Nuccio D’Anna,
Melkitsedek.
Il mistero di una figura biblica,
Il Leone Verde, Torino 2014, € 16.
Presentazione
La figura
di Melkitsedek si trova menzionata nell’Antico Testamento solamente nel Genesi (14,
18-20) e nel Salmo CX (v. 4). Nel canone neotestamentario,
indirizzando ad una comunità cristiana la sua Epistola agli Ebrei (7,
1-18), anche San Paolo si sofferma sul
significato ontologico di questo straordinario personaggio con un’ampia esegesi
che sembra persino rimodulare formule midrashiche. Melkitsedek ritorna ancora
con mansioni particolari in un paio di rotoli scoperti a Qumrân, affiora in
alcuni aspetti del simbolismo e delle speculazioni rabbiniche (Targum di Gerusalemme, Talmud di
Babilonia, Targum della Biblioteca Vaticana, Midrash Rabba, ecc.), infine lo ritroviamo in vari scritti
gnostici e in qualche opera dei primi Padri cristiani. Tuttavia, rispetto ai
testi biblici tutte queste speculazioni presentano importanti variazioni che
spesso ne cambiano la funzione, i riferimenti simbolici, il radicamento
dottrinale e la stessa prospettiva complessiva.
Gli
elementi essenziali del sostrato spirituale che è stato sempre saldamente
connesso con Melkitsedek vanno ricercati nello speciale radicamento dottrinale
che ha alimentato la sua apparizione biblica e ne ha fatto senza alcuna
incertezza “il re di Salem” e
“il sacerdote dell’Altissimo”. C’è una continuità profonda che lega il
Melkitsedek “re e sacerdote” del Genesi, la sua fugace menzione nel Salmo
CX (il più ricco di princìpi e dottrine messianico-regali) e
l’articolata esegesi sul “sacerdozio eterno” fatta da San Paolo nella sua Epistola
agli Ebrei. Né si può ritenere
frutto di una pura casualità il fatto che la prima apparizione biblica di
Melkitsedek ha comportato la missione tutta particolare di Abramo quale
artefice del “Patto di Alleanza” con Dio; la seconda menzione ha toccato la
funzione “assiale” della regalità di Davide, l’”Unto del Signore” che avrà il
compito di edificare Gerusalemme, la “Città Santa”; e infine l’esegesi paolina
ha indirizzato l’intero sostrato messianico emerso attraverso le precedenti
apparizioni antico-testamentarie verso la figura di Gesù Cristo, il “Sacerdote
Universale”. D’altronde, la presenza di Melkitsedek nella storia della
spiritualità cristiana non è stata certo episodica e può farsi rientrare
nell’ambito di quegli eccezionali personaggi che il p. Jean Daniélou ha
definito non senza acume storiografico “santi pagani dell’Antico Testamento”.
La sua importanza nella vita ecclesiale è testimoniata persino dall’elevazione
agli onori degli altari di un San Melkitsedek celebrato il 26 luglio nel calendario
liturgico armeno, il 26 agosto in quello della Chiesa Cattolica e l’8 settembre
in quello etiope.
E
tuttavia, nonostante le continue menzioni Melkitsedek resta una figura
enigmatica con una sua particolare storia che ha toccato ambienti culturali e
spirituali diversissimi. Alois Dempf e Ernst Hartwig Kantorowicz hanno potuto
documentare l’esistenza di una vera e propria “religione regale” che durante
tutto il Medioevo si è richiamata costantemente a Melkitsedek, alle radici spirituali che ne hanno sostanziato
l’importanza e al ruolo dottrinale sotteso dalla sua presenza nel Salmo CX. I loro studi li convincevano che il
richiamo a Melkitsedek da parte di molti dottori e scrittori di “teologia
politica” indicava una sorta di riferimento “esemplare” inteso a realizzare una
organizzazione della società medievale fondata sulla centralità spirituale del
sovrano e sulla sacralità della sua persona. Persino Dante fa fuggevolmente
menzione di Melkitsedek e nel Paradiso (VIII, 125) lo raffigura
come l’esempio tipico di colui che
ha corrisposto felicemente agli “influssi celesti” che ne hanno indirizzato la
specialissima vocazione sacerdotale. La “sostanza” umana è stata plasmata
totalmente dall’”essenza” divina e perciò nella sua persona si è realizzata in
pienezza la Volontà del Creatore. Ma il Medioevo ha visto anche la circolazione
del De tribus impostoribus, uno strano libello attribuito dal papa Gregorio IX agli
intrighi politici e alle mene anti-ecclesiali dell’imperatore Federico II e del
suo cancelliere Pier delle Vigne. In realtà, gli elementi essenziali di questo
racconto erano affiorati per la prima volta nel mondo culturale degli Ebrei di
Spagna (poi nel XV secolo
verranno trascritti nello Schévet Jehudà di Salomon ben Verga),
ma li ritroviamo anche nel Li dis dou vrai aniel, nei Gesta
Romanorum (cap. 89), nel Novellino (LXXIII), nell’Avventuroso
Ciciliano (III, 5) di Bosone da Gubbio e con più dottrina, completezza e
perizia narrativa nella celebre terza novella del Decameron di Giovanni
Boccaccio. Dietro il velo di una
divertente, ma feroce satira contro i “falsi profeti” Mosè, il Cristo e
Maometto, veniva orgogliosamente rivendicato non uno sconsolato scetticismo, ma
l’esistenza di un’unica tradizione spirituale rimasta sempre nascosta dietro
queste forme esteriori rispetto alla quale le tre religioni di origine abramica
si sarebbero configurate come semplici anelli di un’unica catena. E l’autore di
questa straordinaria favola raccontata certo non casualmente al sultano Salah-ed-din
(considerato dagli scrittori cristiani del tempo un autorevole
rappresentante di quella “cavalleria spirituale” che attraversava senza
distinzione alcuna il Cristianesimo e l’Islam), era un “savio giudeo” di
nome Melkitsedek…
L’intento del presente studio non è solamente quello
di delineare i tratti di un interessante personaggio che, pur presente
autorevolmente in alcuni momenti del canone liturgico, per tanti aspetti
sembrerebbe essere rimasto comunque impenetrabile, ma essenzialmente quello di
fare emergere l’ambientazione religiosa e la dimensione ontologica dalla quale
è fuoruscito Melkitsedek, i suoi legami con la storia spirituale israelitica,
il ruolo “esemplare” che ha avuto nella fondazione della monarchia sacra
davidica e la portata universale delle sue apparizioni nei momenti “epocali”
delle vicende di questo popolo. Solo dopo aver delineato il valore universale
della sua presenza nell’Antico Testamento si potrà capire perché San Paolo si
sia premurato di soffermarsi con inusuale ampiezza esegetica sul significato
spirituale di un personaggio così enigmaticamente poco presente nella Bibbia
tratteggiandolo come il Typus del
“sacerdote eterno” che il Cristo incarnerà nella Sua stessa persona e
proclamando senza dubbio alcuno la sua “uguaglianza” (aphōmoiōmenos) reale
ed effettiva con il Figlio di Dio.
Infine, in
un capitolo specifico del libro si avrà cura di esaminare la portata teologica
del personaggio di Melkitsedek quale appare in alcuni rotoli di Qumrân, nelle
sette eterodosse, nelle correnti gnostiche e nel folklore. Si tratta di una
variegata quantità di narrazioni che a volte mostrano rilevanti aperture
dottrinali, ma che in massima parte fluiscono da una forma di cultura
crepuscolare ormai definitivamente staccata dal radicamento rituale che l’aveva
animata e spesso si presentano come pure sopravvivenze di cicli
spirituali ormai spenti.
L'ho appena ordinato. Ho già letto qualche libro di Nuccio d'Anna: la sua opera sul cristianesimo celtico è la mia preferita.
RispondiEliminaCordiali saluti,
Alberto D.
Ho letto il testo di Jean Tourniac, sull'argomento. Leggerò anche questo.
RispondiEliminaTrovo il libro di una ricchezza unica. L'autore unisce dottrina, simboli e spiegazioni storico-dottrinali. Vale la pena leggerlo.
RispondiEliminaMariella F.