di Aldo La Fata
Giovanni Gentile è un autore
misconosciuto, vittima di una profonda e reiterata
incomprensione. Di lui si ricordano solo l’adesione al Fascismo storico
e la fedeltà al Duce. Nulla si sa e nulla si vuol sapere invece dei suoi libri,
della sua filosofia, dei suoi grandi meriti culturali e soprattutto del suo
rigore morale e della rilevanza interiore del suo pensiero. Sconfortante conseguenza della damnatio memoriae operata con
sistematica continuità da quella indegna sinistra italiota che con Togliatti ne
aveva addirittura legittimato e giustificato l’omicidio, inneggiando “al grande
valore politico” della sua “soppressione” quale “atto di giustizia” compiuto
“per volere ed eroismo di popolo” da “un gruppo di giovani generosi”, anzi,
come “una delle più rischiose ed ardite imprese della gioventù antifascista”(1).
Per fortuna a partire dal dopoguerra un piccolo manipolo di studiosi
intellettualmente attrezzati, anche di parte cattolica, ebbero l’ardire di
andare controcorrente, producendo una ricca messe di ricerche e interpretazioni
teoriche che restituiscono al pensiero di Gentile tutto il suo grande spessore,
il vigore speculativo e la sua attualità. Solo per fare qualche nome di ieri, qui
ricorderei Armando Carlini, Pantaleo Carabellese, Augusto Guzzo, Marino
Gentile, Michele Federico Sciacca, Gustavo Bontadini, affiancati in epoca più
recente da Antimo Negri, Nicola Abbagnano, Pietro Prini, Sergio Romano,
Emanuele Severino. Proprio quest’ultimo che si può considerare, che piaccia o
meno, come uno dei più importanti filosofi del nostro tempo, ha riconosciuto in
più occasioni il suo debito nei confronti di Gentile, mettendolo alla pari del
grande filosofo di Friburgo, Martin Heidegger.
Certo, non va
sottaciuto che anche tra gli esponenti della cosiddetta “cultura di destra” c’è
stato chi ha stroncato Gentile, primo fra tutti quel campione di
anticonformismo che fu Julius Evola. E d’altronde di antigentiliani ce n’erano
stati parecchi anche durante il fascismo. Chi scrive sa perfettamente che anche
un Sergio e un Silvano Panunzio – padre e figlio, rispettivamente il teorico
del sindacalismo rivoluzionario e il teorico della metapolitica - non avevano
affatto in simpatia il filosofo di Castelvetrano. Tuttavia, come abbiamo detto, nell’elenco degli
estimatori risuonano nomi altrettanto importanti,
come quello ad esempio del grande orientalista e tibetologo Giuseppe Tucci. L’attualismo
gentiliano poi influenzò e ispirò certe
correnti dello spiritualismo cristiano (Carlini, Sciacca), del neotomismo
(Gemelli, Olgiati) e persino del neospiritualismo esoterico (Massimo Scaligero, Aniceto Del Massa). Tra
gli ammiratori del Giovanni Gentile uomo e filosofo, troviamo anche penne
importanti del cattolicesimo militante come quelle di Don Ennio Innocenti,
Piero Vassallo, Fausto Belfiori, Primo Siena. Quest’ultimo che fu sodale e
amico di Silvano Panunzio ed esponente di punta della metapolitica ideale e
tradizionale ha appena licenziato, con
l’editore abruzzese Solfanelli, un piccolo ma denso saggio dal titolo “Giovanni
Gentile: un italiano nelle intemperie”. Ricorderemo che Siena aveva già
dedicato al filosofo italiano un toccante e vibrante profilo apparso nel suo
“Incontri nella terra di mezzo” (Solfanelli, 2013) con il titolo “Giovanni
Gentile: la filosofia del combattimento”. Ora invece con questo nuovo saggio
Siena entra nel vivo del dibattito teorico sull’attualità delle tesi del
pensatore siciliano soffermandosi in particolare su quel Genesi e struttura della società, scritto di getto nel ’43 e uscito
postumo nel ’46, che può considerarsi
il libro centrale e conclusivo del suo itinerario intellettuale e speculativo e
quindi, in certo modo, il suo testamento filosofico.
Quanto al Gentile educatore, i metodi
educativi proposti soprattutto in quello straordinario e celebre testo che fu
il Sommario di pedagogia come scienza
filosofica pubblicato per la prima
volta nel 1913/14, che conobbe ben cinque edizioni e diverse ristampe, sono per
Siena sempre validi e sulla linea dei modelli pedagogici, come ad esempio
quello proposto dalla scuola Steineriana, che mettono al loro centro l’anima dell’uomo e
non il suo cerebro, i valori spirituali e non le nozioni o l’erudizione.
Il saggio di Siena
inoltre, dedica ampio spazio anche al rapporto che il filosofo di Castelvetrano
ebbe con la Chiesa Cattolica, dimostrandone infine l’intimo e profondo legame.
La prima parte del
libro si conclude con un capitolo che indaga sul legato filosofico del
pensatore dell’attualismo, dopo il suo assassinio. E qui Siena, in pagine dove
la polemica vivace si avvale sempre di una rigorosa documentazione, reagisce
al duplice tentativo di rimuovere il pensiero del filosofo
dall’italiano Gentile politicamente impegnato (è il caso, ad esempio, di
Severino, puntualmente citato) o, peggio, di “scipparlo” dopo averlo
opportunamente adulterato; come ha fatto la scuola marxista nel tentativo di strumentalizzarlo per opzioni politiche di
segno opposto.
La seconda parte è arricchita da una selezione di scritti di Giovanni Gentile sulla
Scuola, la Patria, il Fascismo, i rapporti tra Stato e Politica, la Storia, il
Lavoro. Sono testi brevi, ma che danno un’idea precisa non solo della forza
speculativa del sistema di pensiero del filosofo dell’attualismo, ma anche della
sua coerenza morale, dell’indole fondamentalmente buona e anche di quella rara
liberalità intellettuale che fu una delle caratteristiche non solo di Giovanni
Gentile ma anche del suo duce Mussolini.
Il saggio di Siena
termina con un’appendice di testi del sacerdote gesuita argentino Leonardo
Castellani che affronta l’argomento del Gentile filosofo del Fascismo; del romeno-spagnolo
George Uscatescu che mette a confronto le tesi sul lavoro e il lavoratore di
Gentile con quelle dell’anarca Jünger e infine, a chiusura, un saggio del
filosofo spiritualista cristiano Armando Carlini di diretta derivazione
gentiliana.
Alla fine del libro
e a conti fatti ci siamo chiesti se Giovanni Gentile possa meritare di entrare
anche lui nel pantheon ristrettissimo dei classici della Metapolitica sulla
linea inaugurata da Silvano Panunzio e la risposta che ci siamo dati è possibilista.
Intanto perché Gentile si è collocato fin dai suoi esordi universitari sulla
linea di un Rosmini e di un Vico (autori a pieno titolo Metapolitici) e poi
perché la sua filosofia si propone come “azione etica”, profondamente nutrita
da una costante inquietudine religiosa che si svolge infine come “filosofia del
combattimento” e quindi in sintonia con il profetismo ebraico e lo spirito
cristiano, soprattutto di marca paolina. A questi due già di per sé validi e più che
sufficienti motivi, potremmo aggiungerne un terzo, forse ancora più decisivo,
quello relativo al martirio di Gentile, conseguenza inevitabile e direi quasi
fatale del suo impegno civile e della sua coerenza intellettuale mai tradita. Coerenza
verso se stesso e verso la Patria che il Nostro pagò con il prezzo altissimo
della vita. Non che tutti i “martiri” di una causa, quale che sia, debbano
essere eletti automaticamente “profeti” e quindi metapolitici, come non tutti i
virtuosi possono essere ritenuti dei Santi, ma nel caso di Gentile pensiamo che
sia giusto riconoscergli la qualifica di metapolitico
in fieri, d’accordo con Siena che “tutta
la filosofia gentiliana attesta un’aspirazione verso l’alto, che dalla
trascendentalità aspira alla trascendenza: tracciato d’una via verticale dell’uomo
a Dio, un itinerarium mentis in Deum”
(p. 29).
(1)
V. F. Perfetti,
Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Ed. Le lettere Firenze 2004
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