di Antonello
Colimberti
“Rovesciare Platone” era quanto, non molti
anni fa, proponevano, o insinuavano filosofi allora di primo piano come Michel
Foucault e Gilles Deleuze. Oggi, malgrado qualche attardato filosofo detto
“postmoderno”, si rende forse necessario un “rovesciamento del rovesciamento”,
tale da riproporre il grande pensatore greco al centro di ogni riflessione che
non voglia esaurirsi nel puro contingente.
Non stiamo però parlando della pur notevole
“Scuola di Tubinga”, diffusa nel nostro paese da Giovanni Reale, che ha portato
l’attenzione sulle dottrine non scritte e quindi sul Platone orale ed
esoterico, bensì di un gigante del secolo scorso, che solo a partire dagli
ultimi anni, a seguito dell’apertura degli archivi del Kgb, sta conoscendo la
risonanza mondiale che gli spetta.
Il nome in questione è quello di Pavel
Florenskij, filosofo, scienziato, sacerdote e teologo russo, nato nel 1882 e
morto fucilato nel lager delle isole Solovki per ordine del regime sovietico
nel 1937.
L’occasione di tornare a parlarne e
soprattutto a leggerlo viene dalla fresca pubblicazione di un aureo libretto
intitolato Realtà e Mistero. Le radici universali dell’idealismo e la
filosofia del nome (Edizioni SE), nel quale Natalino Valentini, il nostro
massimo esegeta florenskiano, ha raccolto due testi inediti di particolare
valore (traduzione di Claudia Zonghetti).
Il primo, Le radici universali
dell’idealismo, è il testo di un relazione tenuta il 17 settembre 1908
all’Accademia Teologica di Mosca. La lettura del pensatore russo è
sorprendente: la prospettiva platonica, lungi dall’essere quella dottrina di pura
astrazione che la vulgata, scolastica e non, ha continuato e continua a
ripetere, appare come la più aderente alla percezione spontanea del popolo,
anzi la più vicina alla sapienza della cultura contadina.
Qui il sacerdote ortodosso russo Florenskij incontra,
anticipandolo, il gesuita cattolico francese Marcel Jousse, che poco più di un
decennio dopo inaugurerà una lunga ricerca sull’Antropologia del Gesto e sulla
figura del Gesù Contadino (Rabbi Yeshũa Paysan). Non minore stupore
desta il secondo testo, Il nome di Dio, scritto nel 1921, nel quale il
pensatore russo elabora una vera e propria filosofia del Nome, in precisa
corrispondenza e continuazione con il pensiero medievale di Gregorio Palamas e
della tradizione esicasta (si pensi alla pratica della Preghiera-di-Gesù). Ben
lungi dalla riduzione a puro strumento convenzionale, la teoria del linguaggio
florenskiana afferma la parola, al pari dell’icona, come simbolo attraverso cui
l’energia-luce del mondo invisibile irrompe nel mondo visibile.
Insomma, due rari testi di invito ad una
conoscenza “altra” e perenne, come sottolineato nell’impeccabile postfazione di
Valentini intitolata “Le radici del comune sentire. La filosofia dei popoli e
del nome”.
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