di Alberto Buela
L'accostamento a un tema o a un assunto filosofico deve iniziare da un'approssimazione filologica, giacché questo primo ragionamento ci consente di congetturare a priori il senso ultimo del tema. Tale l'insegnamento di alcuni filosofi contemporanei come Zubiri, Heidegger o Wagner de Reyna. E' questo uno dei paradossi dell'attività filosofica: così come per il nuoto si impara a nuotare nuotando, allo stesso modo si impara a filosofare filosofando. E il tuffo filosofico ci evidenzia il senso ultimo, o primo, secondo l'interpretazione, dei termini del tema oggetto di studio i quali, solitamente, ci svelano l'aspetto pristino dell'assunto.
In questo caso possiamo affermare che la parola olocausto proviene dal greco ολoς: olòs, che significa tutto, completamente, e da κάυσις: kausis, ovvero azione di bruciare; così, nel suo senso etimologico primario, olocausto stava a significare un gran incendio che distruggeva tutto un bosco. Gli antichi israeliti cambiarono il senso e lo limitarono a “un sacrificio nel quale viene bruciata tutta la vittima”.
La caratterizzazione dell'olocausto come sacrificio è vincolata alla narrazione biblica del Genesi che ci riferisce di Abramo e di Isacco: “E Dio mise Abramo alla prova e gli disse: Isacco, prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, vai con lui nel paese di Morija, e lì offrilo in olocausto sopra una pietra che ti indicherò”. (1)
La storia prosegue dicendo che Abramo si alzò presto, sellò il suo somaro e condusse con se Isacco mentre “tagliava legna per l'olocausto”; dopo tre giorni di marcia, lasciò il somaro e i suoi due aiutanti e si incamminò verso il luogo del sacrificio “prendendo con se la legna per l'olocausto che caricò sul figlio Isacco” (2). Quando era sul punto di sgozzarlo, un angelo di Dio lo fermò. Improvvisamente vide un montone impigliato in un roveto e “lo offrì in olocausto al posto del figlio” (3).
Vediamo come il termine olocausto si ripete in questo breve racconto per lo meno quattro o cinque volte, il che rende indubitabile il suo significato di sacrificio per azione del fuoco.
Questo spiega perché le organizzazioni ebraiche (B'nai Brit, Consiglio ebreo mondiale, Gran Sinedrio, Rabinato d'Israele, etc.) esigono l'esclusiva del termine olocausto per designare unicamente il genocidio nazista contro gli ebrei, e criticano l'applicazione dello stesso termine con riferimento ad altri gruppi di vittime quali zingari, cattolici, prigionieri di guerra, oppositori politici, o per estensione, ai genocidi in Armenia, Ruanda, Biafra, Cambogia o Darfur.
Il fatto è che nel senso teologico primario, l'olocausto viene inteso come la culminazione di una lunga storia di persecuzione e antisemitismo sofferta dagli ebrei dal momento del martirio e morte di Gesù, il Messia da loro non riconosciuto. L'olocausto verrebbe così a tacitare l'orribile rimbombo di duemila anni di: “crocifiggilo, crocifiggilo”(4), il grido col quale i sacerdoti ebrei chiesero a Pilato la morte di Cristo. E questo odio verso Cristo si estese poi al cristianesimo che, nell'interpretazione ebraica classica, è la forza motrice più importante e il principale responsabile dell'antisemitismo che portò all'olocausto. Questo è il motivo per il quale non saranno mai sufficienti, ai loro occhi, le numerose richieste di perdono effettuate durante i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI; ne pretenderanno sempre delle altre e comunque non saranno mai soddisfatti.
Proprio in questi giorni, l'eccellente ed obiettivo storico valenciano Vicente Blanquer, prendendo spunto dalle inopportune dichiarazioni di Monsignor Williamson, ci ha svelato il secondo senso teologico del concetto di olocausto. (5)
“Le critiche contro Monsignor Williamson dimenticano che sono gli ebrei a irrompere sul piano teologico quando parlano di Olocausto (con la maiuscola) e non lo fanno innocentemente, ma messianicamente, per dare alla seconda Guerra Mondiale il ruolo di momento conclusivo delle profezie del canto del Servo Sofferente di Yaveh -Is. 53- e sostenere che sono gli ebrei e non Gesù Cristo l'Agnello di Dio di cui parla Isaia”.
Proprio il capitolo 53 di Isaia è uno dei più importanti nell'ambito della polemica teologica tra ebrei e cristiani (nella misura in cui oggi sia rimasto ancora qualche teologo cattolico strictu sensu, cosa che ignoriamo). Qui, nel IV canto si afferma: “Disprezzato, rifiutato dagli uomini, uomo dei dolori, maltrattato e umiliato come agnello che va al mattatoio, per cui non gli demmo ascolto. Ma lui stesso prese su di sé le nostre sofferenze anche se noi lo considerammo come un lebbroso”. I teologi cristiani vedono in questo capitolo un riferimento diretto a Gesù il Cristo, vale a dire, al Messia atteso dal popolo di Israele sin dall'antichità della sua storia, e una premonizione del suo sacrificio e della sua crocifissione, mentre i teologi ebrei sostengono che queste sofferenze possono intendersi perfettamente come un riferimento all'Olocausto.
Così il Rabbino Isajar Moshé Teijtel, nel suo libro Alegre madre de hijos (Allegra madre di figli), sostiene che la causa che condusse ad Auschwitz sia stata la reticenza degli ebrei ad accettare il sionismo. Dio stava offrendo a Israele la grande opportunità di recuperare la sua terra ancestrale dove costruire il focolare degli ebrei perseguitati, ma essi perseverarono nella loro peccaminosa passività per cui sopraggiunse il castigo.
Vediamo così chiaramente come la teologia ebraica dell'olocausto finisca per giustificare l'esistenza del sionismo e di conseguenza dello Stato d'Israele.
Ciononostante esiste, anche se minoritaria, una corrente teologica ebraica contraria a questa teoria dell'olocausto, come è quella del Rabbino Ioel Teitelboim (188-1979), capo della setta (jasìdica) di Satmer, il quale afferma nel suo libro Vaioel Moshe che il grande peccato degli ebrei sarebbe stato “l'idolatria” del sionismo. Secondo lui, il popolo ebraico doveva rimanere privo di qualunque potere materiale e rimettersi alla guida di Dio, anche se ciò avesse significato subire persecuzioni e carneficine; l'esilio poi, è un castigo divino dato al popolo d'Israele, e non avrà termine finché non venga il Messia. Ecco la spiegazioni di uno dei più chiassosi portavoce: “ Il vero atteggiamento ebraico è quello della sottomissione al decreto divino che riguarda il nostro esilio tra le nazioni del mondo. Ci ha mandato all'esilio a causa dell'ingiustizia degli uni verso gli altri e della nostra infedeltà verso di Lui. L'ingiustizia delle nazioni nei nostri confronti costituisce il nostro castigo”. Questo stesso atteggiamento si trova anche nel recente e coraggioso libro di Fabian Spollansky, La mafia ebraica in Argentina (2008) dove l'autore, rivolgendosi ad alcuni sionisti dichiarati come Eduardo Elsztain, il maggior proprietario terriero dell'Argentina, al suo socio Marcelo Mindlin e al Rabbino Tzvi Grümblatt, chiede: “Rebe, è cosa da ebrei diventare milionari in così breve tempo e impadronirsi di tutta l'Argentina? E, Rebe, è cosa da ebrei mettere soldi in tutte le campagne politiche per ingraziarsi tutti? Dall'alto della nostra etica plurimillenaria, non vogliamo tacere questo abuso che ci ferisce e ci umilia”. (6)
Questa intenzione di considerare uguali il sacrificio di Gesù Cristo e le sofferenze subite dal popolo di Israele per mano dei nazisti, e voler intendere ciò come un Olocausto e non come un genocidio, è specificatamente anti-cristiana. Giustamente afferma il già citato Blanquer: “E con la teologia dell'Olocausto il popolo ebraico si sta forgiando un nuovo vitello d'oro. Si è stancato di attendere e ha scelto se stesso come proprio idolo. Il che mette in evidenza come, lungi dall'essere custodi della promessa, l'abbiano perduta, ma non perché qualcuno gliel'abbia strappata, bensì perché il popolo ebraico ha rinunciato coscientemente e volontariamente ad essa. Cadendo così nello stesso peccato del demonio quando ha preteso di farsi adorare. Questo è il fondo della questione”.
Per questo motivo i grandi teologi cattolici, quando ancora ce n'erano, come Juan Maldonado, Sören Kierkegaard, Luís Billot e nel nostro Paese, Julio Meinvielle, hanno sempre fatto osservare che il messianismo ebraico è un messianismo carnale e che, come tale, ha sempre preteso da Dio segni evidenti e palpabili. E l'infinita distanza che hanno messo tra loro e il loro dio Jehovà, “con timore e tremore si avvicinò Abramo al Signore”, ha fatto che vivano “l'altro”, il cristiano, come una minaccia. Senza rendersi conto che: “Loro, volenti o nolenti, sono i segni viventi che ci ricordano la Passione del Salvatore”, come insegna San Bernardo da Chiaravalle.
E' per tutto questo e per molte altre profonde ragioni che in questa sede non possiamo trattare, che si deve parlare di genocidio ebraico da parte dei nazisti e non di olocausto. Intanto cresce la popolarità della parola ebraica Shoàh, il cui significato è catastrofe, e lo Stato di Israele istituisce il 12 aprile come sua giornata, malgrado il Presidente Simòn Péres, durante la sua ultima visita in Turchia, abbia sostenuto senza vergogna che l'unico genocidio sia quello del popolo ebraico e che tutti gli altri, anche se con un maggior numero di vittime, come è il caso degli ucraini, debbano ritenersi omicidi di massa.
Inoltre, e questo non ha un valore teologico inferiore, la carneficina degli ebrei da parte dei nazisti deve intendersi come genocidio e non come Olocausto al fine di lasciare loro aperta la possibilità della conversione, poiché invece l'idea di Olocausto chiude questa possibilità.
Consideriamo lo sforzo straordinario e meraviglioso degli ebrei conversi che solitamente sono uomini molto ben dotati. Di fatto la conversione è un dono poiché il convertito la chiede al Signore. Se ci soffermiamo appena sui filosofi convertiti del XX secolo (Husserl, Edith Stein, Simone Weil, Bergson, solo per citarne alcuni) troviamo che si tratta di uomini di una profondità di pensiero fuori dal comune e che è stata la loro radicale metànoia a produrre l'eccellenza della loro personale realizzazione filosofica. E' grazie alla conversione che hanno potuto raggiungere la pienezza del proprio essere, ed è ancora la conversione che ha consentito loro di colmare l'infinita distanza che separa il dio di “timore e tremore di Abramo”, l'Assolutamente Altro, dal Dio misericordioso, il Dio vivo della grazia che abbraccia e comprende tutta la natura umana. Ammiriamo e rispettiamo oltremodo la capacità di conversione, di metànoia che hanno avuto questi grandi uomini in ambito filosofico. Metànoia che li ha portati più tardi alle più grandi realizzazioni. Così come invece deploriamo l'atteggiamento vergognoso di quei sedicenti teologi cattolici che rinunciando al parlare secondo verità, hanno abbandonato “il bene degli ebrei” a favore del quieto vivere e della plaisanterie. Il risultato è un groviglio inaudito e incomprensibile di tesi ebraiche trasferite nella teologia cristiana. In tal senso, l'ultimo atteggiamento della gerarchia della Chiesa riguardante questo tema è di una leggerezza (tanto per usare un termine garbato) teologica impressionante in senso negativo sia per gli ebrei che per i cristiani.
E' deplorevole che non esista un solo teologo importante o significativo che intervenga sulle due fondamentali distinzioni teologiche qui esposte, e che, al contrario, la maggior parte di loro si unisca, si sottometta e adotti le tesi ebraiche sul senso dell'olocausto come tesi cattoliche e peggio ancora che le difendano come verità di fede. Uno sproposito teologico assoluto.
1.Genesi, 22, 2.
2.Genesi, 22, 6
3.Genesi, 22, 13
4.Giov., 19, 6
5.Blanquer, Vicente: A propósito de las polémicas declaraciones de monseñor Willamson, Bitácora Digital, agencia de Internet febrero 2009.
6. Sepollansky, Fabián:
La mafia judía en la Argentina, Buenos Aires, Ed.anibalgoransky.com, 2008
(Il testo originale pervenuto in lingua spagnola è stato tradotto da Aldo La Fata in modo diretto e senza particolari accorgimenti letterari)