - e non fra le meno importanti - per le quali il mondo scientifico "ufficiale" si mostra così chiuso ed ostile nei confronti di tutte quelle ricerche che tendono a suggerire la necessità di una significativa retrodatazione della genesi delle 'prime' civiltà, nonché di una lettura non solo simbolica del racconto di Platone su Atlantide, è il fatto che questo, da circa un secolo, sembra essere divenuto il terreno prediletto di gruppi esoterici più o meno orientaleggianti, più o meno bizzarri, per non dire spiritistici: gruppi il cui solo nome fa rabbrividire gli scienziati e che essi considerano come tipici rappresentanti della ciarlataneria occultistica e pseudo-religiosa.

Senza timore di esagerare, si potrebbe affermare che se personaggi come Madame Blavatsky e i suoi seguaci della Società Teosofica (fondata nel 1875) non avessero parlato di antiche civiltà pre-diluviane, di una serie di razze che si sarebbero succedute sulla faccia del pianeta, nonché dello splendore e della successiva distruzione di Atlantide, forse la prevenzione degli ambienti scientifici ufficiali in proposito sarebbe meno rigida e implacabile, e almeno alcune di tali questioni verrebbero prese in considerazione con un minimo di apertura e di rispetto.

Ma l'idea, per un archeologo o uno storico di formazione neopositivista (come lo sono, oggi, quasi tutti gli esponenti del paradigma scientifico dominante) di dover prendere seriamente in considerazione, e sia pure come base ipotetica e bisognosa di verifiche e approfondimenti, testi come le famigerate Stanze di Dzyan, il libro 'maledetto' di cui parla la Blavatsky attribuendogli assoluta e incondizionata fiducia, è, per costoro, qualche cosa di decisamente superiore alle loro forze.

Noi non staremo a discutere di questo loro pregiudizio, né entreremo nel merito delle vaporose speculazioni dei teosofi e delle dubbie fonti di informazione di Helena Petrovna Blavatsy. Ci limiteremo ad osservare che lo stile involuto e barocco di costei, insieme al dichiarato substrato religioso, mistico ed esoterico della sua vastissima, ma confusa e, a volte, decisamente fantasiosa opera, certamente non hanno giocato a favore di una seria presa in considerazione delle sue teorie da parte degli ambienti storici e scientifici "ufficiali".

E tuttavia, possiamo tollerare che uno stile ridondante e un po' troppo colorito e una evidente mancanza di rigore nella indicazione delle fonti (per non dire altro), siano argomenti sufficienti per ignorare e gettare nel cestino della carta straccia tutto quello che ha scritto e insegnato la Blavatsky a proposito delle passate civiltà succedutesi sulla Terra, prima di quest'ultima, alla quale noi stessi apparteniamo? Non rischieremmo di comportarci, così facendo, come quella levatrice che, nel gettare via l'acqua sporca, eliminasse anche il neonato?

Una cosa è certa: senza per questo cadere nella credulità, il vero storico dovrebbe sgomberare del tutto la propria mente da pregiudizi di qualsiasi sorta, e concentrarsi nell'esaminare unicamente i fatti e le ipotesi, da qualunque parte essi provengano e per quanto possano sconcertare le sue certezze consolidate.

Solo così sarà in grado di avvicinarsi, e sia pure faticosamente, a quella agognata verità che costituisce l'oggetto delle sue ricerche, e la ragione di esistere della scienza di cui egli vuole essere un obiettivo e disinteressato cultore.

(Autore: Francesco Lamendola - 05/04/2008; Fonte: Arianna Editrice)



04/04/08

Come un certo Solov'ëv approdò in Occidente

Il dissenso, l'opposizione «a misura d'uomo» contro il gigante totalitario ha creato una struttura sui generissamizdat, cioè la circolazione clandestina di manoscritti, appelli e documenti riprodotti per lo più a macchina per iniziativa dei lettori stessi. La si considerava una forma essenziale di esistenza e di comunicazione, totalmente autonoma che comportava creatività, senso di responsabilità, disponibilità al rischio personale.
Nell'immenso fiume sotterraneo del samizdat a un certo punto si è inserito un altro fiume sotterraneo, quello del tamizdat, che rispondeva alle stesse esigenze, ma veniva dall'estero. Infatti la parola tamizdat significava i testi — questa volta veri e propri libri — pubblicati tam, cioè «di là», oltre frontiera. A partire da un certo momento storico questo secondo fiume ha assunto un'importanza notevole nel moltiplicare la possibilità di rendere accessibile a tutti, in tutti gli angoli dell'Unione Sovietica, la cultura indipendente del dissenso.
Tra i primi che in Occidente hanno incominciato a stampare testi in russo per introdurli e farli circolare clandestinamente in Urss c'è una piccola casa editrice cattolica, «La vie avec Dieu» che, con mezzi modesti e un gruppo ristretto di attivisti, ha saputo sviluppare un'opera di importanza enorme e, proprio per queste sue caratteristiche, manifesta una consonanza profonda con i valori e lo stile del dissenso, col quale ha collaborato attivamente.
La nascita della prima casa editrice cattolica per i russi è legata all'ondata di profughi russi rimasti in Occidente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nel 1945 infatti migliaia di prigionieri di guerra sovietici e di ostarbeiter — uomini e donne rastrellati dai nazisti nei territori occupati e mandati a lavorare per il Reich — temono giustamente, al ritorno in patria, di essere condannati per tradimento e collaborazionismo. Verranno chiamati DP, Displaced Persons; e si faranno dei campi speciali per essi in Germania, Francia, Italia e Belgio. Di questa emergenza si occupano numerose istituzioni benefiche, ma anche alcune persone singole che si sentono investite di una particolare responsabilità.
Una di queste è Irina Posnova (1914-1997), un'emigrata russa della «prima ondata», donna dall'animo ardente che compirà un'enorme mole di lavoro per i russi, spinta da una grande fede e una costante ascesi. Figlia di un biblista e storico della Chiesa ortodossa, docente all'Accademia teologica di Kiev, conosce l'emigrazione già a dieci anni, quando nel 1924 si rifugia a Sofia con la famiglia. Lì conosce un vescovo cattolico di grande fascino, un vero uomo di Dio, Kirill Kurtiv; di qui scaturisce la sua conversione al cattolicesimo, che darà un impulso molto importante a tutta la sua attività.
Il nunzio Angelo Roncalli le dà una lettera di raccomandazione per l'Università cattolica di Lovanio, in Belgio, dove Irina nel 1944 si laurea in filologia classica. Dopo il dottorato, invece di fermarsi in università come le propongono, decide di dedicarsi ai profughi russi, che in Belgio sono circa diecimila: «Decisi che avevo ricevuto talmente tanto in confronto agli altri, che era cosa più santa mettersi a fare che continuare a ricevere». L'incontro coi DP per lei è il primo sconvolgente approccio col «popolo sovietico», assolutamente digiuno di religione, per questo concepisce l'aiuto come sostegno spirituale e formazione religiosa. Si apre un nuovo campo vasto e inesplorato di missione.
Per offrire a questa gente degli strumenti culturali e formativi semplici, la Posnova fonda nel 1945 il «Comitato belga di documentazione religiosa sull'Oriente» — che più tardi si chiamerà Foyer Oriental Chrétien — e stampa, a sue spese, dei volantini in russo con testi spirituali. Incoraggiata dal successo di questi foglietti, va a Roma a chiedere consiglio; il cardinal Tisserant, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, l'incoraggia a pubblicare una rivista per i profughi: è l'atto di nascita de «La vie avec Dieu», che sarà l'opera principale della sua vita.
Quando decide di mettersi più in grande, trova un ottimo collaboratore in un sacerdote ortodosso emigrato, padre Valent Romenskij, che ha una parrocchia a Liegi. Insieme nel 1946 incominciano a stampare un'unica rivista con due testate, una per gli ortodossi — «La vita cristiana» — e l'altra per i cattolici «La vita con Dio». Anche padre Romenskij ricorderà questa collaborazione come «unica al mondo», come un «fenomeno storico per le nostre Chiese».
Un altro punto centrale di interesse nella vita della Posnova è il movimento cosiddetto dei «cattolici russi», cioè il tentativo di conservare la tradizione bizantina rimanendo fedeli alla cattedra di Roma, tentativo che storicamente si rifà all'esperienza iniziata in Russia nei primi anni del Novecento da Leonid Fëdorov, e che ha in Vladimir Solov'ëv il proprio padre spirituale. Per la Posnova la conversione non significa rigettare l'ortodossia per qualcosa di «meglio», ma esprime il bruciante desiderio di ricondurre all'unità, nel riconoscimento della cattedra di Pietro, Oriente e Occidente.
Scrive nei primi anni Cinquanta: «La mia adesione alla Chiesa cattolica è avvenuta quando ho scoperto nel cattolicesimo l'ortodossia autentica». Questa convinzione comporta, da una parte l'amore mai rinnegato per la migliore tradizione spirituale russa, che sente di dover salvare e diffondere e, dall'altra, la costante tensione a far sì che gli ortodossi incontrino la ricchezza della Chiesa cattolica.
Questo ideale è molto vivo in questi anni, ed è attivamente propagandato da alcuni ortodossi convertiti al cattolicesimo — come la stessa Posnova. A Roma il Collegio pontificio Russicum è il luogo dove si preparano i sacerdoti per questo apostolato, e dove si elabora l'approccio missionario al mondo russo.
Questo desiderio di diffondere il movimento tra i russi emigrati, indirizza l'attività editoriale della Posnova su un duplice binario: la valorizzazione della tradizione orientale, e l'illustrazione del cattolicesimo con finalità «apologetiche». L'autore di punta dei primi anni (dal 1949 al 1955) è Michail Gavrilov (1893-1954), un storico e filologo di San Pietroburgo emigrato a Parigi, convertitosi al cattolicesimo nel 1944, che in cinque anni scriverà nove libri; i suoi temi sono spesso «spiccatamente cattolici»: le apparizioni di Fatima, la storia e la dottrina di san Leone Magno, il Vaticano, la Sindone. Tutto questo fa sì che «La vie avec Dieu» si presenti nei primi anni come una piccola editrice di nicchia, strumento di un'attività di apostolato con finalità missionarie ed ecumeniche.
Vista da un punto di vista esterno la sua produzione è di interesse limitato, forse anche un po' provinciale.
Tuttavia, col procedere degli anni Cinquanta Irina Posnova deve prendere atto della crisi definitiva del movimento dei «cattolici russi», che si assomma al venir meno del suo pubblico tradizionale di lettori — i DP ormai si sono naturalizzati in Occidente. Sembra un vicolo cieco, che richiede un cambiamento.
Intanto nel 1955 la Congregazione designa padre Antonij Ilc (1923-1998), un prete sloveno che ha studiato al Russicum, come parroco della chiesa russa annessa e come collaboratore. Resterà per tutta la vita il braccio destro di Irina Posnova. Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, interrogati dalla crisi, Ilc e la Posnova decidono comunque di continuare perché, si dicono, quando un giorno il comunismo finirà inevitabilmente, «questi libri all'inizio risponderanno alla fame spirituale, in attesa che la stessa Chiesa ortodossa incominci a pubblicare da sé».
Ma la svolta decisiva avviene in seguito a un fatto apparentemente banale, che mette all'improvviso davanti ai nostri editori una possibilità nuova che sconvolge la concezione stessa della loro attività: è possibile far arrivare i libri in Urss. Siamo nel 1958, a Bruxelles si tiene l'Esposizione universale. Lo stand del Vaticano si trova a fianco di quello sovietico, e Irina Posnova pensa che l'occasione non vada persa; riesce a farsi assegnare un angolo dello stand per mettere in mostra la produzione editoriale russa: tutti i turisti sovietici potranno ricevere gratuitamente un Vangelo o un libro di preghiere. Irina racconta che: «I primi giorni non veniva nessuno, però guardavano di sottecchi. Poi hanno incominciato a passare dall'entrata secondaria a uno o due per volta. Chiedevano se potevano dare un'occhiata. A un certo punto arriva un tipo, da solo, io mi faccio coraggio e gli chiedo se non vorrebbe prendere un Vangelo per sua nonna. E quello mi dice: «volentieri». Così da quel momento abbiamo incominciato a offrire: «per la mamma», «per la nonna» quando qualcuno si avvicinava da solo». In totale, sembra che dallo stand passino oltre diecimila visitatori sovietici, e che più di tremila accettino un dono, nonostante il controllo degli accompagnatori.
Questo incontro provoca una riflessione: se l'uomo sovietico ha questa sete spirituale, che magari è anche semplice curiosità, abbiamo l'obbligo di rispondere in modo adeguato, e soprattutto nuovo. Per quelli di Bruxelles non si tratta più di fare un lavoro marginale per tirare dalla propria parte qualche ortodosso, hanno scoperto che c'è in gioco una posta infinitamente più alta, il futuro del cristianesimo in Unione Sovietica, la vita stessa dell'uomo. Lavorare direttamente per l'Unione Sovietica diventa la nuova parola d'ordine, e l'episodio dell'Esposizione universale dimostra che non solo è possibile, ma necessario. È un compito inderogabile, un nuovo obiettivo.
«La vie avec Dieu» si sgancia dai suoi tradizionali interessi confessionali per aprirsi a un compito che non è più di parte, il nuovo orizzonte ecumenico supera in grandezza tutti i sogni passati di missione tra gli ortodossi. In realtà, così facendo l'editrice non tradisce l'intuizione iniziale, ma anzi le darà corpo in modo più concreto, servendo le necessità della Russia reale e della rinascita cristiana in atto.
Tutto questo si traduce in scelte concrete. Così dagli anni Sessanta la produzione editoriale rinuncia ai tradizionali toni polemici nei confronti dell'ortodossia, e si orienta verso testi che siano ugualmente accettabili per gli ortodossi e per i cattolici. Pur senza mai nascondere di essere cattolici, i responsabili cercano con tutto il cuore di rispondere ai bisogni spirituali degli ortodossi. Vengono messi in programma libri di grande respiro, come le opere complete di alcuni «giganti»: Vladimir Solov'ëv (1966), Vjaceslav Ivanov (1971), Sant'Agostino (1974); ed altre opere importanti come i Fioretti di san Francesco d'Assisi(1974), Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger (1988).
A questo punto si verifica l'apertura coraggiosa al mondo sovietico che comporta anche un certo rischio: infatti affidarsi ad autori o consulenti sconosciuti, che vivono oltrecortina, coi quali non si può avere un contatto diretto e del cui valore non si è ancora certi, non è cosa facile. Ad esempio padre Aleksandr Men' — di cui «La vita con Dio» sarà l'unico editore fino alla caduta del comunismo — entra in contatto con loro nel 1966 quando non è il celebre pastore ma un ignoto pretino di trentuno anni. Questa fiducia, però, è la premessa di un grande successo, su questa base avviene l'incontro e la collaborazione con il dissenso che vive in Unione Sovietica.
Il processo per così dire di «sovietizzazione» inizia negli anni Sessanta e si conclude alla fine degli anni Settanta. Queste forze nuove che vengono dall'Unione Sovietica conoscono meglio il pubblico sovietico che non la redazione di Bruxelles. La conferma che il lavoro incomincia a funzionare viene direttamente dall'Urss, ed è una conferma entusiasmante: nel 1959 esce da Bruxelles il libro di Fernand Lelotte, La soluzione del problema della vita, che sia un grande successo in Urss — il primo per l'editrice — è confermato da diversi giornali sovietici; nel 1964 in Urss esce addirittura un intero libro — in centomila copie — contro i gesuiti e il libro di Lelotte «che salta fuori dappertutto».
Ad un certo punto gli editori di Bruxelles si rendono conto che anche il modo di lavorare dev'essere all'altezza del compito. Il lavoro culturale dev'essere accurato, professionale, deve tendere all'eccellenza per dimostrare che la fede e la forza della ragione sono tutt'uno. Questo d'ora in poi sarà il tratto distintivo de «La vie avec Dieu».
Uno dei gioielli più riconosciuti, un'opera che ha fatto letteralmente epoca è l'edizione critica della Bibbia, coronamento di un lunghissimo lavoro, a cui mettono mano diversi esperti. Uno di questi è un pastore battista, Aleksej Vasil'ev (1909-1978), un emigrato russo, esperto biblista. Lavora al commento per sette anni, ma per gli aspetti più specificamente teologici o storici intervengono altri studiosi. È un'edizione scientifica ad altissimo livello, che unisce, oltre al testo della Costituzione dogmatica del Vaticano II sulla rivelazione divina, una serie di apparati di notevole valore. Questo volume rilegato, su carta di riso, uscito nel 1973 — e rieditato quattro volte, l'ultima nel 1989 in cinquantamila copie — ha rappresentato per migliaia di cittadini sovietici un vero e proprio «incontro» col mondo delle Sacre Scritture; un incontro interessante sia dal punto di vista intellettuale che spirituale. Ricorda padre Cistjakov: «la «Bibbia di Bruxelles» in pratica era l'unica edizione moderna del Nuovo e dell'Antico Testamento dotata di un commento serio e di un apparato». Per il lettore sovietico è la scoperta di un universo culturale di assoluto valore: la «Bibbia di Bruxelles», come viene chiamata, diventa qualcosa di proverbiale, un regalo ambito, una lettura interessante per qualsiasi persona di cultura e non solo per i devoti.
Ma bisogna ricordare almeno un altro autore la cui circolazione è merito esclusivo de «La vie avec Dieu»: il filosofo Vladimir Solov'ëv, un vero pilastro della filosofia cristiana del diciannovesimo secolo, la cui opera è confinata nelle biblioteche e chiusa sotto chiave. Il grande merito della Posnova è quello di ripubblicare tutta l'opera uscita in Russia prima della rivoluzione, arricchita di tutto ciò che a questa mancava: le opere ecumeniche in francese, le poesie, le lettere. Sono dodici volumi doppi più un tredicesimo di lettere, una ricchezza straordinaria che torna a circolare e a seminare i suoi frutti nella cultura del dissenso solo grazie al tamizdat.
Un «caso editoriale» che farà scalpore e darà grande lustro alla casa editrice riguarda la scoperta e la pubblicazione di un testo importantissimo, chiuso nei fondi segreti di un archivio, e di cui nessuno sapeva neppure l'esistenza.
Il testo è la biografia più completa del filosofo Vladimir Solov'ëv scritta dal nipote Sergej che lo ha conosciuto ed ha avuto accesso a tutti i documenti di famiglia. Lo scopritore di questo tesoro è un giovane laureando in storia, Michail Aksënov-Meerson, già espulso due volte dall'università per le sue attività clandestine — è un attivo riproduttore di samizdat. Mentre prepara la tesi di dottorato l'amico Evgenij Raskovskij — la cui moglie lavora all'archivio centrale di letteratura — gli rivela la presenza di materiali preziosi su Solov'ëv nei fondi speciali. È il 1968.
Meerson ottiene dal suo professore il lasciapassare per i fondi speciali, dove trova la biografia di Sergej Solov'ëv. Per sei mesi, ad ogni intervallo di pranzo, porterà fuori dall'archivio una pagina per fotografarla, nascondendola con difficoltà sotto la camicia perché il testo è scritto su fogli molto grandi e rigidi. Quando poi emigra in Occidente, nel 1972, offre i microfilm alla Posnova. Il libro di Sergej Solov'ëv uscirà nel 1977 senza indicazioni sulla provenienza; nell'introduzione l'editore si limita a dire enigmaticamente: «Per cinquant'anni del manoscritto non si è saputo nulla. Ma la Provvidenza lo ha preservato. Ed ecco che dopo mezzo secolo abbiamo avuto la possibilità di pubblicarlo».
Tutto questo lavoro di ricerca, traduzione, pubblicazione e distribuzione avviene con mezzi ristretti. I mille dollari l'anno forniti dalla Congregazione per le Chiesa Orientali non aumentano mai. Padre Ilc ricorda: «Quando ero andato dal cardinale [Tisserant] mi aveva detto: “padre Antonij tutto quel che vuole, ma soldi non ne ho”. (...)i vescovi belgi mi davano lo stipendio da prete(...) Invece ci ha aiutato molto padre Van Straaten(...) soprattutto dal 1962, quando abbiamo cominciato a preparare il Vangelo».
La preoccupazione costante di Ilc e della Posnova è trovare i finanziamenti per ogni singolo libro poiché senza finanziamenti nessun libro può uscire, dato che le tirature sono distribuite gratis. Impossibile poi sapere quante centinaia di migliaia di libri siano effettivamente arrivate in Urss, tenendo conto della distribuzione clandestina — affidata un po' a caso a turisti, amici, conoscenti nei vari corpi diplomatici, vescovi russi in visita ufficiale o attivisti dei vari «centri russi» in Europa.
Questo aspetto del lavoro di «La vie avec Dieu» è a tutt'oggi il più misterioso. Per il sacro timore di danneggiare qualcuno con l'incauta rivelazione della sua collaborazione, gli archivi dell'editrice sono largamente lacunosi, non esiste neppure l'elenco completo — con le tirature — di tutti i libri pubblicati. Sicuramente si può dire che in questo disordine, e mancanza di memoria, si esprime anche il fatto che l'attenzione degli editori fosse tutta tesa al risultato, all'opera e non considerò mai importante il proprio lavoro.
Possiamo dire in generale che le edizioni del tamizdat hanno avuto un ruolo decisivo nel creare una stabile cultura alternativa, come ha ricordato padre Cistjakov: «(...)vent'anni fa, a parte i libri pubblicati a Bruxelles e a Parigi, non c'era nient'altro».
chiamata
Irina Posnova e i suoi amici sono stati definiti degli «entusiasti», ma questo è troppo poco per spiegare una dedizione durata cinquantadue anni a prescindere da interessi politici, proselitistici o economici. Quest'opera incarna piuttosto lo stesso impegno, le stesse identiche qualità umane e spirituali che hanno fatto il dissenso: passione per una verità più grande della tua, rispetto profondo dell'altro, gusto del bello, amore per la cultura, senso di responsabilità di fronte al mondo, iniziativa e rischio personali. Tutto questo ha assicurato un successo formidabile a una piccola «impresa» che, umanamente parlando, aveva pochi numeri per sfondare, così come in Unione Sovietica altre formiche avevano affrontato il colosso totalitario senza garanzie di riuscita, eppure avevano fatto cose enormi.


(Autore: Mara Quadri; fonte:
L'Osservatore Romano 17-18 marzo 2008)

01/04/08

America latina, il Vangelo prima di Colombo?

L’«Osservatore Romano» rilancia l’idea che il Vangelo sia giunto agli indios prima dello sbarco dei «conquistadores».
«Bartolomeo de Las Casas – ricorda il giornale – registrò notizie sulla presenza di croci in Yucatan e di culti trinitari in Chiapas, nonché sulle orme di san Tommaso in Brasile, lamentando la mancanza di testimonianze dirette sull’evangelizzazione previa, che avrebbe costituito un argomento a favore della sua tesi della naturale religiosità indigena. In Brasile, il gesuita Manuel de Nobrega nel 1549 raccolse testimonianze dal Paraguay. Anche in Perù i racconti indigeni riferivano di un predicatore presso il lago Titicaca». Secondo lo storico Luigi Guarnieri Calò Carducci, «le testimonianze tracciavano così un possibile itinerario pastorale in tempi preispanici di un apostolo attraverso il continente: Viracocha, questo il suo nome, era descritto come un uomo alto, vestito di bianco e con un libro in mano».

Addendum

Viracocha (o Con Tiqui Viracocha) era una delle principali divinità inca. Era considerato come lo Splendore Originario o Il signore, il Maestro del Mondo. In realtà era la prima divinità degli antichi Tiwanaku, popolazione proveniente dal Lago Titicaca. Si narra che fosse sorto dalle acque e che avesse creato il cielo e la terra. Secondo un mito, Viracocha non solo avrebbe creato gli umani, ma li avrebbe anche distrutti per poi ricrearli dalla roccia e gettarli ai quattro angoli del mondo. Dopo aver insegnato agli uomini a sopravvivere, avrebbe preso il mantello, ne avrebbe fatto una barca e avrebbe salpato l'Oceano Pacifico. Il culto rivolto al dio creatore supponeva concetti astratti e intellettuali, per questo era destinato solo alla nobiltà. Viracocha, come altri dei, era un dio nomade ed aveva un compagno alato, l'uccello Inti, una specie di pennuto magico, conoscitore del presente e del futuro. Come viene descritto in alcuni resoconti dati ai primi conquistadores spagnoli, Viracocha aveva la pelle chiara e gli occhi azzurri, era alto di statura e aveva capigliatura e barba bionde o bianche, indossava una lunga tunica bianca con una cintura in vita.