17/02/14

Platone spiegato da Florenskij

di Antonello Colimberti

“Rovesciare Platone” era quanto, non molti anni fa, proponevano, o insinuavano filosofi allora di primo piano come Michel Foucault e Gilles Deleuze. Oggi, malgrado qualche attardato filosofo detto “postmoderno”, si rende forse necessario un “rovesciamento del rovesciamento”, tale da riproporre il grande pensatore greco al centro di ogni riflessione che non voglia esaurirsi nel puro contingente.
Non stiamo però parlando della pur notevole “Scuola di Tubinga”, diffusa nel nostro paese da Giovanni Reale, che ha portato l’attenzione sulle dottrine non scritte e quindi sul Platone orale ed esoterico, bensì di un gigante del secolo scorso, che solo a partire dagli ultimi anni, a seguito dell’apertura degli archivi del Kgb, sta conoscendo la risonanza mondiale che gli spetta.
Il nome in questione è quello di Pavel Florenskij, filosofo, scienziato, sacerdote e teologo russo, nato nel 1882 e morto fucilato nel lager delle isole Solovki per ordine del regime sovietico nel 1937.
L’occasione di tornare a parlarne e soprattutto a leggerlo viene dalla fresca pubblicazione di un aureo libretto intitolato Realtà e Mistero. Le radici universali dell’idealismo e la filosofia del nome (Edizioni SE), nel quale Natalino Valentini, il nostro massimo esegeta florenskiano, ha raccolto due testi inediti di particolare valore (traduzione di Claudia Zonghetti).
Il primo, Le radici universali dell’idealismo, è il testo di un relazione tenuta il 17 settembre 1908 all’Accademia Teologica di Mosca. La lettura del pensatore russo è sorprendente: la prospettiva platonica, lungi dall’essere quella dottrina di pura astrazione che la vulgata, scolastica e non, ha continuato e continua a ripetere, appare come la più aderente alla percezione spontanea del popolo, anzi la più vicina alla sapienza della cultura contadina.
Qui il sacerdote ortodosso russo Florenskij incontra, anticipandolo, il gesuita cattolico francese Marcel Jousse, che poco più di un decennio dopo inaugurerà una lunga ricerca sull’Antropologia del Gesto e sulla figura del Gesù Contadino (Rabbi Yeshũa Paysan). Non minore stupore desta il secondo testo, Il nome di Dio, scritto nel 1921, nel quale il pensatore russo elabora una vera e propria filosofia del Nome, in precisa corrispondenza e continuazione con il pensiero medievale di Gregorio Palamas e della tradizione esicasta (si pensi alla pratica della Preghiera-di-Gesù). Ben lungi dalla riduzione a puro strumento convenzionale, la teoria del linguaggio florenskiana afferma la parola, al pari dell’icona, come simbolo attraverso cui l’energia-luce del mondo invisibile irrompe nel mondo visibile.
Insomma, due rari testi di invito ad una conoscenza “altra” e perenne, come sottolineato nell’impeccabile postfazione di Valentini intitolata “Le radici del comune sentire. La filosofia dei popoli e del nome”.

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