Henry Corbin (14 April 1903 – 7 October 1978)
Nonostante il lavoro
pionieristico e senza pari realizzato da Corbin per far conoscere la Shi'a
in Occidente, è bene comunque tener presenti alcune pecche ed anche certe
distorsioni presenti nelle sue opere e nella sua visione. Queste sono alcune
delle critiche mosse dal Prof. Hamid Algar nel suo articolo “The study of
Islam: the work of Henry Corbin”, apparso sulla rivista “Religious Studies
Review”, vol. 6, numero 2, aprile 1980.
- Per la prima volta nel linguaggio occidentale Corbin ha esposto la dottrina
dell’Imamato in tutte le sue dimensioni metafisiche e esoteriche, rendendo
chiaro che la successione al Profeta rivendicata dagli Imam era molto di più
del governare politicamente e giuridicamente la comunità, e si trattava della
prolungazione ciclica dell’anima della profezia stessa. Ma qui troviamo ancora
il tentativo di Corbin di “curare attraverso gli opposti”. Rifiutando
correttamente la riduzione della Shi’a a questione contingente di successione
politica, egli insiste su una visione ugualmente estrema, secondo cui la Shi’a
è essenzialmente un esoterismo, e che è in realtà “il santuario dell’esoterismo
dell’Islam”. (Corbin, 1971-72, vol.1, pag. 16). Questa visione, che permea
l’intera opera di Corbin sulla Shi’a, comporta una seria distorsione sia
dell’Islam sunnita che sciita. Una volta che la Shi’a diventa l’unica
depositaria dell’esoterismo islamico (vale a dire della spiritualità e
profondità), l’Islam sunnita viene ridotto a ciò a cui Corbin si riferisce,
ripetutamente e con evidente disprezzo, come “Islam legalitario”. Una forma di
esoterismo, il Sufismo, è fiorita manifestamente nel mondo sunnita, ma Corbin
vede il Sufismo come una forma tronca della Shi’a che ha erroneamente tentato
di rinunciare agli Imam. La distorsione della Shi’a causata dalla sua
identificazione con l’esoterismo è ugualmente seria, e oggi, come conseguenza
della Rivoluzione Iraniana, con la sua forte enfasi sulle dimensioni
sociopolitiche della religione, simile identificazione appare perfino
grottesca. Nessuno potrebbe contestare che l’’irfan rappresenta una
forma di esoterismo islamico appropriata al contesto sciita e che si basa in
larga parte sulle tradizioni attribuite agli Imam. Ma asserire che l’’irfan
coincide con la Shi’a, o anche che esso rappresenta la sua più importante
espressione, è una questione piuttosto differente. Questo richiede di trascurare il vasto corpo di tradizioni degli Imam sulle
questioni exoteriche ("legalitarie") e le persistenti, sebbene
contrastate, rivendicazioni degli Imam ad esercitare l'autorità politica
effettiva.
-
Un altro aspetto principale degli studi di Corbin
attiene il Sufismo o, più precisamente, un ben definita gamma di argomenti e
personalità all’interno del Sufismo. La sua comprensione di tutto ciò che egli
ha toccato è stata, comunque, colorata, o perfino determinata, dalla sua particolare
visione della Shi’a come unico legittimo esoterismo dell’Islam. Egli ha
presentato il Sufismo di Ibn Arabi essere in molti modi simile alla Shi’a, sia
nella forma duodecimana che ismaelita, e si è spinto a stabilire paralleli tra
le due scuole, ignorando quasi completamente gli immediati e dimostrabili
antecedenti di Ibn Arabi nel Sufismo dell’Andalusia e del Maghreb. Similmente,
quando parla di Ruzbihan, Corbin si sente nuovamente obbligato a fare qualche
riferimento alla Shi’a, sebbene in questa occasione egli possa fare ben poco se
non offrire ai suoi lettori un’apologia malcelata per essersi occupato di uno
scrittore e mistico sunnita (Corbin, 1971-72, vol. 3, 11).
-
E’ ovvio che l’Islam, nella sua elaborazione storica,
ha assunto molteplici forme di espressione, alcune delle quali possono essere
identificate con una particolare regione o popolazione. Dall’inizio del
sedicesimo secolo al presente, l’Iran ha certamente seguito un sentiero di
sviluppo religioso largamente differente da quello dei suoi vicini. Ma è chiaro
che quando Corbin parla di “Islam iranico” ha in mente qualcosa di molto più
fondamentale e pervasivo. Per Corbin è esistita qualcosa definita “l’anima
iraniana” dotata di una “vocazione imprescrittibile” ed esercitante un
quasi-monopolio sugli aspetti filosofici e mistici della tradizione islamica
(Corbin, 1971-72, vol.1, x). La controparte di questo profondo “Islam iranico”
è presumibilmente l’”Islam arabo” – un legalismo superficiale e arido, con
un’errata insistenza sull’applicabilità sociale della religione. Il contrasto
razziale tra arabi e iraniani non è mai reso esplicito, ma quando si leggono le
opere di Corbin non si possono non ricordare le teorie dei vecchie orientalisti
come il Conte de Gobineau e Max Horten che tentarono di analizzare la storia
intellettuale dell’Islam nei termini di un presunto scontro tra ariani
(iraniani) e semiti (arabi). Corbin trasferisce la dicotomia dal piano
biologico a quello spirituale. Avendo definito l’”Islam iranico” com un’entità
distinta strettamente interessata al misticismo ed alla spiritualità, e
profondamente segnata dall’eredità del suo passato pre-islamico, Corbin giunge
inevitabilmente a presentare una visione altamente selettiva dell’Islam in
Iran. Dalla lettura delle opere di Cobin, non si sospetterebbe mai che l’Islam
sunnita dominò gli orizzonti religiosi dell’Iran per nove secoli, né i suoi
scritti sono di molto aiuto nel comprendere il verificabile processo in base al
quale la Shi’a Duodecimana è diventata qualcosa dell’”Islam iranico”.
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La carriera di un orientalista può leggittimamente
esser vista non solo nel contesto delle predilezioni spirituali ed intelletuali
dello studioso in questione, ma anche nella cornice istituzionale e persino
politica all’interno del quale è avvenuta. Nel corso della sua carriera Corbin
ha vissuto tra Francia e Iran, avendo come propria base a Tehran il
Dipartimento di Iranologia all’Istituto Franco-Iraniano. Egli ebbe numerosi
contatti in circoli sia ufficiali che accademici, ed ha menzionato
frequentemente anonimi “amici iraniani” come fonte dei riferimenti autorevoli
dei suoi lavori. Egli collaborò a certi progetti con Muhammad Mu’in, con Jalal
ad-Din Ashtiyani così come con altri sapienti. Una serie di discussioni tenute
con uno dei sapienti di Qom, Allamah Sayyid Husayn Tabatabai, venne pubblicata
in persiano ed ha goduto di una considerevole fama. Ma il più importante tra i
suoi collaboratori iraniani fu, senza dubbio, Sayyed Hossein Nasr. Prolifico
autore su tematiche simili a quelle seguite da Corbin, Nasr occupò un’ampia
varietà di posti amministrativi e accademici prima di lasciare prudentemente
l’Iran nel corso della Rivoluzione. Direttore dell’Accademia Imperiale di
Filosofia, era noto per avere strette relazioni personali con la Corte.
L’associazione di Corbin con Nasr ha avuto, quindi, certe inevitabili
implicazioni politiche. Non voglio affermare neanche per un momento che Corbin,
coscientemente o incoscientemente, si allineò con la defunta monarchia iraniana,
nel senso di collocare la propria conoscenza accademica al suo servizio. Le
direzioni che egli scelse di seguire erano pienamente spiegabili con le sue
preferenze intellettuali e gusti spirituali. Rimane comunque un fatto di una
qualche importanza che la sua particolare visione dell’”Islam iranico”
corrisponda piacevolmente con la politica culturale del regime Pahlavi.
L’identificazione di Corbin dell’Islam Sciita come un esoterismo che disprezza
il piano socio-politico ha molto in comune con l’insistenza del regime secondo
cui le guide religiose dovevano astenersi da ogni preoccupazione politica. In
particolare, l’insegnamento della guida Shaykhita, Zayn al-Abidin, secondo cui
“l’azione degli esseri umani non può essere un rimedio alla loro situazione”,
quotata con approvazione da Corbin, può ragionevolmente essere definita
un’ideale prescrizione per la resistenza passiva alla tirannia (Corbin,
1971-72, vol. 4, 247). Una lettura delle opere di Corbin lascia certamente il
lettore con l’impressione che l’Imam Khomeyni o ha fallito nel comprendere la
vera essenza della Shi’a, o l’ha volontariamente trasgredita. Similmente, la
posizione di Corbin sulla dicotomia arabo-iraniana nell’Islam ha diretta
affinità con l’insistenza dell’ex Shah nel rimuovere l’Iran, per quanto
possibile, dal contesto arabo della sua storia e cultura, ed era la versione
elegante ed accademica dello slogan ufficiale “Musulmani ma non arabi”. Infine,
la sua nozione di una profonda continuità spirituale tra Iran pre-islamico e
islamica venne frequentemente assorbita nella pomposa propaganda che parlava di
due milleni e mezzo di ininterrotto governo monarchico.
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