30/05/17

Il Bestiario del Papa

Negli ultimi decenni la ricerca storiografica ha compiuto notevoli passi in avanti nell’analisi della ricca simbologia degli animali in relazione al papato. Un contributo determinante in questa direzione è stato offerto dagli studiosi italiani, tra i quali occupa un posto di rilievo Agostino Paravicini Bagliani, autore del recente Il bestiario del papa (Torino, Einaudi, 2016, pagine 378, euro 32), in cui attraverso la rilettura di un ampio ventaglio di fonti testuali e iconografiche esplora il rapporto simbolico e metaforico che unisce papato e animali tra medioevo ed età moderna. 
Il lettore è accompagnato in un percorso strutturato in tre parti. Nella prima ci si occupa di due figure la cui connotazione simbolica pare essere molto antica, come la colomba e il drago, mentre nella seconda si prendono in considerazione gli animali tradizionalmente legati all’autorappresentazione del ruolo dei Pontefici, il cavallo e l’elefante su tutti. La terza, infine, è dedicata al rovesciamento parodico e polemico subito da alcuni di questi simboli tanto nelle cosiddette profezie papali quanto nelle satire nate in ambito protestante.
Curiosa e forse poco nota è la storia del pappagallo, le cui origini risalgono all’xi secolo. In una delle Vitae di Leone ix, attribuita a Guiberto di Toul, si racconta che un certo “rex Dalamarcie” — forse identificabile con Stefano i re di Croazia e di Dalmazia — inviò al Papa in dono un pappagallo, in grado non soltanto di ripetere la frase «vado dal Papa», ma anche di chiamarlo per nome.
E questo senza che nessuno glielo avesse insegnato. Quando il Papa rientrava nel suo appartamento privato, la compagnia del pappagallo lo rincuorava e lo confortava, dandogli sollievo rispetto alle gravose preoccupazioni quotidiane.
Se è difficile rintracciare un antecedente storico in cui sia assegnata al pappagallo la funzione di consolare l’uomo, nella letteratura latina esistono invece esempi in cui gli è riconosciuta la capacità di annunciare personaggi di rango: Marziale celebra l’abilità del volatile nel salutare l’imperatore e Macrobio narra che Augusto, dopo la battaglia di Azio, acquistò un corvo e un pappagallo che l’avevano acclamato vincitore e imperator.
Stando a una cronaca del X secolo, persino l’imperatore di Bisanzio era solito farsi accompagnare a banchetti e cerimonie ufficiali da un pappagallo. Con l’alto Medioevo l’eloquenza di questo animale diventa oggetto di elogi anche in ambiente cristiano: Teodolfo di Orléans, abate di Fleury, lo ritiene in grado di rivaleggiare con le muse di Omero e l’anonimo monaco autore dell’Ecbasis captivi, una parodia epica sul mondo animale, paragona la voce del pappagallo alla melodia dell’arpa di Davide.
Nella Roma papale il pappagallo fa la sua comparsa intorno al 1280 negli affreschi dell’ala del Palazzo apostolico fatta costruire e decorare da Niccolò III e che poi prenderà il nome di Sala vecchia degli Svizzeri. Con Bonifacio VIII l’utilizzo del pappagallo come motivo decorativo si intensifica, tanto che in alcuni pregiati tessuti in seta di Lucca il suo stemma è rappresentato tra pappagalli verdi e l’animale si ritrova in molti paramenti da lui donati alla cattedrale di Anagni, sua città natale. All’inizio del Quattrocento si ha per la prima volta notizia di una sala del pappagallo nel Palazzo apostolico, in cui il Papa riuniva i cardinali in concistoro, si preparava prima di partecipare a cerimonie solenni, riceveva principi e sovrani e impartiva benedizioni.
La funzione del pappagallo rinvia dunque a gesti e rituali di sovranità, che hanno lo scopo di separare la sfera privata da quella pubblica. Sarà con Leone X che questo simbolismo raggiungerà il suo apogeo: basti pensare alla rappresentazione sulla porta della sala del pappagallo, opera di Raffaello e della sua scuola, in cui Giovanni Battista ha lo sguardo rivolto verso un piccolo pappagallo sudamericano. Si tratta evidentemente di un riferimento al Papa come rappresentante di Cristo sulla terra.
A Leone X si deve non solo l’istituzione di un vero e proprio serraglio nel cortile del Belvedere, ma anche l’introduzione alla corte papale di un elefante bianco, dono del re del Portogallo Manuele I. Sbarcato a Roma dopo un avventuroso viaggio in nave, accompagnato da un ammaestratore indiano e un custode saraceno, il pachiderma restò per lungo tempo impresso nella memoria dei romani per la sua bellezza e maestosità.
Il Papa era particolarmente attento all’incolumità di Annone — questo è il nome che fu assegnato all’elefante — e per non procurargli danni alle zampe si rifiutò di inviarlo alla corte medicea di Firenze e presso il re di Francia in visita a Bologna. Se il pappagallo e l’elefante possono apparire animali esotici, un quadro più intimo e familiare ci giunge da Musetta, la cagnolina di Pio II.
Secondo la testimonianza dello stesso Enea Silvio Piccolomini nei suoi Commentarii, la cucciola amava mettersi nei guai. Un giorno, mentre il Papa era impegnato in giardino ad ascoltare delle ambascerie, cadde in una cisterna e fu tratta in salvo con difficoltà; l’indomani fu morsa da un grosso cercopiteco, che la lasciò in fin di vita. Musetta morì una decina di giorni dopo cadendo da una finestra della residenza papale e Pio II trasse spunto dalla sua storia per richiamare, con un efficace exemplum, alla virtù della prudenza. 
di Giovanni Cerro

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