di Nuccio D'Anna
Alle origini della metallurgia ellenica troviamo una
profonda solidarietà fra l’arte tecnico-magica dei fabbri e l’arcaica sovranità
sacra. Questa profonda simbiosi emerge con chiarezza anche nel processo di
trasformazione della monetazione greca quale è possibile registrare già a
partire dall’età omerica. Secondo gli studi di Edouard Will che sviluppava in
senso etico le pionieristiche analisi di Bernhard Laum più attente alla
dimensione religiosa che sostanziava l’antica ricchezza, gli importanti
spostamenti di artigiani che è possibile delineare a partire dal II millennio
nel bacino del Mediterraneo orientale coincidono in Grecia con la
trasformazione delle antichissime forme di monetazione e con l’istituzione
della moneta quale valore pratico e materiale garantito dalla città-stato. Nel
periodo di passaggio dalla civiltà micenea al mondo ellenico “classico”, le
pōleis sempre più laicizzate e democratiche riescono finalmente ad impadronirsi
delle miniere ricche di metallo prezioso, prima esclusivo possesso della casate
nobiliari e dei sovrani. La conseguenza inevitabile sarà prima di tutto la
sparizione delle corporazioni sacre dei minatori che nel loro lavoro ritenevano
di incarnare o di “rappresentare” esseri semi-divini come i Ciclopi, poi
l’abolizione del privilegio del conio e della lavorazione della moneta goduto
dalle consorterie dei fabbri-maghi che avevano ereditato questo diritto da
tempi immemorabili, infine la sostituzione della “moneta di sacrificio” o
della “moneta di sangue” ancora legata alle attività rituali e ai sacrifici
delle grandi famiglie aristocratiche, con una moneta uguale per tutti: la dikē
cittadina sostituisce definitivamente la dikē divina.
Il vecchio conio era centrato su lingotti punzonati
forgiati da artigiani-fabbri legati con un sistema di intreccio sociale e
religioso ai clan aristocratici. I lingotti venivano prodotti secondo
prospettive simboliche alle quali quel mondo di fabbri-maghi da sempre era
rimasto saldamente legato, quasi sicuramente trasmettendo gelosamente i segreti
dell’arte fra membri della stessa famiglia. Il sigillo, che in Grecia si trova
usato fin da tempi molto remoti, non era un semplice segno di proprietà, ma
anticipava la moneta e la permeava di una particolare “qualità”, delineava una
sua dimensione spirituale, trasmetteva una identità magico-religiosa. Nei più
antichi lingotti di rame minerale fin qui rinvenuti si sono trovati incisi
pesci (simboli di una dèa Afrodite sconosciuta alle “classiche” forme omeriche
della dèa dell’amore), oppure il tridente, l’ascia bipenne o ancora un glifo
che sembrerebbe riprodurre la lettera M. E già dal tempo di Omero è documentato
l’uso di donare all’ospite tripodi, bacili, calderoni, anelli e armi, tutti
doni ben classificati e numerati. Si tratta di “segni pre-monetari”, veicoli di
un simbolismo religioso che il signore elargiva al suo ospite. Le stesse falci
di ferro date come premio agli atleti spartani che partecipavano agli agoni
sacri costituivano non una bizzarra forma di riconoscimento rozzo e
semplificatore del valore dei vincitori, ma una vera e propria moneta coerente
con l’uso ellenico che spesso imponeva l’emissione delle monete in occasione
dell’apertura dei giochi. Appoggiandosi a Pausania Louis Gernet spiegava che lo
scambio del dono si svolgeva all’interno di un orizzonte religioso che lo
assimilava ad una prova sacra: concludeva una forma di ordalia e annunciava un
destino che veniva rivelato attraverso la “lettura” del significato delle
diverse posizioni assunte su un tavolo dagli oggetti donati.
Come si vede, l’antica monetazione si basava su un
sistema di scambio basato su un complesso di simboli che veicolavano forme di
sacralità molto remote, poco legate ai culti cittadini e più in relazione con
l’arcaico sottofondo misteriosofico dell’Ellade, con i rituali patrizi e con le
consorterie di fabbri-maghi che ne sostenevano l’azione sacra. Con la riforma
di tutto il complesso che ruotava attorno all’estrazione del metallo, del conio
e della stessa funzione della ricchezza, il sistema monetario deve abbandonare
il significato religioso che in antico gli era proprio assieme a tutto il
simbolismo che lo sostanziava quando era legato al ghenos e alle dimensioni
spirituali custodite dalle antiche famiglie. Come ben vide l’Aristotele della
Politica, dopo l’età arcaica a poco a poco la produzione della moneta non è più
l’esclusivo privilegio delle corporazioni dei fabbri-maghi, si laicizza e
diventa un semplice mezzo di scambio. Il nomisma, che serve a regolare su un
piano egualitario rapporti meramente mercantili e commerciali, rinuncia
definitivamente ad ogni volontà di veicolare simboli spirituali. Per dirla con
Leslie Kurke che ha studiato con attenzione le implicazioni sociali di queste
fondamentali trasformazioni monetarie, emerge un tipo di realtà che gli
aristocratici del tempo arcaico esemplificavano nell’opposizione hétaira-porné
(= cortigiana-prostituta) con la quale intendevano mostrare il vero significato
delle differenze insanabili esistenti fra il metallo e la moneta. Per gli
aristocratici la moneta che dopo la riforma democratica viene utilizzata da
chiunque è come la porné che si dà a tutti coloro che la chiedono, al contrario
della cortigiana che occupa un esclusivo, irrinunciabile e ben preciso rango in
ogni corte aristocratica.
Una traccia della profonda solidarietà fra arte dei
fabbri, monetazione e Themis, la Giustizia cosmica e divina, probabilmente è
stata conservata fuggevolmente anche da Omero. Descrivendo lo scudo di Achille
creato dal divino fabbro Hefestos, dopo averci dato una mappa celeste centrata
sul polo nord, sulle costellazioni polari e su una serie di stelle fisse sulle
quali, come in Esiodo, si orientava il più antico sistema calendariale
ellenico, Omero tratteggia la scena di un matrimonio con la tipica processione
al lume di fiaccole mentre tutt’intorno giovinetti danzanti accompagnano gli
sposi elevando inni sacri. Poi, improvvisamente, la rappresentazione si
trasforma e l’aedo introduce la scena di un processo. I giudici siedono su un
sacro recinto circolare mentre al centro si trovano δύο χρυσοῖο τάλαντα,
normalmente reso come “due talenti d’oro”. Ora, τάλαντα è formato sullo stesso
radicale dal quale si ottiene il verbo ταλαντέυω, “pesare”, “bilanciare”,
“misurare”, “oscillare”, sicché in realtà il termine usato da Omero indica non
solo “i due talenti d’oro”, ma anche “i due piatti di una bilancia”, lo
strumento forgiato dai fabbri ad imitazione del tipico simbolo di Themis, l’Ordine
cosmico che si regge sull’asse polare e “orienta” la rotazione dei due “piatti
d’oro” della bilancia celeste, il Grande e il Piccolo Carro. Per poter
giudicare gli sfidanti di questo processo che viene condotto come un’ordalia
sacra, il giudice omerico “pesa” le colpe su una bilancia e premia l’innocente
con due “talenti d’oro”, qui rivelatisi come simboli ambivalenti scaturiti
dalle forme più antiche di monetazione creata nella fucina dei fabbri-maghi.
Con la sua “pesatura” della colpa su una bilancia e con il “premio” dei talenti
d’oro il gesto del giudice omerico mostra chiaramente lo strettissimo legame
esistente fra metallurgia, giustizia e sovranità, i tre volti di una regalità
magico-sacerdotale precedente la stessa costituzione delle pōleis democratiche.
Tutto ciò appartiene ad un sostrato culturale antichissimo, forse persino
indoeuropeo. È lo stesso sostrato che illumina il gesto che, seguendo una
arcaica prerogativa regale, spinse il re celta Brenno, vincitore dei Romani, a
buttare la sua spada sul piatto della bilancia che doveva “pesare” il suo
diritto di vincitore. Come ricordava Johan Huizinga la scena omerica, pur in
una presentazione ormai quasi completamente “laicizzata”, scaturisce dal
fondamento sacro che sostanziava l’antico pre-diritto, quando colpa e diritto
venivano soppesati sui piatti di una bilancia le cui oscillazioni dovevano
essere interpretate da un oracolo che così decideva il destino delle due parti.
L’oracolo si pronunciava su un contenzioso condotto come una sacra ordalia e il
suo giudizio non era una semplice punizione, ma sanzionava un destino. È lo
stesso schema rituale conservato nel gioco della scacchiera che Omero ricorda
ancora nell’Odissea, dove la πεσσεία (un termine che sostanzia anche la
πεσσευτήριον,“la tavola astronomica” di cui parla Eust. 1397) era una specie di
tavola/scacchiera forse formata da tre quadrati concentrici, il cui significato
rituale era ben conosciuto anche da Platone e sulla quale venivano gettati i
dadi/pedine per interrogare il volere degli dèi. Come ha dimostrato la nota e
attenta esegesi di Werner Jaeger, pur non essendo legato da vincoli etimologici
il cui intreccio avrebbe potuto spiegare il significato dei due termini,
secondo molti grammatici antichi δίκη sul piano strettamente simbolico restava
connesso al verbo δικεῖν
(“gettare”): la “gettata” dei dadi determinava non solo un destino, ma fondava
un diritto sacro interpretato e custodito dal veggente-indovino.
(Testo pubblicato per gentile concessione di simmetria.org e dell’Autore)
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