Di chi è Excalibur? Di un re o di un santo, di Artù o di Galgano? Italia e Francia, - anzi: Bretagna e Toscana - sembrano affrontarsi in singolar tenzone giostrando intorno a uno dei miti più popolari del Medioevo cavalleresco: la spada nella roccia, appunto. E in palio c'è un primato prestigioso: quello di chi ha piantato per primo quell'arma nella pietra.
Fu lo storico Franco Cardini, in un lavoro del 1982 su san Galgano (l'eremita del Senese ai cui luoghi, tra Chiusdino e Monte Siepi, accorrono migliaia di turisti), il primo a notare un'analogia tra la vicenda dell'ex cavaliere toscano e la «materia di Brettagna», secondo cui divenne re d'Inghilterra il solo capace di estrarre un gladio infisso nella pietra. Artù, insomma, potrebbe essere l'antenato (o il successore?) di Galgano, il nobile che piantò la sua arma in un sasso per cambiar vita e dedicarsi alla religione. Il parallelo - che salta all'occhio a qualunque spettatore di Disney - venne poi ripreso e anzi rinsaldato da studiosi e divulgatori successivi, soprattutto italiani, interessati ad accreditare una parentela tra il celeberrimo mito fondativo della Tavola Rotonda e il semi-sconosciuto culto locale toscano.
Ora un altro ricercatore (non medievista, bensì storico della cultura nell'età moderna), interviene a rendere a ognuno la sua legittima spada. Con tale intento Mario Arturo Iannaccone firma gli ultimi capitoli di un recente libro dedicato appunto a La spada e la roccia (Sugarco, pp. 240, euro 18,80), in cui la prima parte - dello storico della Chiesa Andrea Conti, senese - si occupa diffusamente di «San Galgano: la storia, le leggende». Iannaccone dunque, pur riconoscendo che «le due storie, arturiana e galganiana, sono pressocché coeve e presentano qualche tratto comune», non è affatto convinto dei legami o addirittura della dipendenza di una tradizione dall'altra. Per lui, «la storia recente dell'affratellamento di Galgano ad Artù sembra più che altro il prodotto di suggest ioni pop», e cerca di dimostrarlo ricorrendo a una vasta analisi delle fonti e dell'iconografia.
Anzitutto, fin dalla prima apparizione - nel roman medievale Merlino, attribuito a Robert de Boron (secolo XII) -, la durlindana di Artù è confitta in un'incudine, posata su un parallelepipedo di pietra; dunque non è affatto una «spada nella roccia», semmai «nel metallo»... Anche due secoli più tardi, nell'opera del poeta inglese Thomas Malory (dalla quale l'epoca moderna ha mutuato il mito arturiano), si parla di una «bella spada infissa in una sorta d'incudine d'acciaio», posta su un blocco di marmo (immagine, suggerisce Iannaccone, della «mediazione tra il divino - la roccia di Cristo, la Chiesa di Pietro - e l'umano - il lavoro dell'uomo», nonché della concordia tra potere spirituale e temporale).
In effetti, le miniature più antiche mostrano Artù, spesso inginocchiato, mentre estrae la spada da un'incudine, dove è inserita in posizione orizzontale («In questo modo veniva meglio indicato il rapporto d'origine che legava l'arma allo strumento del fabbro»). E l'immagine rimane identica fino a metà dell'Ottocento, quando nelle illustrazioni di libri per ragazzi il gesto arturiano smarrisce la sottigliezza dei significati simbolici precedenti e viene dipinto piuttosto come l'azione di un eroe vincente; di conseguenza l'incudine si trasforma in una pietra, anche per il prevalere della generica espressione idiomatica «spada nella roccia» sul rispetto per il dettato del racconto originale.
Le fonti su san Galgano invece (atti del processo di beatificazione e biografie che, tra l'altro, sono di poco successivi alla morte del protagonista, avvenuta nel 1181) parlano concordemente dell'infissione della spada in verticale nel terreno, a mo' di croce, nel luogo prescelto dall'ex cavaliere per l'eremitaggio. Niente roccia, dunque, neppure qui; o - almeno - fino a quando, durante un'assenza del proprietario, alcuni «invidiosi» spezzano la spada, per cui G algano si trova costretto a piantarla in una base più solida: la stessa dove sta ora, in un macigno del Monte Siepi. Anche qui l'iconografia più antica non sbaglia: la spada figura ritta nelle zolle erbose almeno per 140 anni, fino agli affreschi del XIV secolo e più in generale fino al '500.
Tali differenze - sottolinea Iannaccone - sono sottili ma inequivocabili. Nel ciclo bretone si pone cioè l'accento sul miracolo, come del resto è logico per un cantare «leggendario»; le fonti galganiane invece si vogliono riferire a un fatto storico, simbolico ma per nulla miracoloso. E se per ambedue i protagonisti il gesto della spada segna un cambiamento radicale di vita, per Artù l'arma è strumento dotato di potere divino che trasmette una consacrazione definita dall'alto, mentre nel caso di Galgano è il possessore stesso a conferire un significato religioso all'oggetto, attraverso un atto votivo di tradizione feudale.
I due atti sono opposti: il re conquista il simbolo della «compiutezza della formazione cavalleresca», il santo la rifiuta, «rinunciando ad essere un cavaliere nel mondo». Di più: nel ciclo bretone chi non riesce a impossessarsi della spada dimostra «immaturità spirituale», nel racconto toscano è il contrario. Detto con linguaggio da antropologia culturale: «L'estrazione messa in atto dai cavalieri arturiani e l'infissione esercitata da Galgano sono atti simili per gestualità, ma non omologhi».
Anche altre «presunte analogie» tra Bretagna e Toscana, sottolineate da alcuni studiosi per accreditare il rapporto tra i due «cicli», secondo Iannaccone sono «difficili da ipotizzare per la diversità sostanziale dei codici simbolici utilizzati e per la possibilità di spiegare le somiglianze in modo più semplice ed elegante»: per esempio i palallelismi tra il nome di Galgano e il cavaliere Galvano nipote di Artù, la madre vedova del futuro santo e la «Dama Vedova» genitrice di Parsifal, la «Rotonda» di Montesiepi dove si trova oggi la spada e la Tavola Rotonda, e c osì via.
Insomma, sarebbe inattendibile la pretesa di quanti - esoteristi in primis o addirittura massoni - vogliono trasformare la vicenda di Galgano in una sorta di «ripetizione» simbolica della leggenda di re Artù, sottraendo ogni valore storico alle fonti che testimoniano l'esperienza reale dell'eremita di Chiusdino. D'altra parte risulta improponibile anche il cammino inverso, ovvero la dipendenza dei miti bretoni dalla biografia del santo toscano, come proposto di recente da Mario Moiraghi ne L'enigma di san Galgano (Àncora). Se facciamo pasticci sul vero padrone di Excalibur - conclude Iannaccone - è perché «l'icona pop della spada nella roccia (arturiana, disneyana, hollywoodiana...) ha orientato le interpretazioni, le ha falsate ed esposte ad imbarazzanti malintesi». Potenza di Walt Disney.
Fu lo storico Franco Cardini, in un lavoro del 1982 su san Galgano (l'eremita del Senese ai cui luoghi, tra Chiusdino e Monte Siepi, accorrono migliaia di turisti), il primo a notare un'analogia tra la vicenda dell'ex cavaliere toscano e la «materia di Brettagna», secondo cui divenne re d'Inghilterra il solo capace di estrarre un gladio infisso nella pietra. Artù, insomma, potrebbe essere l'antenato (o il successore?) di Galgano, il nobile che piantò la sua arma in un sasso per cambiar vita e dedicarsi alla religione. Il parallelo - che salta all'occhio a qualunque spettatore di Disney - venne poi ripreso e anzi rinsaldato da studiosi e divulgatori successivi, soprattutto italiani, interessati ad accreditare una parentela tra il celeberrimo mito fondativo della Tavola Rotonda e il semi-sconosciuto culto locale toscano.
Ora un altro ricercatore (non medievista, bensì storico della cultura nell'età moderna), interviene a rendere a ognuno la sua legittima spada. Con tale intento Mario Arturo Iannaccone firma gli ultimi capitoli di un recente libro dedicato appunto a La spada e la roccia (Sugarco, pp. 240, euro 18,80), in cui la prima parte - dello storico della Chiesa Andrea Conti, senese - si occupa diffusamente di «San Galgano: la storia, le leggende». Iannaccone dunque, pur riconoscendo che «le due storie, arturiana e galganiana, sono pressocché coeve e presentano qualche tratto comune», non è affatto convinto dei legami o addirittura della dipendenza di una tradizione dall'altra. Per lui, «la storia recente dell'affratellamento di Galgano ad Artù sembra più che altro il prodotto di suggest ioni pop», e cerca di dimostrarlo ricorrendo a una vasta analisi delle fonti e dell'iconografia.
Anzitutto, fin dalla prima apparizione - nel roman medievale Merlino, attribuito a Robert de Boron (secolo XII) -, la durlindana di Artù è confitta in un'incudine, posata su un parallelepipedo di pietra; dunque non è affatto una «spada nella roccia», semmai «nel metallo»... Anche due secoli più tardi, nell'opera del poeta inglese Thomas Malory (dalla quale l'epoca moderna ha mutuato il mito arturiano), si parla di una «bella spada infissa in una sorta d'incudine d'acciaio», posta su un blocco di marmo (immagine, suggerisce Iannaccone, della «mediazione tra il divino - la roccia di Cristo, la Chiesa di Pietro - e l'umano - il lavoro dell'uomo», nonché della concordia tra potere spirituale e temporale).
In effetti, le miniature più antiche mostrano Artù, spesso inginocchiato, mentre estrae la spada da un'incudine, dove è inserita in posizione orizzontale («In questo modo veniva meglio indicato il rapporto d'origine che legava l'arma allo strumento del fabbro»). E l'immagine rimane identica fino a metà dell'Ottocento, quando nelle illustrazioni di libri per ragazzi il gesto arturiano smarrisce la sottigliezza dei significati simbolici precedenti e viene dipinto piuttosto come l'azione di un eroe vincente; di conseguenza l'incudine si trasforma in una pietra, anche per il prevalere della generica espressione idiomatica «spada nella roccia» sul rispetto per il dettato del racconto originale.
Le fonti su san Galgano invece (atti del processo di beatificazione e biografie che, tra l'altro, sono di poco successivi alla morte del protagonista, avvenuta nel 1181) parlano concordemente dell'infissione della spada in verticale nel terreno, a mo' di croce, nel luogo prescelto dall'ex cavaliere per l'eremitaggio. Niente roccia, dunque, neppure qui; o - almeno - fino a quando, durante un'assenza del proprietario, alcuni «invidiosi» spezzano la spada, per cui G algano si trova costretto a piantarla in una base più solida: la stessa dove sta ora, in un macigno del Monte Siepi. Anche qui l'iconografia più antica non sbaglia: la spada figura ritta nelle zolle erbose almeno per 140 anni, fino agli affreschi del XIV secolo e più in generale fino al '500.
Tali differenze - sottolinea Iannaccone - sono sottili ma inequivocabili. Nel ciclo bretone si pone cioè l'accento sul miracolo, come del resto è logico per un cantare «leggendario»; le fonti galganiane invece si vogliono riferire a un fatto storico, simbolico ma per nulla miracoloso. E se per ambedue i protagonisti il gesto della spada segna un cambiamento radicale di vita, per Artù l'arma è strumento dotato di potere divino che trasmette una consacrazione definita dall'alto, mentre nel caso di Galgano è il possessore stesso a conferire un significato religioso all'oggetto, attraverso un atto votivo di tradizione feudale.
I due atti sono opposti: il re conquista il simbolo della «compiutezza della formazione cavalleresca», il santo la rifiuta, «rinunciando ad essere un cavaliere nel mondo». Di più: nel ciclo bretone chi non riesce a impossessarsi della spada dimostra «immaturità spirituale», nel racconto toscano è il contrario. Detto con linguaggio da antropologia culturale: «L'estrazione messa in atto dai cavalieri arturiani e l'infissione esercitata da Galgano sono atti simili per gestualità, ma non omologhi».
Anche altre «presunte analogie» tra Bretagna e Toscana, sottolineate da alcuni studiosi per accreditare il rapporto tra i due «cicli», secondo Iannaccone sono «difficili da ipotizzare per la diversità sostanziale dei codici simbolici utilizzati e per la possibilità di spiegare le somiglianze in modo più semplice ed elegante»: per esempio i palallelismi tra il nome di Galgano e il cavaliere Galvano nipote di Artù, la madre vedova del futuro santo e la «Dama Vedova» genitrice di Parsifal, la «Rotonda» di Montesiepi dove si trova oggi la spada e la Tavola Rotonda, e c osì via.
Insomma, sarebbe inattendibile la pretesa di quanti - esoteristi in primis o addirittura massoni - vogliono trasformare la vicenda di Galgano in una sorta di «ripetizione» simbolica della leggenda di re Artù, sottraendo ogni valore storico alle fonti che testimoniano l'esperienza reale dell'eremita di Chiusdino. D'altra parte risulta improponibile anche il cammino inverso, ovvero la dipendenza dei miti bretoni dalla biografia del santo toscano, come proposto di recente da Mario Moiraghi ne L'enigma di san Galgano (Àncora). Se facciamo pasticci sul vero padrone di Excalibur - conclude Iannaccone - è perché «l'icona pop della spada nella roccia (arturiana, disneyana, hollywoodiana...) ha orientato le interpretazioni, le ha falsate ed esposte ad imbarazzanti malintesi». Potenza di Walt Disney.
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