31/05/08

La sfida del Moderno


L'ASSOCIAZIONE OPERA PRIMA
LA CONVIALITE'
IL MUNICIPIO I CENTRO EST DI GENOVA

Invitano
Giovedì 5 giugno - ore 16,00
Auditorium del Museo S. Agostino
(P.zza Sarzano 35 – Genova)
Conferenza:

“LA SFIDA DEL MODERNO - Architettura, Identità, Progetto”

Intervengono

Angelo Cacciola Donati (Direttore del progetto Futuristisiti.com)
Riccardo Forte (Architetto - Université de Paris I Panthéon-SorbonneDo.Co.Mo.Mo. International)
Romina Botta e Dr. Paolo Sansalone (Architetti - Politecnico di Torino)
Mattia Montaldo (Associazione Partecipattiva - Chiavari (GE)

Moderatore :

Mario Bozzi Sentieri (Giornalista e scrittore)

E’ previsto l’intervento di

Aldo Siri (Presidente Municipio I Centro Est)
e la partecipazione di :

Roberta Bergamaschi - Assessore Municipale Cultura e Sport
Milena Pizzolo - Assessore Municipale Territorio Sviluppo Ambiente

Per informazioni te 0102511263


QUAL E' LA SFIDA DEL MODERNO ?


L’architettura del Movimento moderno ha vissuto, fin dall’esaurirsi degli elementi propulsivi della sua stagione eroica negli anni Trenta del Novecento, un rapporto difficile e contraddittorio con la nuova società contemporanea che pretendeva di forgiare e rappresentare. Conclusasi l’epopea leggendaria incarnata nelle utopie rivoluzionarie delle avanguardie storiche, l’illusione titanica della costruzione di un’arte a servizio dell’ “uomo nuovo”, nell’incontro, tanto desiderato, tra l’architettura e la cultura di massa - espressione di una progredita “democrazia dell’estetica” - si infrange simbolicamente nelle rovine moderne del tempo presente.

A partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, il pregiudizio ideologico e il furore iconoclasta verso le vestigia architettoniche del Ventennio fascista hanno portato in Italia a una vera e propria opera di cancellazione sistematica della memoria e dell'identità culturale di quel periodo. Più in generale, il fallimento delle utopie del Movimento moderno e la messa in accusa dei suoi “dogmi”, che ha raggiunto il suo acme agli inizi degli anni Settanta del Novecento, hanno generato indistintamente, nell’intera Europa, in una sorta di damnatio memoriæ, un discredito generalizzato che ha portato nei casi più estremi a simboliche demolizioni “espiatorie”.

Nel corso dell’ultimo decennio, la conservazione e il recupero del patrimonio architettonico del Novecento hanno assunto in Italia una rilevanza e un interesse progressivamente maggiori. La messa a punto dell’attuale processo di revisione e di riappropriazione critica di quella vicenda storica pone in essere alcuni interrogativi di fondo. Moderno, modernità, modernizzazione : quali significati e connotazioni assumono oggi questi concetti, alla luce dei processi di trasformazione indotti dalla globalizzazione crescente e dai meccanismi economici, politici e culturali di una società in continua evoluzione? Le problematiche connesse alla tutela e alla conservazione dell'architettura moderna non possono prescindere dal riconoscimento del valore iconico e patrimoniale di queste opere, dimenticate e misconosciute per lungo tempo, la cui identità di machines à habiter è per sua stessa natura mutevole e transitoria. Cristallizzati nella dimensione virtuale delle illustrazioni d’epoca, gli edifici-simbolo di quella prodigiosa esperienza storica “riacquisiscono” oggi la loro consistenza materica nella realtà funzionale del quotidiano.
La conferenza dal titolo “La Sfida del Moderno. Architettura, Identità, Progetto”, che si configura quale piattaforma di dibattito disciplinare, intende offrire un contributo di riflessione critica e una occasione di confronto sulle tematiche del patrimonio moderno e sullo “stato dell’arte” dell’architettura razionalista a Genova e in Liguria. I due casi di studio prescelti - la Colonia futurista Fara di Chiavari e il Mercato del Pesce a Genova - offrono, in termini di proposte di riuso, spunti d’interesse inediti per la messa a punto di strategie di patrimonializzazione e di criteri metodologici d’intervento atti a fornire soluzioni adeguate alle istanze della nuova società contemporanea. In questo senso, l’edificio moderno riacquisisce i suoi valori fondanti : non più semplicemente oggetto culturale ed estetico, ma risposta materiale ai bisogni sociali della collettività.

Autore: Riccardo Forte, architetto
Do.Co.Mo.Mo. International

Tel. studio : 010 25 10 210 Cell.
347 95 19 464mail: r.forte@email.it

30/05/08

Per Marta Sordi la corrispondenza fra san Paolo e Seneca potrebbe essere autentica

Citiamo l'intervista che Roberto Persico ha fatto per Tempi a Marta Sordi, uno dei maggiori studiosi viventi dell'antichità latina, a riguardo dell'apostolo Paolo, al quale il papa ha dedicato un anno speciale di festeggiamenti a 2 millenni dalla nascita.
Professoressa Sordi, ancora oggi qualcuno sostiene che il cristianesimo sarebbe un’invenzione di san Paolo, lui avrebbe trasformato il culto di un’innocua setta ebraica in una religione universale.
È del tutto falso. Tanto per cominciare, il primo ad aprire ai non ebrei non è Paolo, è Pietro. Gli Atti degli apostoli, capitolo 10, raccontano chiaramente la storia del centurione Cornelio, romano, battezzato senza essere circonciso; è Pietro che prende la decisione, che entra nella casa di un pagano sfidando le critiche degli altri apostoli, che nel primo concilio che si svolge a Gerusalemme si pronuncia contro l’obbligo della circoncisione: l’annuncio cristiano è per tutti, non solo per gli ebrei.
Sì, ma Paolo non aveva conosciuto direttamente Gesù, gli apostoli raccontavano dei fatti, lui invece ha elaborato una teologia.
Sempre in completa sintonia con la comunità degli apostoli. Come scrive nella lettera ai Galati, e come è riportato anche negli Atti, è andato due volte a Gerusalemme, la prima poco dopo la conversione, la seconda quattordici anni dopo, quando in tutte le chiese dell’Asia minore godeva già di grandissima autorità: e sempre per sottomettersi al giudizio di Pietro e di quelli che con lui – Paolo non fa nomi, ma verosimilmente dovevano essere Giacomo e Giovanni – erano le guide riconosciute da tutti. «Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani – scrive – per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano». Per non aver corso invano, capisce? Paolo sa benissimo che se predicasse qualcosa di diverso dalla fede degli apostoli la sua opera sarebbe vana.
Quali sono dunque le caratteristiche fondamentali di quest’opera?
Direi la presa di coscienza del “mistero nascosto nei secoli” della chiamata dei pagani, che nasce in lui durante la missione in Asia minore, e la capacità di rivolgersi a tutti, non escluse le autorità, i potenti, secondo il linguaggio e le forme più adatte a ciascuno. Due caratteristiche che si colgono fin dall’inizio. La missione di Paolo comincia infatti con il viaggio a Cipro. Qui lui predica, come sempre farà, in primo luogo alla comunità ebraica. Ma poi viene chiamato dal governatore romano dell’isola, Sergio Paolo, il quale, dicono gli Atti, «credette»; ed è proprio da qui in avanti che Paolo cambia il suo nome ebraico, Saul, prendendo non a caso il nome di quello che potremmo definire il suo primo convertito illustre. Il quale diventerà suo protettore, tanto che quando poi sbarca in Asia minore Paolo non si dirige nelle zone grecizzate della costa, ma in quelle più rozze dell’interno, dove la potente famiglia dei Sergi Paoli aveva terre e influenza. È qui, io credo, che Paolo acquisisce la consapevolezza che l’annuncio di Cristo è destinato, attraverso di lui, a tutte le genti; perché sempre rivolge il suo annuncio prima alla sinagoga, ma gli ebrei rispondono tiepidamente, quando addirittura non reagiscono duramente e cercano di trascinarlo davanti ai tribunali romani, mentre raccoglie seguito fra i gentili. Così a Corinto gli ebrei lo accuseranno davanti al proconsole di Acaia, Gallione, fratello di Seneca; il quale peraltro nemmeno prenderà in considerazione le accuse, perché gli paiono irrilevanti. A Efeso invece viene accusato dagli argentieri che prosperavano vendendo statuette di Diana Efesia e vedevano la propria attività rovinata dalla nuova religione; ma gli asiarchi intervengono a risolvere la situazione: in entrambi i casi vediamo come le massime autorità romane lo giudichino con benevolenza, segno evidente del fatto che sapeva come rapportarsi con loro.
Poi viene il celebre sogno del macedone che lo implora di “passare il mare” e di portare anche in Europa l’annuncio di Cristo.
Sì, anche se il desiderio di andare a Roma è presente da molto: è già formulato, secondo gli Atti, quando Paolo si trova a Efeso, ed è espresso anche nella Lettera ai Romani, che secondo la cronologia che io ho ricostruito risale al 53-54, non al 57 come generalmente si ritiene. Infatti tra le personalità romane che nomina ci sono Narciso, un liberto di Claudio morto nel 54, e Aristobulo, che nel medesimo anno venne mandato a governare la Piccola Armenia.
Lei attribuisce grande importanza a questa revisione della cronologia tradizionalmente accertata. Perché?
Perché con la cronologia tradizionale un sacco di questioni rimangono incomprensibili. Mentre con quella che propongo io – che si accorda con tutti i dati a nostra disposizione – ogni problema si chiarisce. Tutto dipende da un passo degli Atti (24,27), in cui si dice che «trascorsi due anni, Felice [il governatore romano della Giudea] ebbe come successore Porcio Festo; ma Felice lasciò Paolo in prigione»: generalmente, i due anni vengono riferiti alla prigionia di Paolo, mentre si tratta semplicemente della durata in carica di Felice, che fu governatore, secondo le fonti romane, nel 53-54. Dunque Paolo fu processato sotto il successore Porcio Festo nella prima metà del 55, in forza del suo status di cittadino romano si appellò a Cesare e fu quindi trasferito a Roma, dove giunse agli inizi del 56, e non dopo il 60, come generalmente si ritiene. Nel 56 era prefetto del pretorio Afranio Burro, amico di Seneca, uomo saggio e tollerante, e questo spiega le condizioni della prigionia di Paolo, una sorta di arresti domiciliari molto blandi, in cui era sorvegliato da un pretoriano ma poteva ricevere liberamente chi voleva. Poi venne assolto, verosimilmente da Burro, nella primavera del 58, e qui ha inizio il celebre epistolario con Seneca.
Generalmente ritenuto un falso costruito nei secoli seguenti.
Anch’io all’inizio ero convinta che fosse falso. Ma studiandolo con attenzione, e inserendolo nella nuova cronologia, ho cambiato parere. Due lettere sono sicuramente aggiunte a posteriori, diverse dalle altre per stile e lessico, e hanno per così dire trascinato con sé il giudizio sull’intera opera. Ma se eliminiamo queste due il resto io credo sia autentico. Si tratta di una corrispondenza amichevole, sovente poco più che biglietti, con allusioni a vicende quotidiane, a conoscenti comuni: se un falsario avesse voluto inventarsi un carteggio fra due personaggi del genere avrebbe scelto temi più impegnativi, non le pare? Poi c’è la questione dello stile: è un cattivo latino, si osserva, pieno di grecismi, segno che la lingua madre di chi le ha scritte era il greco. Ma, attenzione: i grecismi compaiono soltanto nelle lettere di Paolo, non in quelle di Seneca, che anzi in una gli rimprovera bonariamente il suo latino scadente e gli dà qualche consiglio su come migliorarlo. Ci sono poi un riferimento alla “lunga lontananza” di Paolo e una cono-scenza diciamo dall’interno della situazione politica, e una circospezione nel trattarla, che non potevano essere opera di un eventuale falsario.
Vuole chiarire questi ultimi punti?
Secondo la mia ricostruzione, Paolo rimase agli arresti domiciliari tra il 56 e il 58, venne quindi assolto, e qui si collocano le prime lettere con Seneca. Quindi, dal 59 al 62, c’è un vuoto, durante il quale Paolo si recò in Spagna. Tornò giusto in tempo per subire gli effetti nella svolta di Nerone: proprio in quell’anno morì Burro e Seneca perse il suo ascendente sull’imperatore, sostituito da quello della nuova moglie di lui, Poppea. E in una lettera di Seneca di questo periodo si fa cenno all’ostilità della «domina» nei confronti di Paolo, perché ha «abbandonato la religione dei padri». È un dettaglio fondamentale, perché Poppea effettivamente era giudaizzante, e quindi non guardava di buon occhio i cristiani, ma questo lo sappiamo da Flavio Giuseppe e da Tacito, i cristiani del secondo e del terzo secolo non lo sapevano. Inoltre tutto quel che riguarda gli ambienti di corte viene accennato con grande circospezione, come se i corrispondenti temessero che le loro lettere potessero cadere in mani sbagliate. Un falsario non avrebbe mai potuto avere questi riguardi.
Paolo tornò anche giusto in tempo per essere di nuovo in disaccordo con Pietro prima che entrambi venissero condannati a morte.
Guardi, tra Pietro e Paolo non ci sono mai, sottolineo mai, contrasti dottrinali. Potremmo dire che hanno due “stili pastorali” diversi: Pietro è più discreto nei confronti degli ebrei, tende a evitare contrasti; Paolo invece predica sempre in primo luogo ai connazionali, e solo in un secondo momento si rivolge ai gentili. Ma sono differenze di metodo e di temperamento, mai di dottrina. Da questo punto di vista anzi l’unità fra i due è uno dei fondamenti stessi della Chiesa di Roma. Una delle testimonianze più commoventi è un’iscrizione ritrovata a Ostia e databile agli inizi del II secolo o addirittura alla fine del I, riferita a un “Marco Anneo Petro Paolo”: Petro Paolo, capisce, è un cristiano che ha preso come cognome il nome di entrambi gli apostoli, indissolubilmente uniti. Pietro e Paolo: su questo binomio si fonda la Chiesa.

Fonte: http://centroculturalelugano.blogspot.com

26/05/08

Essere cristiani in Cina


Il nuovo libro di Alberto Rosselli:
"Essere Cristiani in Cina"
per i tipi di Gianni Iuculano Editore
Breve storia di una comunità spirituale sempre in bilico tra annientamento e speranza

Ma l'uomo non è un dado

Nel 1821 il grande matematico Augustin-Louis Cauchy così scriveva: "Se ho tentato di perfezionare l'analisi matematica sono ben lungi dall'affermare che quest'analisi sia sufficiente a tutte le scienze della ragione. Indubbiamente, nelle scienze cosiddette naturali, il solo metodo che possa essere impiegato con successo consiste nell'osservare i fatti e nel sottoporre le osservazioni al calcolo. Ma sarebbe un grave errore pensare che la certezza non possa essere trovata altro che nelle dimostrazioni geometriche o nella testimonianza dei sensi; e nonostante nessuno fino ad oggi abbia tentato di dimostrare con l'analisi l'esistenza di Augusto o di Luigi xiv, ogni uomo sensato converrà che questa esistenza è per lui altrettanto certa del quadrato dell'ipotenusa o del teorema di MacLaurin. Dirò di più: la dimostrazione di quest'ultimo teorema è alla portata di poche menti (...); al contrario tutti sanno molto bene da chi sia stata governata la Francia nel diciassettesimo secolo, e che non è possibile sollevare al riguardo alcuna contestazione ragionevole. Ciò che ho detto a proposito di un fatto storico si applica parimenti a una quantità di problemi, nel campo religioso, morale e politico. Occorre convincersi che esistono verità diverse dall'algebra, realtà diverse dagli oggetti sensibili. Coltiviamo con ardore le scienze matematiche, ma senza volerle ostentare al di là del loro dominio; e non illudiamoci che si possa affrontare la storia con delle formule, né sanzionare la morale con dei teoremi o con il calcolo integrale".
Si potrebbe pensare che siffatti propositi - che toccano brillantemente il tema oggi tanto discusso di una visione della ragione non ristretta all'approccio delle scienze naturali e matematiche - fossero un'eccezione nel panorama scientifico, che esprimessero le vedute di un matematico cattolico e conservatore. Al contrario, questa era l'opinione prevalente nel mondo scientifico dell'Ottocento. Ad esempio, nel 1836, un altro celebre matematico, Louis Poinsot, definiva "ripugnante" l'applicazione del calcolo delle probabilità alle "cose dell'ordine morale": "rappresentare con un numero la credibilità di un testimone, assimilare gli uomini a dadi", trattare matematicamente le qualità morali e ricavare su questa base conclusioni che possano "determinare un uomo sensato a prendere una decisione o a dare un consiglio su una cosa di qualche importanza, è un'aberrazione della mente, una falsa applicazione della scienza e che non potrebbe altro che screditarla".
Potrei continuare, ma basti dire che l'opposizione diffusa ai tentativi di matematizzare le scienze sociali provenne dai matematici ancor più che dagli economisti e condusse alla disperazione il pioniere dell'economia matematica Léon Walras, isolato dallo scetticismo di scienziati di primissimo piano come Henri Poincaré. L'Ottocento fu un secolo fondamentalmente dualista che chiuse la parentesi del materialismo settecentesco estremo secondo cui l'anima è una secrezione del cervello come la bile lo è del fegato (Cabanis), e attribuì statuti distinti alle scienze naturali e alle scienze umane. Del resto, anche i grandi protagonisti della rivoluzione scientifica del Seicento quando dicevano che "il mondo è matematico" intendevano per "mondo" soltanto la sfera dei fenomeni materiali. Anche Cartesio, che pure si era spinto avanti nell'"esilio" di Dio dal mondo, asserendo che "il concorso ordinario di Dio nella conservazione del moto non impedisce che la natura sia autonoma nella sua propria sfera", ribadiva nettamente che questa sfera "è quella della materia". E nonostante egli considerasse la matematica come la suprema scienza dell'ordine e della misura che fornisce il modello del metodo (mathesis universalis), si guardava bene dall'estenderne il dominio al di là della sfera naturale. Al punto di proscrivere ogni tentativo di dominare il concetto di infinito; con il che non voleva dire che l'uomo non possieda tale concetto: al contrario, il possesso da parte dell'uomo dell'idea di infinito e di perfezione manifesta la presenza divina. Ma la mente umana è finita e "sarebbe ridicolo che tentassimo di determinarne qualcosa (dell'infinito) e in tal modo supporlo finito cercando di capirlo". Per questo, secondo Cartesio, non bisogna chiedersi se la metà di una retta sia infinita o se l'infinito è pari o dispari. Soltanto Leibniz si spinge ad asserire che l'infinito e l'infinitamente piccolo possono essere manipolati come le quantità finite, perché vi è coerenza completa tra realtà e ragione, e addirittura propugna la creazione di un calcolo simbolico universale con cui sviluppare ogni ragionamento, quale che ne sia l'oggetto. Ciononostante anche Leibniz era un dualista convinto.
È nel Novecento che si è affermata la concezione detta naturalismo che ha come programma la riduzione di ogni aspetto della realtà a processi naturali, ovvero materiali, e che quindi altro non è che una forma di materialismo, seppure declinata talora nella versione blanda del "materialismo metodologico", secondo cui non importa chiedersi se tutto sia riducibile a fatti materiali ma conviene ragionare come se così fosse. Oggi predomina una versione forte del naturalismo: un materialismo metafisico che attribuisce alla scienza il compito di mostrare che ogni aspetto della realtà consiste di processi materiali. Ed è così che l'esilio di Dio dalla natura predicato da Cartesio e da Leibniz - e tanto criticato dai filosofi newtoniani, come Clarke - diventa un esilio totale, ateismo radicale e la scienza viene investita del compito di distruggere la "superstizione" religiosa. Anzi - a leggere certi testi e a seguire certi dibattiti - sembra quasi che la sua attività si riduca esclusivamente a questo fine. Questi sviluppi non potevano non avere come conseguenza la caduta della barriera che si era frapposta contro la matematizzazione di ogni aspetto della realtà. Il Novecento segna il dilagare della matematica in ogni campo ed oggi questo processo assume contorni parossistici. Tutti i premi Nobel per l'economia vengono conferiti a matematici; la biologia si ripartisce tra un approccio sperimentale volto ossessivamente a ricercare le basi materiali della vita e del pensiero e un approccio matematico modellistico; praticare le scienze sociali, psicologiche e pedagogiche senza mettere in opera un approccio se non strettamente matematico, quantomeno ispirato alla logica formale e alla modellistica, sembra sconveniente. Pare che non sia più lecito pensare se non in termini di procedimenti logico-formali.
La vera domanda è se tutto ciò abbia qualcosa a che fare con la scienza come è stata intesa per qualche secolo, sia in termini di finalità che in termini di risultati oggettivi. Al riguardo, considero fondamentali le osservazioni proposte da Gershom Scholem una trentina di anni fa. Egli osservava che "un ebraismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, dovrà opporsi risolutamente al naturalismo". Mi pare che ciò valga in modo del tutto identico per il cristianesimo. Secondo Scholem, questa opposizione dovrà mettere in luce che l'idea secondo cui il progresso è di per sé sorgente di produzione di senso è assurda, e che l'ipotesi secondo cui il mondo è "luogo di assenza di senso è ricevibile a condizione di trovare un solo uomo che sia pronto ad accettarne le conseguenze". Lo spettacolo odierno di persone che impiegano tempo ed energie a dimostrare che tutto è prodotto senza senso di interazioni casuali - e così si mettono nella tragicomica situazione di chi da senso alla propria vita proponendosi di convincere gli altri che nulla ha senso - costituisce la migliore prova della tesi di Scholem. Cui egli ne aggiunge un'altra, e cioè che "la frivolezza filosofica con cui molti biologi cercano di ricondurre le categorie morali a categorie biologiche è una delle caratteristiche più oscure del clima culturale della nostra epoca ma non può ingannarci circa il carattere disperato di una simile impresa. Basta studiare attentamente una sola di queste opere per percepire gli equivoci, le petizioni di principio, le latenze teologiche, le incrinature e le fessure di questo genere di edifizi intellettuali".
Questo è stato scritto una trentina di anni fa ma è ancor più vero oggi. E quaranta anni non hanno modificato - se mai aggravato - il giudizio del celebre storico della scienza Alexandre Koyrè circa i risultati dell'"imitazione servile" del metodo di analisi e ricostruzione per atomi applicato al di fuori delle scienze naturali propriamente dette: egli li definiva "mostruosità".
Bisogna avere il rigore e il coraggio di esaminare in profondità e mettere in luce l'estrema povertà dei risultati dell'estensione del metodo delle scienze fisico-matematiche al campo delle scienze umane. Non farlo significa subire passivamente un conformismo trionfalistico privo di fondamento e lasciare campo libero al dilagare del peggiore naturalismo. Questo non significa assumere un atteggiamento antiscientifico. Al contrario. Per dirla con Poinsot e Cauchy, questo è l'unico modo sensato per difendere l'onore della scienza in quanto attività conoscitiva contro i tentativi di ridurla a un'impresa di propaganda del materialismo e dell'ateismo.
Occorre pertanto sviluppare un elevato livello di vigilanza critica. Quando leggiamo le indicazioni governative per l'istruzione e constatiamo che la matematica non viene intesa come una scienza, bensì come la modalità per eccellenza del pensiero che deve plasmare ogni forma di esercizio della ragione, ci troviamo di fronte al riflesso di una visione ridotta della razionalità che considera inferiore qualsiasi forma di ragionamento diversa da quella logico-formale e precipita le materie umanistiche nel purgatorio del pensiero, in quanto incapaci di produrre verità.
Ma non basta essere vigili. Occorre essere coerenti. A che vale proporre come centrale il senso nella vita e nei rapporti con gli altri se poi si finisce con l'accettare passivamente una concezione dell'educazione e dei rapporti affettivi in contraddizione con tale proposito? Oggi dilagano teorie pedagogiche ispirate al più smaccato scientismo. Esse proclamano che l'insegnante non deve più essere un "maestro" bensì un "facilitatore", che il rapporto con gli allievi non deve essere dichiarativo (ossia basato sui contenuti) bensì procedurale, ovvero centrato su metodi e tecniche dell'insegnamento; e, in quanto esperto di tali metodi e tecniche, l'insegnante deve divenire un professionista. Pretendono inoltre di oggettivizzare in modo quantitativo i processi di valutazione, sottraendoli alla soggettività arbitraria del rapporto tra insegnante e studente per consegnarli alle procedure della docimologia, che ha la pretesa sconfinata di misurare le competenze, la cultura, il pensiero. Infine, pretendono addirittura di trasformare in scienza i rapporti affettivi e la morale delegando la formazione della persona in tali ambiti a corsi di affettività e convivenza civile.
Da un lato, occorre mettere in luce l'estrema fragilità delle premesse teoriche di tali teorie e la desolante miseria dei loro risultati. Ma occorre anche che si risolva l'incoerenza di coloro - e non sono pochi - che, da un lato, sono convinti che il processo educativo sia un rapporto tra persone in cui l'insegnante si presenta come "rappresentante del mondo" (per dirla con Hannah Arendt) che fornisce all'allievo gli strumenti conoscitivi per costruire il progetto e il senso del proprio futuro, e non è il mero agente di procedure meccaniche e standardizzate; e, d'altro lato, accettano passivamente di praticare queste procedure. In tal modo si permette al più vieto scientismo di ridurre al rango di vuoti proclami ciò di cui più si è convinti.

(Fonte: L'Osservatore Romano - 23-24 maggio 2008; Autore: Giorgio Israel)


21/05/08

Prezzolini, pubblicati taccuini inediti

(Adnkronos) - Per la prima volta vede la luce una selezione dei taccuini giovanili di Giuseppe Prezzolini (1882-1982), lo scrittore e giornalista amico di Giovanni Papini, antidannunziano per vocazione, che a 25 anni fondo' la rivista ''La Voce''. Gli inediti sono stati raccolti nel volume ''Faville di un ribelle'' (pagine 112, euro 12) a cura di Raffaella Castagnola e pubblicato ora da Salerno Editrice. Vi sono collezionate piu' di duecento sentenze di un giovanissimo Prezzolini, che intorno ai vent'anni aveva iniziato a tenere un diario per documentare gli incontri intellettuali e le letture della sua formazione da autodidatta, e per sperimentare la sua capacita' critica e filosofica sui grandi temi dell'uomo e dell'universo, della famiglia e della societa'.
E' decisamente un Prezzolini poco noto quello che si puo' leggere in queste pagine: sentenze e frasi di tipo aforistico compaiono fra le centinaia di pagine di dieci quadernetti (datati dal gennaio 1898 all'agosto 1904) con la copertina in marocchino nero o in tessuto marrone, di piccolo formato tascabile. I taccuini inediti sono comparsi alcuni fa in un archivio privato di un collezionista di autografi novecenteschi, dove Castagnola li ha potuti consultare e studiare. I taccuini giovanili sono vergati a matita e solo raramente a penna, con grafia fitta e di non sempre facile lettura; la prosa e' franta, ricca di abbreviazioni, di cancellature, di ripensamenti, di rinvii a titoli di libri letti con cura o soltanto frettolosamente sfogliati, di allusioni a persone spesso indicate con soprannomi.

19/05/08

EuropaItalia settimo numero

E' nelle librerie (distribuzione Dehoniane) il numero 7/2008 del mensile «EuropaItalia» diretto da Adolfo Morganti, «il mensile di chi produce, crea e pensa europeo» che conta fra i suoi editorialisti fissi il principe Otto von Habsburg, presidente d'onore dell'Unione Paneuropea Internazionale, il card. Paul Poupard, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura e del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, e il medievista dell'Università di Firenze e San Marino Franco Cardini.

In questo numero, titolo di copertina «L'Europa dell'innovazione», spiccano le dichiarazioni del nuovo Ambasciatore di Romania in Italia, S.E. Razvan Victor Rusu: «Per l'Europa, la Romania è e sarà sempre un partner europeo affidabile, che gode di prestigio politico nella regione, con una posizione geografica strategica. Inoltre, la Romania rappresenta un mercato economico di grandezza media, il settimo in Europa per dimensione e popolazione, offrendo opportunità concrete all'economia europea non soltanto sul proprio territorio nazionale ma anche nei paesi vicini, nelle regioni del Mar Nero e della penisola balcanica, e oltre, verso l'Asia centrale ed il medio oriente». Un messaggio collaborativo e tranquillizzante, in un momento così delicato per i rapporti diplomatici, soprattutto fra Romania e Italia.


In un'altra intervista del mensile, il Vescovo di San Marino - Montefeltro, mons. Luigi Negri, spiega i motivi del suo «grido cattolico» per il Tibet: «I giochi olimpici - dichiara il prelato - non potevano essere celebrati nell'omertà e nel silenzio generali. In questione non è solo il Tibet ma ciò che avviene in tutta la Cina», e su questo mons. Negri la pensa come Alain Finkielkraut, «la Cina di oggi racchiude il peggio del comunismo, del liberismo, dell'imperialismo». Duro richiamo di Negri «perché questo Occidente incolore, inodore e insapore si prenda finalmente le sue responsabilità». Ma perché un vescovo cattolico, cresciuto nel movimento ecclesiale di CL, prende così a cuore la questione tibetana? «Il buddismo nichilistico - spiega mons. Negri - oggi è ridotto solamente a piccole isole, mentre il vero buddismo è quello eticamente impegnato e desideroso di vivere la vita con significato, seguendo quelle esigenze di libertà, giustizia e verità che detta il cuore, cioè il senso religioso». Nell'intervista ce n'è anche per il passato governo italiano («cattocomunisti che speriamo non ci rappresentino più») che in visita ufficiale in Cina «non disse una sola parola in difesa dei diritti umani in quel Paese».


EUROPAITALIA è un mensile curato dall’Associazione Europa; esce in formato 20 x 28, in 64 pagine a 4 colori; prezzo di copertina, € 5,00; lo si può ricevere comodamente a casa propria: abbonamento annuale € 45,00; estero e sostenitore, € 100,00.

Redazione: Associazione Europa, Via Valle di Marco 3, 47890 San Marino Città. Telefono, 349/59.89.835; Fax 0549/99.55.76. E-mail info@europaitalia.eu
Per abbonarsi: conto corrente bancario n°3616, intestato ad "Associazione Europa, San Marino", presso ASSET Banca, filiale di Dogana, ABI 3262-3; CAB 9800-4.
Ordini diretti in contrassegno postale: ordini@ilcerchio.it .

17/05/08

Indagine sugli Olocausti dimenticati


STORIA VERITA'
Rivista bimestrale di Storiografia presenta

"Indagine sugli Olocausti dimenticati"
Sabato 14 giugno 2008
presso la Sala E. Albino della Civica Biblioteca
piazza Ravenna 3
Lavagna Genova

Interverranno:

Mario Bozzi Sentieri
Roberto Roggero
Bruno Pampaloni
Enzo Cipriano
Alberto Rosselli
Dalmazio Frau

16/05/08

L'inferno vuoto

L'uomo non può rinunciare a porsi, almeno una volta nella vita, la domanda sul perché dell'esistenza e a tentare una risposta, per chiarire e giustificare a se stesso il valore dell'esistenza. E una esigenza connaturata alla natura pensante dell'uomo. Sulla grande stampa italiana domina la risposta atea o agnostica. Scrittori e giornalisti, toccando o sfiorando i mille problemi di vario genere legati a quella domanda, suonano, un giorno sì un giorno no, la stessa musica. Non sarebbe possibile penetrare o eludere l'imperscrutabile decreto del Fato che ha posto l'uomo sulla terra per vivere, soffrire e morire, senza poter sperare in spazi più alti. L'impotenza paralizzerebbe l'uomo quando pretendesse di squarciare il mistero di quel decreto. Unico conforto è la vita stessa nella sua preziosa fragilità e con le cose belle che produce. Roberto Gervaso consiglia anche la lettura di Zenone, Seneca, Marco Aurelio e Montaigne (1). Figurarsi!
La risposta agnostica, sebbene molto pubblicizzata, è lungi dal convincere tutti. E di moda, da parte laicista, ironizzare sul «ritorno delle religioni», ma non pochi osservatori, anche non credenti, ne accettano il fatto. Più seria è l'obiezione che nasce da quella che Gian Enrico Rusconi chiama la «de-teologizzazione dell'atteggiamento religioso» (2). Essa constata o contesta alla Chiesa il cambiamento che si pretende sia avvenuto nel suo discorso pubblico: non più l'insistenza sui riferimenti dogmatici, ma la rivendicazione del monopolio dell'etica. I dogmi del peccato originale, della redenzione, della salvezza sarebbero oggi taciuti o proposti senza la forza di un tempo e, comunque, non costituirebbero più l'ossatura della dottrina morale della Chiesa. La dottrina millenaria della natura decaduta con il peccato sarebbe ormai divenuta obsoleta e sostituita da una sorta di «bio-teologismo» impegnato a risacralizzare la natura avversando le scienze biologiche e le teorie dell'evoluzione.
Che in taluni settori della Chiesa si ecceda forse con le tematiche sociali ed etico-pragmatiche è un fatto noto anche agli analisti cattolici. Già parecchi anni or sono, un fine letterato, Italo Alighiero Chiusano, metteva in luce la sproporzione tra l'impegno sociale e la predicazione delle verità della fede (3). Ma qui valga soltanto aver accennato a questi problemi. Ci interessa ora quell'altro fenomeno di de-teologizzazione, portato avanti dagli scrittori atei e agnostici, che consiste principalmente nel parlare con disinvolta ignoranza di argomenti capitali della dottrina cristiana, non nel senso con cui li intende la Chiesa, ma nell'ottica dell'immanenza laicista. Il risultato è il ridicolo gettato a piene mani su ciò che o non si conosce nei suoi veri termini o si stravolge per confondere i cattolici. La formuletta dell'«inferno vuoto» è uno di questi casi più frequenti. Usata da quegli scrittori, la formuletta significa che la Chiesa contemporanea ha mutato la sua fede nell'inferno che prima era «pieno», mentre ora è «vuoto». Si risente in questi autori l'eco del sarcasmo di Voltaire che, in una pagina antisemita, giudicava la dottrina cattolica dell'inferno cosa da domestiche e da sarti (4). Perché, si sa, «il più comune rimprovero che si fa oggidì alla religione si è che essa conduca a sentimenti bassi, volgari» (5). Vorremmo mostrare a eventuali cattolici disorientati che le cose non stanno così.
L'equivoco
È diventato un luogo comune in Italia citare Hans Urs von Balthasar come il teologo che ha detto che l'inferno esiste, ma è vuoto. L'equivoco nacque, o fu fatto nascere, nel 1984 dopo il Convegno romano sulla figura e sul pensiero di Adrienne von Speyr, durante il quale il teologo svizzero riprese la sua riflessione escatologica che già nel 1981 aveva suscitato aspre critiche nell'area teologica di lingua tedesca e ancora nel 1987 costringeva il suo autore a difenderla (6). La tesi di von Balthasar afferma che sperare la salvezza eterna di tutti gli uomini non è contrario alla fede. Essa si avvale dell'autorità di alcuni Padri della Chiesa, tra i quali Origene e Gregorio Nisseno, ed è condivisa da non pochi teologi contemporanei, tra i quali Guardini e Daniélou, de Lubac, Ratzinger e Kasper, e da scrittori cattolici come Claudel, Marcel e Bloy.
Ai suoi critici von Balthasar replicava: «La soluzione da me proposta, secondo la quale Dio non condanna alcuno, ma è l'uomo, che si rifiuta in maniera definitiva all'amore, a condannare se stesso, non fu affatto presa in considerazione. Avevo anche rilevato che la Sacra Scrittura, accanto a tante minacce, contiene pure molte parole di speranza per tutti e che, se noi trasformiamo le prime in fatti oggettivi, le seconde perdono ogni senso e ogni forza: ma neppure di questo si è tenuto conto nella polemica. Invece sono state ripetutamente travisate le mie parole nel senso che, chi spera la salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, "spera l'inferno vuoto" (che razza di espressione!). Oppure nel senso che chi manifesta una simile speranza, insegna la "redenzione di tutti" (apokatastasis) condannata dalla Chiesa, cosa che io ho espressamente respinto: noi stiamo pienamente sotto il giudizio e non abbiamo alcun diritto e alcuna possibilità di conoscere in anticipo la sentenza del giudice. Com'è possibile identificare speranza e conoscenza? Spero che il mio amico guarirà dalla sua grave malattia - ma per questo forse lo so?» (7). Basti questo testo a quanti ripetono per abitudine la formuletta dell'«inferno vuoto» della quale sono responsabili le «fin troppo grossolane deformazioni sui giornali» (8).
Chiesa e teologi
Chi conosce la dottrina della Chiesa sa bene che essa si distingue dalle interpretazioni dei teologi. Soltanto la dottrina fa parte, a vario titolo, del Magistero della Chiesa. La Commediaè Dante. Altra cosa sono i commenti dei dantisti. «Il popolo cristiano crede per buone ragioni, ma lascia ai teologi la cura di dimostrare che quelle ragioni sono buone», disse il card. Dechamps, arcivescovo di Malines, durante la celebrazione del Concilio Vaticano I. Gli scrittori laici e i giornalisti non sono abituati a queste distinzioni e fors'anche le giudicano furbeschi cavilli ecclesiastici. Questo può spiegare la disavventura capitata al pensiero di von Balthasar, l'invenzione giornalistica della formuletta a lui attribuita, il nessun valore di ciò che significa. Quegli scrittori poi mostrano un interesse morboso per l'inferno, o sia per paure inconsce non del tutto sopite o sia perché considerano l'inferno (peraltro banalizzato dal linguaggio corrente) come argomento fertile per deridere la fede della Chiesa. Essi ignorano che questa fede guarda escatologicamente al fine ultimo salvifico della vita cristiana, alla realtà positiva che è il Signore, e medita l'inferno soltanto come «il retro della medaglia», la sorte di chi in terra manca il fine ultimo (9).
Il Magistero della Chiesa sull'inferno insegna tre cose. La prima: esiste dopo la morte terrena uno stato, non un luogo, che spetta a chi è morto nel peccato grave e ha perduto la grazia santificante con un atto personale. E la cosiddetta retribuzione dell'empio. La seconda: questo stato comporta la privazione dolorosa della visione di Dio (pena dal danno). La terza: in questo stato c'è un elemento che, con espressione neotest amentaria, è descritto come «fuoco» (pena del senso). Le due pene, e quindi anche l'inferno, sono eterne. Il lettore che vorrà conoscere la secolare documentazione dogmatica potrà consultare un qualsiasi trattato teologico di escatologia (10).
Esistono i dannati?
Per comprendere in qualche modo l'inferno bisognerebbe penetrare il senso e la gravità del peccato mortale. E il peccato è un mistero come la sua sanzione. E il mistero di una creatura che rigetta la fonte e il fine del suo essere. L'agonia spirituale dell'inferno è il termine orribile delle tendenze peccatrici maturate dall'anima lungo la vita terrena, volontariamente sviluppate e non approdate a una sincera conversione. Ciò significa che il peccatore si è egoisticamente preferito a Dio, e Dio ha ratificato la libera volontà del dannato. Sotto un certo aspetto, l'inferno è il peccatore riuscito, il peccatore che è riuscito a fare perfettamente ciò che ha voluto e iniziato a fare sulla terra. Perciò l'inferno è opera dell'uomo del quale Dio rispetta la volontà. L'uomo ottiene nell'inferno ciò che ha voluto ottenere (11).
Tutto questo si oppone alla bontà divina? «La concreta possibilità della dannazione è necessaria, se si vuol continuare ad ammettere la libertà creata nella sua vera essenza. La libertà dell'uomo non può ridursi alla possibilità di scegliere tra un luogo e l'altro di villeggiatura o tra una cravatta a righe e una cravatta a pois; e neppure di scegliere la moglie o il partito politico: la nostra libertà, nel suo significato più profondo, è la spaventosa e stupenda prerogativa di poter costruire il nostro destino eterno. Per non essere puramente nominale, questa prerogativa deve necessariamente includere la reale e concreta possibilità di decidere per la perdizione. Come si vede, il mistero della dannazione è essenzialmente connesso col mistero della libertà, che è forse l'unico vero mistero dell'universo creato» (12). Uno o due, dunque, i punti fermi. Esiste la possibilità di un fallimento eterno se l'uomo rifiuta la salvezza offertagli da Dio. E un pericolo contro il quale la Scrittura e la Tradizione della Chiesa, fino ai nostri tempi, ci mettono in guardia affinché non alimentiamo certezze assolute. Si deve alimentare la speranza nella salvezza di tutti gli uomini per la misericordia di Dio e il sacrificio di Cristo. Ma «la speranza è ben diversa dalla sicurezza» (13).
Esistono i dannati? Si è mai dannato qualcuno? Per quanto riguarda gli uomini, non ci sono argomenti incontrovertibili per affermarlo. Il dogma cristiano ci impegna a credere che l'inferno è lo stato eterno di chi lascia questa vita in peccato mortale, ma non ci impegna a credere che qualcuno sia morto, o muoia, in peccato mortale. Perciò, educata dalla Scrittura (1 Tim 2,4; 2 Pt 3,9), la Chiesa non cessa di pregare affinché tutti gli uomini si salvino. Né sono pochi i cristiani che sanno bene che la salvezza è condizionata alla libera cooperazione dell'uomo con la grazia e tuttavia sperano nella potenza del sacrificio della Croce. Ma neppure esistono argomenti per affermare o presumere che nessuno mai si dannerà (14). Chiunque può vedere, alla luce di quanto siamo venuti dicendo, come sia perfettamente ortodosso il pensiero di von Balthasar su questa materia e quanto fuorviante, e sostanzialmente erronea, la formuletta dell'«inferno vuoto».
Un teologo speciale
Nel 1977, l'anno stesso nel quale fu elevato all'episcopato, l'allora card. J. Ratzinger pubblicava un compendio di escatologia che «è, assieme all'ecclesiologia, il trattato che ho esposto più frequentemente nelle mie lezioni» (15). Le quattro pagine dedicate all'inferno formano una bella sintesi dei due temi principali che esauriscono, per così dire, la comprensione della materia: l'inferno nella sua relazione con la libertà umana e con la speranza cristiana.
«Che cosa rimane dunque? In primo luogo la costatazione dell'assoluto rispetto che Dio mostra di avere per la libertà della sua creatura. L'amore è un dono che l'uomo riceve; è la conseguente trasformazione di ogni sua miseria, di ogni sua insufficienza; neppure il "sì" a tale amore scaturisce dall'uomo stesso, ma è provocato dalla forza di questo amore. Ma la libertà di rifiutarsi alla maturazione di questo "sì", di non accettarlo come qualcosa di proprio, questa libertà rimane. [...]. [Dio] non tratta gli uomini come esseri minorenni, i quali, in fondo, non possano essere ritenuti responsabili del proprio destino, bensì il suo cielo si fonda sulla libertà che lascia anche al perduto il diritto di volere lui stesso la propria perdizione. La particolarità del cristianesimo emerge qui nella affermazione della grandezza dell'uomo: la sua vita è un caso di estrema serietà [...]» (16). Contro la «terrificante realtà dell'inferno» c'è solamente «la speranza che può nascere soltanto nel condividere la sofferenza di quella notte con Colui che è venuto a trasformare con la sua sofferenza la notte di tutti noi» (17).
Trent'anni dopo, l'Autore di queste pagine, divenuto Benedetto XVI, ha ripreso il grave problema con accorata sensibilità pastorale nella enciclica Spe salvi. Sensibilità pastorale e disincantato realismo. «Possono esserci [ma il testo latino recita: Sunt quidam] persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è divenuto menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. E questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile [ma il testo latino recita: nihil sanabile invenias]e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno» (18).
Ma forse non è questo «il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini - così possiamo supporre rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male - molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima» (19). «Il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore» (20). Riecheggia in questi testi l'avvertimento della Chiesa a non dimenticare la possibilità dell'esito fallimentare di una vita centrata sul peccato. E vi riecheggia, con la fede nella misericordia salvatrice, la speranza che ad essa tutti possano un giorno accedere. Quia pius es.

Note:
1) Cfr R. GERVASO, «Per chi suona la campana?», in Il Messaggero, 19 gennaio 2007, 8.
2) G. E. RUSCONI, «Se tra cattolici e laici il dialogo è una finzione», in la Repubblica, 7 dicembre 2007, 46.
3) Cfr I. A. CHIUSANO, «Un incontro con i "Novissimi"», in Oss. Rom., 15 luglio 1993, 3.
4) Cfr VOLTAIRE, «Inferno», in Id., Dizionario filosofico, vol. I, Milano, Bur, 19913, 281.
5) A. MANZONI, «Osservazioni sulla morale cattolica», II, 2, in ID., Tutte le Opere, vol. II, Firenze, Sansoni, 1973, 1.481.
6) Nel 1981 e nel 1987, l'autore pubblicò due volumetti sulla sua opinione e la disputa che ne seguì. Ultima edizione italiana: H. U. VON BALITIASAR, Sperare per tutti. Breve discorso sull'inferno, Milano, Jaca Book, 1997. Cfr M. PARADISO, «Von Balthasar e l'inferno», in Avvenire, 22 novembre 1995, 24.
7) H. U. VON BALTHASAR, Sperare per tutti. Breve discorso sull'inferno, cit., 123.
8) Ivi, 14.
9) Cfr A. RUDONI, Escatologia, Torino, Marietti, 1972, 9, nota 1.
10) Cfr C. POZO, Teologia dell'aldilà, Roma, Ed. Paoline, 19722, 255-260.
11) Cfr R. W. GLEASON, Le monde à venir. Théologie des fins dernières, Paris, Lethielleux, 1960, 130-144.
12) G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, Milano, Jaca Book, 1984, 67 s.
13) E-J. NOCKE, Escatologia, Brescia, Queriniana, 1984, 143.
14) Cfr A. RUDONI, Escatologia, cit., 170 s; G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, cit., 68.
15) J. RATZINGER, Escatologia. Morte e vita eterna, Assisi (Pg), Cittadella, 20054, 21.
16) Ivi, 225 s.
17) Ivi, 227.
18) BENEDETTO XVI, «Lettera enciclica Spe salvi», n. 45, in Civ. Catt. 2007 IV 588 s.
19) Ivi, n. 46, p. 589.
20) Ivi, n. 47, p. 590.

(Autore: Giandomenico Mucci s.j.; Fonte: La Civiltà Cattolica 2008 II 132-138 - Quaderno 3788, 19 aprile 2008)


15/05/08

Il Corriere della Sera intervista Franco Cardini

«“Peggio per loro”. Peggio per gli Stati Uniti, per la Germania, per la Francia se hanno abolito il latino dalle scuole: “Le conseguenze si vedono bene”. È l’opinione inequivocabile di Franco Cardini, professore di Storia medievale all’Università di Firenze ed esperto di crociate. Cardini sarebbe disposto ad aprire una sua personale crociata pur di difendere il latino nelle nostre scuole: “Se l’andazzo europeo è il taglio delle proprie radici, della tradizione, dell’identità, non vedo perché l’Italia debba adeguarsi: lo si voglia o no, noi da diciassette secoli siamo il centro della Chiesa cattolica, che è stata un elemento importantissimo nella costruzione del nostro paesaggio culturale, della nostra mentalità e del nostro patrimonio artistico. In più la lingua italiana è strutturalmente vicinissima al latino. Ci sono troppi dati culturali che ci tengono legati al mondo classico”.

D’accordo, ma è anche vero che è stata proprio la Chiesa, con il Concilio Vaticano II, a tagliare i ponti con il latino.

“Ho fatto il liceo presso la Compagnia di Gesù e sin da ragazzino non ero affatto convinto dei ragionamenti in favore dell’italiano nella liturgia. Notavo che mia nonna, che aveva un’istruzione molto limitata e faceva fatica persino a leggere il giornale, coglieva anche le sfumature della liturgia latina, perché era una lingua di grandissima forza e intensità e chiarezza di concetti interni. È stato un errore madornale tradurre la liturgia: tra l’altro si vedono i risultati nello scadimento culturale del clero”.

Torniamo alla scuola. Dunque, il latino non va toccato neanche nei licei scientifici?

Nonostante tutto il bla-bla progressista del passato, il latino è una grande scuola di formazione. Non è solo il “rosa, rosae”, ma una disciplina mentale... È un grande esercizio di mnemotecnica: la perdita di abitudine nell’esercitare la memoria ha già provocato danni immani sul piano degli strumenti e delle potenzialità culturali dei ragazzi. La nostra scuola è stata vittima dei sociologi e degli psicologi, che con i politici e i sindacalisti hanno rovinato l’Italia. In nome di un malinteso senso di libertà, i sociologi degli anni Sessanta dicevano che non bisognava sottoporre i ragazzi a troppi sforzi in nome di uno sterile nozionismo. Mi dicevano che oggi i giovani medici non ricordano i nomi dei farmaci: sicuramente hanno studiato male il latino e il greco. La sudditanza al mondo americano ci fa pensare che il linguaggio scientifico sia oramai solo inglese. Non è vero, il nostro linguaggio scientifico è ancora legato a Linneo”.

D’accordo sul bla-bla progressista, però non è che le famose tre I del centrodestra guardassero molto all’educazione classica: Inglese, Impresa, Internet.

“In effetti delle tre I non si è visto nulla. Forse un po’ di impresa, ma per il resto... L’inglese rimane pessimo nelle scuole e i computer spesso restano imballati nei sottoscala. Le lingue vive ormai si imparano sul posto o con i mezzi audiovisivi, basta un po’ di pratica. Niente a che vedere con il rigore che si impara studiando il latino. Dire che il latino, essendo una lingua morta, è inutile, è un insopportabile conformismo che per fortuna oggi va un po’ dileguandosi. Voglio sperare che il governo di destra non faccia scherzi, anche se non mi meraviglierebbe, visto che ha la tendenza a correre dietro agli Stati Uniti”.

Ma il supino che cosa può dire a un ragazzino del Duemila? Non sarebbe bene mollare un po’ sulla lingua e insistere sulla civiltà e sulla cultura?

“Nella scuola di oggi ci sono delle porcate assolute, come il debito formativo, che rovinano moralmente le giovani generazioni e le rendono incapaci di articolare un pensiero. So benissimo che quando una disciplina viene derubricata, a poco a poco finisce per sparire: è inutile aggirare o negare le difficoltà traducendo in pillole una struttura linguistica rigorosissima, di estrema bellezza e armonia interna, magari sostituendo lo studio della lingua con notiziole su come vivevano i romani, su come mangiavano, su come facevano la guerra e l’amore”».

(Fonte: il Corriere della Sera del 15/05/2008)

14/05/08

"Il percorso intellettuale di Edith Stein"

Si aprirà venerdì 16 maggio il convegno internazionale «Il percorso intellettuale di Edith Stein», organizzato in collaborazione con la Facoltà teologica pugliese e con il Centro italiano di Ricerche fenomenologiche. Dopo le introduzioni di Francesco Cacucci, arcivescovo di Bari, Salvatore Palese, preside della Facoltà teologica pugliese, e Luigi Orlando, direttore dell’istituto interreligioso 'S. Fara' di Bari che ospiterà il convengo, Angela Ales Bello, che riceverà il premio «Edith Stein», inquadrerà l’opera della Stein nell’ambito della fenomenologia.
Seguiranno poi, tra gli altri, gli interventi di Giovanni Invitto, Mario Signore e Luigia Di Pinto, che ripercorreranno le tappe fondamentali del pensiero di Edith Stein nel contesto teoretico-storico della filosofia del Novecento.

10/05/08

La misteriosa conversione del rabbino capo di Roma


Il 17 febbraio 1945 Israel Zolli, Rabbino Capo di Roma, e sua moglie sono stati battezzati nella basilica di S. Maria degli Angeli da Mons. Luigi Traglia. Zolli è stato Rabbino Capo di Trieste per 25 anni prima di venire a Roma. I suoi studi approfonditi della Scrittura e della letteratura semitica possono essere ammirati nei numerosi libri da lui pubblicati. Vari studiosi cattolici hanno pubblicamente riconosciuto questi studi anni prima della sua conversione, invitandolo a collaborare all'opera della Pontificia Commissione Biblica e alla compilazione della Enciclopedia Cattolica Italiana. L'ex rabbino ha ora 65 anni portati molto bene.
E' nato in Polonia. Sua madre era un' Ebrea tedesca: dalla parte della sua famiglia c'erano ben 130 anni di tradizione rabbinica. Non meraviglia quindi trovare sui giornali commenti insolenti sulla sua vicenda. E' stato irrispettoso e offensivo per milioni di persone definire la sua conversione semplicemente "un cambio di religione" considerato che è stato il frutto di almeno 13 anni di seria riflessione e di approfonditi studi.
Nel dispaccio della Associated Press di George Brian si trovano inoltre dei riferimenti "alle voci e alle luci" che avrebbero influenzato il Rabbino. Bisogna dire che se anche Zolli ha fatto uso di queste espressioni, esse non significano quello che il lettore casuale delle notizie è portato a pensare, vale a dire, che il convertito sia un sognatore o un debole di mente e che questa conversione vada quindi liquidata con una pietosa scrollata di testa. Se Zolli ha usato tale frase, lo ha fatto riferendosi a intime esperienze spirituali. Come Rabbino Capo di Roma si è offerto in ostaggio alle forze naziste che a quel tempo occupavano la città in cambio della libertà di alcune centinaia di Ebrei. Si può definire questo come il comportamento di un sognatore? Non era piuttosto l'atto di un pastore dotato di senso pratico e di spirito di sacrificio?
Gli Ebri, e particolarmente i Rabbini del gruppo Ortodosso, non diventano cristiani a cuor leggero nè senza un potente intervento di Dio. L'esperienza dimostra che chi intende convertirsi dall' Ebraismo quasi sempre va incontro a gravi boicottaggi da parte della sua famiglia, degli amici e degli altri membri della sinagoga. Se è Ortodosso, è probabile che perfino i suoi genitori si rivoltino contro di lui buttandolo fuori di casa e cancellando il suo nome dal loro testamento. Se il convertito è un membro di qualche ramo meno rigoroso dell'Ebraismo la punizione per la sua conversione sarà ugualmente piuttosto dura.
Israel Zolli e sua moglie hanno dovuto affrontare la maggior parte di questi mali. In risposta all'insinuazione che si sarebbe fatto Cattolico per interesse, il coraggioso Rabbino ha detto: "Nessun motivo egoistico mi ha spinto. Quando io e mia moglie abbiamo abbracciato la Chiesa abbiamo perso tutto quello che avevamo al mondo. Ora dovremo cercarci un lavoro e Dio ci aiuterà a trovarne uno."
Possiamo dire, quindi, che solo se ha la ferrea convinzione di compiere ciò che Dio desidera da lui e solo grazie alla Sua potenza, un Ebreo è disposto a portare una simile croce come prezzo della sua conversione e a compiere una così grave rottura con il suo passato. Questo è evidente nel caso di Zolli, se consideriamo quanto ha detto in difesa della sua decisione.
Quando al buon Rabbino è stato chiesto perché avesse abbandonato la Sinagoga per la Chiesa, egli ha dato una risposta con la quale ha mostrato di avere una profonda comprensione della sua posizione presente: "Ma io non l'ho abbandonata. Il Cristianesimo è il completamento della Sinagoga. Poiché la Sinagoga era la promessa e il Cristianesimo è il completamento di tale promessa. La Sinagoga era rivolta al Cristianesimo: il Cristianesimo presuppone la Sinagoga. Come vedi, uno non può esistere senza l'altro. Ciò a cui mi sono convertito è il Cristianesimo vivente."
"Quindi lei crede che il Messia sia venuto?" domandò l'intervistatore. "Si,certamente," replicò Zolli. "Lo credo da molti anni, ed ora sono così fermamente convinto della verità di ciò che posso affrontare il mondo intero e difendere la mia fede con la certezza e la solidità delle montagne."
"Ma perché non ha abbracciato una delle denominazioni protestanti che sono parimenti cristiane?"
"Perché protestare non significa testimoniare. Non ho intenzione di mettere in imbarazzo qualcuno domandando: "Perché aspettare 1500 anni per protestare? La Chiesa Cattolica è stata riconosciuta dall'intero mondo cristiano come la vera Chiesa di Dio per 15 secoli consecutivi. Nessuno può dire alt alla fine di questi 1500 anni e dire che la Chiesa Cattolica non è la Chiesa di Cristo senza mettersi seriamente in imbarazzo da solo. Io posso accettare solo quella Chiesa che fu predicata a tutte le creature dai miei stessi antenati, i 12 Apostoli che, come me, provenivano dalla Sinagoga.
"Sono convinto che dopo questa guerra, gli unici mezzi per fronteggiare le forze di distruzione e per assicurare la ricostruzione dell'Europa saranno l'accettazione del Cattolicesimo, cioé, l'idea di Dio e della fraternità degli uomini attraverso Cristo, e non una fraternità basata sulla razza e i super-uomo, poiché "non c'è nè giudeo nè greco; nè schiavo nè libero; poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù."
"Ero cattolico nel cuore prima che scoppiasse la guerra; nel 1942 ho promesso a Dio che sarei diventato Cristiano se fossi sopravvissuto al conflitto. Nessuno al mondo ha mai cercato di convertirmi. La mia conversione è stata una lenta evoluzione, completamente interiore. Anni fa, a mia stessa insaputa, diedi una forma ed un carattere così intimamente cristiani ai miei scritti che un Arcivescovo di Roma disse del mio libro "Il Nazareno", : "Chiunque è suscettibile di errore, ma per quanto possa vedere, come vescovo, potrei tranquillamente apporre il mio nome su questo libro." Ho cominciato a capire che per molti anni sono stato un Cristiano senza saperlo. Se avessi notato questo fatto 30 anni fa, quello che è successo ora sarebbe successo allora."
Come era prevedibile, l'annuncio della conversione causò grande scalpore nei circoli religiosi ebraici. In una notte, quello che era stato un saggio e venerato Rabbino che aveva offerto la sua vita per le "pecore", diventò per alcuni uno stolto, e per la maggioranza un eretico e un traditore. La Sinagoga di Roma proclamò un digiuno di diversi giorni in espiazione della defezione di Zolli, e lo pianse come morto, mentre al tempo stesso lo denunciarono come meschumad (apostata) scomunicandolo. Non è chiaro se il documento della scomunica riguardante Zolli fosse stato letto o meno nella Sinagoga; ma se anche non fosse stato letto, non possono esserci dubbi sui sentimenti che albergavano nei cuori degli Ebrei di Roma verso uno che ritenevano essere un traditore di Dio e del popolo Ebreo.
Questa condanna fu lanciata contro il filosofo Baruch Spinoza ad Amsterdam nel 1656 a causa delle sue opinioni eretiche su Dio: "Con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi, noi condanniamo, esecriamo, malediciamo ed espelliamo Baruch Spinoza, con il consenso dell'intera Sacra Comunità...pronunciando contro di lui la maledizione scritta nel Libro della Legge. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nel suo andare e maledetto nel suo venire. Possa il Signore non riconoscerlo mai più; e possano la collera e il dispiacere del Signore ardere da ora in poi contro quest'uomo; e colmarlo con tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge e cancellare il suo nome da sotto il cielo. Possa il Signore estirparlo per sempre dalle Tribù di Israele. Con il presente atto, quindi, tutti sono ammoniti dall'intrattenere conversazione con lui sia a parole che per iscritto. A nessuno è permesso di prestargli un qualunque servizio; nessuno può vivere sotto lo stesso tetto con lui; nessuno può avvicinarsi a meno di 4 cubiti di distanza da lui; e nessuno può leggere alcun documento dettato da lui o scritto di suo pugno."
Per il Cristiano non informato, questo può apparire eccessivamente severo, ma gli Ebrei credevano sinceramente che Spinoza se lo meritasse. Sebbene a molti possa sembrare fanatismo condannare un uomo come Zolli, noi dobbiamo tuttavia essere prudenti nel condannare frettolosamente gli Ebrei per questo. Anche la Chiesa cattolica scomunica gli eretici con pene severe. Il Rabbino Zolli, come altri che sono divenuti cristiani, è stato condannato dagli anziani perché a loro giudizio ha violato il Nome di Dio credendo che l'uomo Gesù fosse Dio. Partendo da questo punto di vista, dobbiamo riconoscere che gli Ebrei romani hanno agito onestamente nel caso del Rabbino convertito. I Cristiani dovrebbero assolutamente trattenere la tentazione di rimproverare gli Ebrei per il trattamento riservato a Zolli e ad altri convertiti e dovrebbero invece avere compassione e pregare per loro come stanno facendo l'ex Rabbino e sua moglie.
Tutta la differenza fra la fede Ebraica e la fede Cattolica dipende da un'unica questione: " Questo Gesù che il mondo intero venera come Dio è veramente il Messia la cui venuta fu predetta dai Profeti dell'Antico Testamento?"
Qualunque Cattolico che si ostini a negare che Gesù è il Figlio di Dio sarebbe scomunicato dalla Chiesa rischiando il castigo eterno dell'inferno, a meno che non si penta. Allo stesso modo, un Ebreo che professi che Gesù è il Messia verrebbe espulso dalla Sinagoga come è successo a Zolli. Gli Ebrei Ortodossi di oggi credono completamente e fermamente alla loro antica dottrina così come i Cattolici tengono agli insegnamenti della Chiesa.
E' necessario sottolineare, per amor di pace, che sebbene gli Ebrei ripudino gli Ebrei convertiti al Cristianesimo, essi insegnano senza mezzi termini che i Gentili che credono nell'unico Dio del cielo e della terra, e che fanno la Sua volontà, possono guadagnare la vita eterna, persino se la loro comprensione dell'unico Dio è in qualche modo viziata dalle loro nozioni riguardo a Gesù e alla Sua missione.
La figlia di Zolli, non convertita, ha affermato in difesa di suo padre:"Non ho avuto l'impressione che la conversione di mio padre fosse un tradimento degli Ebrei. Il fatto che abbia potuto spendere 40 anni studiando l'Ebraismo dimostra la profonda connessione fra le due religioni." Zolli stesso disse tristemente:"Io continuo a mantenere inalterato tutto il mio amore per il popolo di Israele; e nella mia pena per il destino che si è abbattuto su di loro, non smetterò mai di amare gli Ebrei. Non ho abbandonato gli Ebrei diventando Cattolico."
"Una volta Ebreo, lo sei per sempre", è un detto troppo spesso citato da Ebrei in buona fede come una sorta di prova che un Ebreo non potrà mai nel suo intimo più profondo diventare un Cristiano. Quando a Israel Zolli fu domandato se si considerava ancora un Ebreo, rispose con la stessa espressione, spiegandone il significato più profondo. "Pietro, Giacomo, Giovanni, Matteo, Paolo e centinaia di Ebrei come loro hanno forse cessato di essere Ebrei quando hanno seguito il Messia divenendo Cristiani? Assolutamente no."
Un Ebreo che accetta oggi un Messia rimane tanto Ebreo quanto lo rimarrebbe se e quando gli capitasse di accogliere la venuta di un Messia in un futuro più o meno lontano. In altre parole, un Ebreo che accetta Gesù come sua Messia accetta un Ebreo, e lui stesso rimane un Ebreo. Questo può sembrare strano e persino eterodosso ai cattolici che hanno solo una conoscenza superficiale della storia profetica Ebraica e dell'insegnamento Cattolico a riguardo. Un Ebreo convertito prende come suo Messia l'Ebreo Gesù che discende dal re Davide senza interruzioni: si può essere più Ebrei di così?
Un convertito accetta un Messia Ebreo che ha dato prova che la sua missione era da Dio compiendo quelle cose che i profeti avevano preannunciato; soprattutto i numerosi e incontestabili miracoli e la Sua resurrezione dalla morte. I suoi miracoli sono continuati e si sono moltiplicati nella Sua Chiesa fino al momento presente. C'è qualche Messia che abbia fatto le stesse cose? Potrebbe qualche Ebreo fare qualcosa di più grande per mettere il sigillo di Dio sui suoi insegnamenti?
Quando un devoto Ebreo diventa discepolo di Gesù non cambia né la sua nazionalità, che è Ebraica, né la sua religione che è l'Ebraismo. Cosa fa dunque? Semplicemente porta la sua religione al completamento, come ha sottolineato Zolli: egli coglie il frutto maturo dall'albero piantato da Dio.
Questo è il motivo per cui l'ex Rabbino ha potuto dire che non aveva abbandonato la Sinagoga per la Chiesa, e che una non poteva esistere senza l'altra. Questo è anche il motivo per cui ripeteva correttamente:"Una volta Ebreo, lo sei per sempre."
Un uomo non è convertito nel momento in cui sceglie, bensì nell’ora in cui riceve la chiamata di Dio. E quando si sente tale chiamata, chi la riceve ha solo una cosa da fare: obbedire".

Tratto da "Before the dawn" - Eugenio Zolli

Padre A. Klyber

Padre Arthur Klyber nasce nel 1900 nel Lower East Side di Manhattan da genitori Ebrei ortodossi. Si arruola nella Marina a 17 anni, combatte la I° Guerra Mondiale e riceve il battesimo nel 1920. Entra poi nella Redemptorist Congregation e viene ordinato sacerdote nel 1932 . Ha officiato per quasi 65 anni prima di ritirarsi in pensione, all'età di 96 anni, presso la Redemptorist Nursing Home a Liguori, Missouri, dove ora vive. Questo articolo, scritto all'epoca del battesimo di Zolli, è tratto da un'imminente antologia di scritti di P. Klyber edita da Matthew J. McDonald: una precedente versione (intitolata"The Chief Rabbis Conversion ") è apparsa sulla rivista della Congregazione,The Liguorian, nel 1945.

(Fonte:www.effedieffe.com)