L'uomo non può rinunciare a porsi, almeno una volta nella vita, la domanda sul perché dell'esistenza e a tentare una risposta, per chiarire e giustificare a se stesso il valore dell'esistenza. E una esigenza connaturata alla natura pensante dell'uomo. Sulla grande stampa italiana domina la risposta atea o agnostica. Scrittori e giornalisti, toccando o sfiorando i mille problemi di vario genere legati a quella domanda, suonano, un giorno sì un giorno no, la stessa musica. Non sarebbe possibile penetrare o eludere l'imperscrutabile decreto del Fato che ha posto l'uomo sulla terra per vivere, soffrire e morire, senza poter sperare in spazi più alti. L'impotenza paralizzerebbe l'uomo quando pretendesse di squarciare il mistero di quel decreto. Unico conforto è la vita stessa nella sua preziosa fragilità e con le cose belle che produce. Roberto Gervaso consiglia anche la lettura di Zenone, Seneca, Marco Aurelio e Montaigne (1). Figurarsi!
La risposta agnostica, sebbene molto pubblicizzata, è lungi dal convincere tutti. E di moda, da parte laicista, ironizzare sul «ritorno delle religioni», ma non pochi osservatori, anche non credenti, ne accettano il fatto. Più seria è l'obiezione che nasce da quella che Gian Enrico Rusconi chiama la «de-teologizzazione dell'atteggiamento religioso» (2). Essa constata o contesta alla Chiesa il cambiamento che si pretende sia avvenuto nel suo discorso pubblico: non più l'insistenza sui riferimenti dogmatici, ma la rivendicazione del monopolio dell'etica. I dogmi del peccato originale, della redenzione, della salvezza sarebbero oggi taciuti o proposti senza la forza di un tempo e, comunque, non costituirebbero più l'ossatura della dottrina morale della Chiesa. La dottrina millenaria della natura decaduta con il peccato sarebbe ormai divenuta obsoleta e sostituita da una sorta di «bio-teologismo» impegnato a risacralizzare la natura avversando le scienze biologiche e le teorie dell'evoluzione.
Che in taluni settori della Chiesa si ecceda forse con le tematiche sociali ed etico-pragmatiche è un fatto noto anche agli analisti cattolici. Già parecchi anni or sono, un fine letterato, Italo Alighiero Chiusano, metteva in luce la sproporzione tra l'impegno sociale e la predicazione delle verità della fede (3). Ma qui valga soltanto aver accennato a questi problemi. Ci interessa ora quell'altro fenomeno di de-teologizzazione, portato avanti dagli scrittori atei e agnostici, che consiste principalmente nel parlare con disinvolta ignoranza di argomenti capitali della dottrina cristiana, non nel senso con cui li intende la Chiesa, ma nell'ottica dell'immanenza laicista. Il risultato è il ridicolo gettato a piene mani su ciò che o non si conosce nei suoi veri termini o si stravolge per confondere i cattolici. La formuletta dell'«inferno vuoto» è uno di questi casi più frequenti. Usata da quegli scrittori, la formuletta significa che la Chiesa contemporanea ha mutato la sua fede nell'inferno che prima era «pieno», mentre ora è «vuoto». Si risente in questi autori l'eco del sarcasmo di Voltaire che, in una pagina antisemita, giudicava la dottrina cattolica dell'inferno cosa da domestiche e da sarti (4). Perché, si sa, «il più comune rimprovero che si fa oggidì alla religione si è che essa conduca a sentimenti bassi, volgari» (5). Vorremmo mostrare a eventuali cattolici disorientati che le cose non stanno così.
L'equivoco
È diventato un luogo comune in Italia citare Hans Urs von Balthasar come il teologo che ha detto che l'inferno esiste, ma è vuoto. L'equivoco nacque, o fu fatto nascere, nel 1984 dopo il Convegno romano sulla figura e sul pensiero di Adrienne von Speyr, durante il quale il teologo svizzero riprese la sua riflessione escatologica che già nel 1981 aveva suscitato aspre critiche nell'area teologica di lingua tedesca e ancora nel 1987 costringeva il suo autore a difenderla (6). La tesi di von Balthasar afferma che sperare la salvezza eterna di tutti gli uomini non è contrario alla fede. Essa si avvale dell'autorità di alcuni Padri della Chiesa, tra i quali Origene e Gregorio Nisseno, ed è condivisa da non pochi teologi contemporanei, tra i quali Guardini e Daniélou, de Lubac, Ratzinger e Kasper, e da scrittori cattolici come Claudel, Marcel e Bloy.
Ai suoi critici von Balthasar replicava: «La soluzione da me proposta, secondo la quale Dio non condanna alcuno, ma è l'uomo, che si rifiuta in maniera definitiva all'amore, a condannare se stesso, non fu affatto presa in considerazione. Avevo anche rilevato che la Sacra Scrittura, accanto a tante minacce, contiene pure molte parole di speranza per tutti e che, se noi trasformiamo le prime in fatti oggettivi, le seconde perdono ogni senso e ogni forza: ma neppure di questo si è tenuto conto nella polemica. Invece sono state ripetutamente travisate le mie parole nel senso che, chi spera la salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, "spera l'inferno vuoto" (che razza di espressione!). Oppure nel senso che chi manifesta una simile speranza, insegna la "redenzione di tutti" (apokatastasis) condannata dalla Chiesa, cosa che io ho espressamente respinto: noi stiamo pienamente sotto il giudizio e non abbiamo alcun diritto e alcuna possibilità di conoscere in anticipo la sentenza del giudice. Com'è possibile identificare speranza e conoscenza? Spero che il mio amico guarirà dalla sua grave malattia - ma per questo forse lo so?» (7). Basti questo testo a quanti ripetono per abitudine la formuletta dell'«inferno vuoto» della quale sono responsabili le «fin troppo grossolane deformazioni sui giornali» (8).
Chiesa e teologi
Chi conosce la dottrina della Chiesa sa bene che essa si distingue dalle interpretazioni dei teologi. Soltanto la dottrina fa parte, a vario titolo, del Magistero della Chiesa. La Commediaè Dante. Altra cosa sono i commenti dei dantisti. «Il popolo cristiano crede per buone ragioni, ma lascia ai teologi la cura di dimostrare che quelle ragioni sono buone», disse il card. Dechamps, arcivescovo di Malines, durante la celebrazione del Concilio Vaticano I. Gli scrittori laici e i giornalisti non sono abituati a queste distinzioni e fors'anche le giudicano furbeschi cavilli ecclesiastici. Questo può spiegare la disavventura capitata al pensiero di von Balthasar, l'invenzione giornalistica della formuletta a lui attribuita, il nessun valore di ciò che significa. Quegli scrittori poi mostrano un interesse morboso per l'inferno, o sia per paure inconsce non del tutto sopite o sia perché considerano l'inferno (peraltro banalizzato dal linguaggio corrente) come argomento fertile per deridere la fede della Chiesa. Essi ignorano che questa fede guarda escatologicamente al fine ultimo salvifico della vita cristiana, alla realtà positiva che è il Signore, e medita l'inferno soltanto come «il retro della medaglia», la sorte di chi in terra manca il fine ultimo (9).
Il Magistero della Chiesa sull'inferno insegna tre cose. La prima: esiste dopo la morte terrena uno stato, non un luogo, che spetta a chi è morto nel peccato grave e ha perduto la grazia santificante con un atto personale. E la cosiddetta retribuzione dell'empio. La seconda: questo stato comporta la privazione dolorosa della visione di Dio (pena dal danno). La terza: in questo stato c'è un elemento che, con espressione neotest amentaria, è descritto come «fuoco» (pena del senso). Le due pene, e quindi anche l'inferno, sono eterne. Il lettore che vorrà conoscere la secolare documentazione dogmatica potrà consultare un qualsiasi trattato teologico di escatologia (10).
Esistono i dannati?
Per comprendere in qualche modo l'inferno bisognerebbe penetrare il senso e la gravità del peccato mortale. E il peccato è un mistero come la sua sanzione. E il mistero di una creatura che rigetta la fonte e il fine del suo essere. L'agonia spirituale dell'inferno è il termine orribile delle tendenze peccatrici maturate dall'anima lungo la vita terrena, volontariamente sviluppate e non approdate a una sincera conversione. Ciò significa che il peccatore si è egoisticamente preferito a Dio, e Dio ha ratificato la libera volontà del dannato. Sotto un certo aspetto, l'inferno è il peccatore riuscito, il peccatore che è riuscito a fare perfettamente ciò che ha voluto e iniziato a fare sulla terra. Perciò l'inferno è opera dell'uomo del quale Dio rispetta la volontà. L'uomo ottiene nell'inferno ciò che ha voluto ottenere (11).
Tutto questo si oppone alla bontà divina? «La concreta possibilità della dannazione è necessaria, se si vuol continuare ad ammettere la libertà creata nella sua vera essenza. La libertà dell'uomo non può ridursi alla possibilità di scegliere tra un luogo e l'altro di villeggiatura o tra una cravatta a righe e una cravatta a pois; e neppure di scegliere la moglie o il partito politico: la nostra libertà, nel suo significato più profondo, è la spaventosa e stupenda prerogativa di poter costruire il nostro destino eterno. Per non essere puramente nominale, questa prerogativa deve necessariamente includere la reale e concreta possibilità di decidere per la perdizione. Come si vede, il mistero della dannazione è essenzialmente connesso col mistero della libertà, che è forse l'unico vero mistero dell'universo creato» (12). Uno o due, dunque, i punti fermi. Esiste la possibilità di un fallimento eterno se l'uomo rifiuta la salvezza offertagli da Dio. E un pericolo contro il quale la Scrittura e la Tradizione della Chiesa, fino ai nostri tempi, ci mettono in guardia affinché non alimentiamo certezze assolute. Si deve alimentare la speranza nella salvezza di tutti gli uomini per la misericordia di Dio e il sacrificio di Cristo. Ma «la speranza è ben diversa dalla sicurezza» (13).
Esistono i dannati? Si è mai dannato qualcuno? Per quanto riguarda gli uomini, non ci sono argomenti incontrovertibili per affermarlo. Il dogma cristiano ci impegna a credere che l'inferno è lo stato eterno di chi lascia questa vita in peccato mortale, ma non ci impegna a credere che qualcuno sia morto, o muoia, in peccato mortale. Perciò, educata dalla Scrittura (1 Tim 2,4; 2 Pt 3,9), la Chiesa non cessa di pregare affinché tutti gli uomini si salvino. Né sono pochi i cristiani che sanno bene che la salvezza è condizionata alla libera cooperazione dell'uomo con la grazia e tuttavia sperano nella potenza del sacrificio della Croce. Ma neppure esistono argomenti per affermare o presumere che nessuno mai si dannerà (14). Chiunque può vedere, alla luce di quanto siamo venuti dicendo, come sia perfettamente ortodosso il pensiero di von Balthasar su questa materia e quanto fuorviante, e sostanzialmente erronea, la formuletta dell'«inferno vuoto».
Un teologo speciale
Nel 1977, l'anno stesso nel quale fu elevato all'episcopato, l'allora card. J. Ratzinger pubblicava un compendio di escatologia che «è, assieme all'ecclesiologia, il trattato che ho esposto più frequentemente nelle mie lezioni» (15). Le quattro pagine dedicate all'inferno formano una bella sintesi dei due temi principali che esauriscono, per così dire, la comprensione della materia: l'inferno nella sua relazione con la libertà umana e con la speranza cristiana.
«Che cosa rimane dunque? In primo luogo la costatazione dell'assoluto rispetto che Dio mostra di avere per la libertà della sua creatura. L'amore è un dono che l'uomo riceve; è la conseguente trasformazione di ogni sua miseria, di ogni sua insufficienza; neppure il "sì" a tale amore scaturisce dall'uomo stesso, ma è provocato dalla forza di questo amore. Ma la libertà di rifiutarsi alla maturazione di questo "sì", di non accettarlo come qualcosa di proprio, questa libertà rimane. [...]. [Dio] non tratta gli uomini come esseri minorenni, i quali, in fondo, non possano essere ritenuti responsabili del proprio destino, bensì il suo cielo si fonda sulla libertà che lascia anche al perduto il diritto di volere lui stesso la propria perdizione. La particolarità del cristianesimo emerge qui nella affermazione della grandezza dell'uomo: la sua vita è un caso di estrema serietà [...]» (16). Contro la «terrificante realtà dell'inferno» c'è solamente «la speranza che può nascere soltanto nel condividere la sofferenza di quella notte con Colui che è venuto a trasformare con la sua sofferenza la notte di tutti noi» (17).
Trent'anni dopo, l'Autore di queste pagine, divenuto Benedetto XVI, ha ripreso il grave problema con accorata sensibilità pastorale nella enciclica Spe salvi. Sensibilità pastorale e disincantato realismo. «Possono esserci [ma il testo latino recita: Sunt quidam] persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è divenuto menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. E questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile [ma il testo latino recita: nihil sanabile invenias]e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno» (18).
Ma forse non è questo «il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini - così possiamo supporre rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male - molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima» (19). «Il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore» (20). Riecheggia in questi testi l'avvertimento della Chiesa a non dimenticare la possibilità dell'esito fallimentare di una vita centrata sul peccato. E vi riecheggia, con la fede nella misericordia salvatrice, la speranza che ad essa tutti possano un giorno accedere. Quia pius es.
Note:
1) Cfr R. GERVASO, «Per chi suona la campana?», in Il Messaggero, 19 gennaio 2007, 8.
2) G. E. RUSCONI, «Se tra cattolici e laici il dialogo è una finzione», in la Repubblica, 7 dicembre 2007, 46.
3) Cfr I. A. CHIUSANO, «Un incontro con i "Novissimi"», in Oss. Rom., 15 luglio 1993, 3.
4) Cfr VOLTAIRE, «Inferno», in Id., Dizionario filosofico, vol. I, Milano, Bur, 19913, 281.
5) A. MANZONI, «Osservazioni sulla morale cattolica», II, 2, in ID., Tutte le Opere, vol. II, Firenze, Sansoni, 1973, 1.481.
6) Nel 1981 e nel 1987, l'autore pubblicò due volumetti sulla sua opinione e la disputa che ne seguì. Ultima edizione italiana: H. U. VON BALITIASAR, Sperare per tutti. Breve discorso sull'inferno, Milano, Jaca Book, 1997. Cfr M. PARADISO, «Von Balthasar e l'inferno», in Avvenire, 22 novembre 1995, 24.
7) H. U. VON BALTHASAR, Sperare per tutti. Breve discorso sull'inferno, cit., 123.
8) Ivi, 14.
9) Cfr A. RUDONI, Escatologia, Torino, Marietti, 1972, 9, nota 1.
10) Cfr C. POZO, Teologia dell'aldilà, Roma, Ed. Paoline, 19722, 255-260.
11) Cfr R. W. GLEASON, Le monde à venir. Théologie des fins dernières, Paris, Lethielleux, 1960, 130-144.
12) G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, Milano, Jaca Book, 1984, 67 s.
13) E-J. NOCKE, Escatologia, Brescia, Queriniana, 1984, 143.
14) Cfr A. RUDONI, Escatologia, cit., 170 s; G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, cit., 68.
15) J. RATZINGER, Escatologia. Morte e vita eterna, Assisi (Pg), Cittadella, 20054, 21.
16) Ivi, 225 s.
17) Ivi, 227.
18) BENEDETTO XVI, «Lettera enciclica Spe salvi», n. 45, in Civ. Catt. 2007 IV 588 s.
19) Ivi, n. 46, p. 589.
20) Ivi, n. 47, p. 590.
(Autore: Giandomenico Mucci s.j.; Fonte: La Civiltà Cattolica 2008 II 132-138 - Quaderno 3788, 19 aprile 2008)
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