di Antonello Colimberti
«Un sistema salariale impegnato non a creare ricchezza
primaria, ma ricchezza secondaria, non farà nulla per curare il male della
disoccupazione, se è un male. La manodopera in quanto tale dovrebbe essere
impiegata prima di tutto a produrre beni di primaria importanza. Quando i
bisogni primari sono soddisfatti, allora la manodopera può andare avanti a
soddisfare i bisogni secondari […] Ora, per qualcuno sarà sorprendente
riflettere sul fatto che l’attuale sistema industriale non produce per nessuno
dei bisogni primari dell’esistenza umana». Queste insolite parole non sono
quelle di uno stravagante economista o sociologo dei nostri tempi, bensì quelle
di un lungimirante teologo irlandese di nome Vincent McNabb (1869-1943). Frate
domenicano dal 1885, Mc Nabb fu amico e confessore del celebre scrittore
inglese Gilbert Chesterton, insieme al quale formulò la teoria economica
chiamata “distributismo” (progressivo aumento dei proprietari e riduzione dei
salariati), che si proponeva di applicare quei principi della dottrina sociale
della Chiesa cattolica indicati da papa Leone XIII nell’enciclica Rerum
Novarum del 1891.
Autore di innumerevoli scritti mai tradotti nel nostro
paese, alcuni dei quali densi di una critica sociale dell’esistente tale far
scolorire i testi di Guy Debord, Mc Nabb è finalmente disponibile per il
lettore italiano con la sua opera di sintesi, intitolata La Chiesa e la
terra (che sarà presentato venerdì a Roma alle 16,30 presso il Salone
dell’editoria sociale), grazie alla Libreria Editrice Fiorentina ed in
particolare al suo direttore Giannozzo Pucci, che ne firma la traduzione (con
Laura Melosi), nonché la focosa e giusta presentazione, che attualizza le
indicazioni del libro in ben tredici provvedimenti pubblici e privati possibili
per restituire un grado di civiltà al nostro paese (politici e amministratori
di ogni ordine e grado sono invitati ad una più che proficua lettura!).
La Chiesa e la terra uscì per la prima volta a Londra nel 1925, poco tempo prima della crisi
del 1929, che in gran parte predisse, così come predisse le cicliche crisi
successive fino all’attuale; se ciò è avvenuto non è stato per particolare doti
medianiche dell’autore, bensì perché è stato capace come pochi di scorgere con
lucidità i principi di un sistema economico antropologicamente malsano, cui
opporre non solo il proprio sobrio e coerente stile di vita, degno di un santo
più ancora che di un frate (arrivò anche a pulire i pavimenti di stranieri
impediti che non avevano nessuno che vi provvedesse), ma anche la ricerca di
coraggiose ed innovative soluzioni, sempre centrate però sul primato della
terra, in quanto reale fonte non solo dei beni primari come il cibo, il
vestito, l’alloggio e il combustibile, ma anche della danza: «Solo coloro che
con l’amore per le cose invece che per i simboli delle cose, vivono del lavoro
della terra, sanno cosa sia la danza nel suo intimo e nella sua essenza [..] Ma
ora che il ballo è sparito dalla campagna dobbiamo narcotizzare il nostro
dolore pagando dei professionisti che mostrano i nostri defunti sentimenti in
un dedalo di arti artificiali. Riposino in pace!».
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