02/02/08

Vico: Metafisica e metodo

In un volume intitolato "Metafisica e metodo" (Bompiani, 2008) tornano due opere giovanili con molti temi che resteranno centrali fino alla "Scienza Nuova"
Un grandioso sforzo di ripensamento del senso dell´Umanesimo
Un sapere che procede per tracce e ricorre alla forza dell´intuizione e dell´immaginazione.
In un grandioso sforzo di ripensamento teoretico del senso dell´Umanesimo, Vico coglie l´accordo con la filologia come dimensione essenziale della filosofia stessa. La boria dei dotti si esprime con maggiore evidenza forse proprio nella pretesa di intendere la parola come semplice mezzo per comunicare il pensiero, strumento a sua disposizione. Ma non si dà pensiero che non sia pensato dalle sue stesse parole. Un pensiero che non riflette su tale "presupposto" non solo sarà un pensiero "sordo alla storia, ai sensi, alla vita sociale" (Gentile), ma neppure sarà in sé teoreticamente fondato. Già il dire "cogito" significa appartenere ad un linguaggio, ad una tradizione, indicare una provenienza, ek-sistere. Ed un "cogito" che non abbia coscienza di ciò non potrà mai fondare una scienza.
Nessuna scienza senza coscienza della propria origine; nessun logos che non sia fenomenologia: storia della sua "materia" e, in uno, sapere che mostra le forme della sua genesi e del suo apparire (la Krisis delle scienze europee non maturerà, per Husserl, proprio su questo stesso terreno? e cioè dall´oblio della co-scienza di sè da parte del progetto scientifico?). Autentica genealogia. Prima dei filosofi le leggi, prima delle leggi la lingua, prima della lingua la non-lingua. Prima del "sum" che risuona "vittorioso" nell´"io sono-io penso", il sum "astrattissimo", è il "sum" che dice il mangiare, che indica l´alimento che ci sostiene, la "sostanza" che sta sotto, «ne´ talloni, perocché sulle piante de´ piedi l´uomo sussiste; ond´Achille…». Lì, «ne´ talloni», occorrerà perciò pervenire, se non si vuole pensare l´"essere" senza alcun fondamento, se non si vuole fare della filosofia esattamente il contrario di ciò che deve essere: ritorno alla cosa, comprensione dell´effettuale oltre la doxa, l´opinio, il parlare in-cosciente. Il pensare si costituisce così come pensiero dell´origine e la filologia non ne esprime che l´intrinseca, rammemorante dimensione.
Ma il cerchio è lungi, a questo punto, dal chiudersi "virtuosamente"; proprio qui, anzi, viene alla luce tutta la drammatica della "nuova scienza". L´ordine delle idee procedente secondo l´ordine delle cose non giunge ad un fondamento. Il "discendere" alla coscienza dell´origine, che tanta pena comporta, non mette capo a una solida terra su cui poggiare quei nostri "talloni", ma propriamente all´opposto: a un "luogo" appena intendibile e nient´affatto immaginabile. Al toglimento di ogni fondamento. L´etymon, la radice ultima e vera delle parole, che è oggetto di una "etimologia filosofica" o di una «filologia nata in Platonia» (Warburg), sprofonda oltre ogni filologicamente-filosoficamente accertabile. Si apre un abisso della e nella parola che proprio le "nozze di filologia e filosofia" rivelano: ogni origine "certa" si affaccia all´incertissimo che ne è arché, ogni elemento noto contiene in sé costitutivamente l´ignoto, ogni dimensione definita l´ancora definiendum. Ecco, abbiamo raggiunto coscienza del significato latino di questo termine; ma quale ne è l´etymon? quale l´origine? Di nuovo, il "descensus" di Vico, a differenza di quello di Enea, non ha termine. E perciò "revocare gradus" gli sarà tanto più penoso. Entrambi, nell´itinerario, compiono straordinarie esperienze, scoprono volti e luoghi; non c´è spazio per accidiose disperazioni; ma l´antico giunge tuttavia "alle madri", mentre il nuovo, il "moderno" alla domanda, la stessa di Goethe: giù, via da ciò che appare ben definito e formato, giù al gioco eterno della metamorfosi - «ma la madre, dove è?». La parola ci inghiotte al suono, al corpo, alle immagini primordiali del suo agire (...), così come l´immagine della milizia rinviava a ferocia, mercatura a avarizia, l´eleganza del cortigiano a ambizione, la monarchia alla barbarie eroica. (...)
Piena coerenza dell´analogia: come l´uomo fa la sua storia senza tuttavia mai poter sapere gli effetti del suo agire, così egli pensa e dice senza mai poter giungere a perfetta co-scienza del "fondo" del suo dire, proprio perché cosciente che tale "fondo" non è linguaggio. L´inopia magna del nostro pre-vedere è l´altra faccia del limite costitutivo della nostra memoria - che perviene al suo ultimo soltanto quando ricorda l´immemorabile. E sulla soglia dell´immemorabile non stanno gli Zoroastri e gli Orfei, ma «ci rimangono i bestioni» nessun paradiso o età dell´oro, nessun mito edenico; provvida sventura la cacciata da Eden, ma non perché, come per Hegel o Schelling, da quel "momento" abbia inizio la disvelatrice marcia trionfale dello Spirito; solo il corso della storia umana, provvidenzialmente e non progressisticamente, come vedremo, ordinato genera la perdita di ogni paradiso in terra. La filosofia che si ostina a meditare soltanto «sulla natura umana incivilita» si ritrae atterrita dal thauma, dallo spettacolo meraviglioso-tremendo, della natura umana dalla quale provengono religioni e leggi, ma perché quella natura non sembra dotata di logos - e non è per la filosofia l´uomo quel vivente caratterizzato proprio dall´"arma" del logos? In questa natura, in questa physis, il nascimento più sorgivo, getta invece lo sguardo con cosciente ardimento la "scienza nuova", "armata" dei suoi assiomi e delle tradizioni «lacere e sparte» che la filologia permette di accertare.
Il viaggio nella memoria fino al suo stesso fondo-non-fonda va fatto valere, dunque, come co-scienza della modernità. Nessun culto antiquario dell´Antico, nessuna sedentaria erudizione, e così critica radicale della pretesa auto-referenzialità dell´Io penso, fondamento del moderno sapere. Ma scienza, comunque, avrà da essere, e ciò comporta comprensione e comunicazione della materia che essa raccoglie. Qui la nuova aporia: come potremo conoscere ciò che ci appare così essenzialmente diverso? come potremo comprendere ciò che "i bestioni" avvertono? partecipare a quella, per dirla con Hegel, «ebbrezza del sentire». Le domande centrali dell´ermeneutica sono tutte palpitanti in Vico. Come avanzare la pretesa di conoscere l´altro? Qui non può essere in gioco una forma "cartesiana" di conoscenza; anzi, orgogliosamente Cartesio inizia affermando la sua assoluta indifferenza, prima ancora che estraneità, ad ogni linguaggio che egli giudichi "straniero". Il sapere della "nuova scienza", un sapere indisgiungibile dal rammemorare (straordinaria "re-invenzione" dell´anamnesis platonica!), dovrà non solo essere indiziario, procedere per tracce, ma anche necessariamente ricorrere alla forza dell´intuizione e della immaginazione.
Che è autentica vis, e non pensiero degradato, sapere dimidiato. La vis imaginativa si sposa all´acribia filologica, all´evidenza delle idee che la metafisica contempla nella Mente divina. La facoltà dell´immaginare, Einbildungskraft, è, possiamo davvero dire, facoltà del giudizio. Non si giudica del passato, dell´altro, senza di essa. Senza con-sentire in qualche modo con la forza della sua fantasia, con la violenza delle sue passioni, sentimenti e affetti, mai potremmo intenderlo. Non si pensa non immaginando. Come si pensa-in- parole, come non c´è "cogito" se non nella sua espressione linguistica, così non v´è logos che sia astratto da pathos. Ed è per questo che possiamo, nonostante la abissale distanza, nonostante la differenza che ci divide da "ciò" che non è lingua, che non è logos, tuttavia con-sentirlo e intenderne la voce ("prima" voce, o grido o canto, che a sua volta si apre ad un silenzio insondabile: quello cui si è prima accennato, della storia davvero sacra, la generazione del proprio Verbum uni-genitum da Dio-in Dio).
La visione del passato, co-scienza della filosofia, esige filologia e immaginazione. Esso deve perciò trasmettersi anche per immagini. Senza la loro "guida" e senza un profondo con-sentire sarà impossibile condurre la nostra "visita". Ma syn-pathein è possibile, a sua volta, solo se in noi permane l´eco di ciò che andiamo "visitando". Ciò che nel "moderno" è il valore emeneutico del pathos, in quanto capacità di connessione, in quanto organo di una "logica dell´analogia", deve "ricordare" in sé, per poterci permettere di intendere il più profondo passato, l´esperienza che di esso, come del loro presente, compirono gli uomini che lo attraversarono.

(Autore: Massimo Cacciari; fonte Link: La Repubblica)

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