Sergio Panunzio (1886 –1944)
Nella tradizione politica italiana la coniugazione
dei termini popolo e nazione è stata un’eterna costante. La speciale idea di
democrazia che si era fatta largo in epoca moderna non aveva nulla
dell’oligarchismo parlamentarista di provenienza anglosassone e puritana. E
neppure aveva nulla a che spartire con il millenarismo classista di Marx e con
il suo elogio del progresso cosmopolita. Al contrario, almeno da Mazzini in
poi, si ha da noi il convincimento che per democrazia debba intendersi la
mobilitazione di tutto il popolo, oltre le classi e gli interessi, e il suo
inserimento nel circuito decisionista attraverso il meccanismo delle appartenenze
sociali entro la cornice nazionale. Come dire: il lavoro e la sua possibilità
di uscire dalla gestione economica per entrare in quella politica. Il che
significava la guida del popolo affidata alle sue aristocrazie politiche
espresse dalla competenza tecnica. E in questo noi vediamo facilmente
l’anticipazione di molto corporativismo, ad esempio nel senso di un Ugo
Spirito. Il Sindacalismo Rivoluzionario nacque in questa prospettiva. E la
storia del socialismo non marxista ne è la conferma. La mobilitazione morale,
la promozione di una cultura politica popolare e la lotta contro il classismo
furono tappe essenziali di quel movimento di liberazione delle energie davvero
democratiche e davvero popolari che si presentò al crocevia storico del 1914
come il più vitale e il più attivo. Bloccato il socialismo riformista nelle sue
derive fatalistiche, screditato quello massimalista e marxista dalla sua
impotenza anche solo a concepire una via rivoluzionaria, in Italia gli unici
versanti mobilitatori e innovativi, capaci di intendere la politica mondiale e
le possibilità della storia, furono il Nazionalismo imperialista e il
Sindacalismo Rivoluzionario.
Possiamo
dire che quando, intorno al 1911, Angelo Oliviero Olivetti affermava che
sindacalismo e nazionalismo si presentavano come “dottrine di energia e di
volontà”, essendo le due uniche “tendenze aristocratiche” in un mondo già
livellatore, e che insieme esprimevano “il culto dell’eroico che vogliono far
rivivere in mezzo a una società di borsisti e di droghieri”, le fondamenta di
un diverso modo di concepire la politica erano già gettate. Questa via
politica, in realtà, più che nuova, era proprio rivoluzionaria rispetto alla
tradizione ottocentesca legata agli schieramenti di classe, e lo era anche nei
confronti della politica del Novecento, tutta di nuovo incentrata - dal
marxismo al liberalismo - sulla concezione antagonista tra i ceti e gli
interessi, che era tipica del classismo tanto di vertice (liberale) quanto di
base (marxista). La percezione che il criterio dell’appartenenza è dato dal
valore di legame culturale e bio-storico, anziché dal profitto e dal salario,
fu un rovesciamento delle categorie mentali del borghesismo, rifiutate nel loro
insieme, come brutale negazione dell’identità profonda, quella geo-storica. Ben
più significante di quella superficiale, occasionale e mutevole che deriva
dalla mera collocazione sociale.
L’aver
scoperto che tra le masse e le oligarchie esiste uno spazio destinale che
entrambe le ricomprende sotto il nome di popolo è il maggior titolo ideologico
del Sindacalismo Rivoluzionario italiano.
Di fronte ai ricorrenti tentativi di sottrarre il
Sindacalismo Rivoluzionario a questo suo destino ideologico - tentativi intesi
soprattutto a sganciarlo dall’eredità fascista, presentata ogni volta come
incongrua e manipolatoria, secondo le note mistificazioni di certa storiografia
contemporanea - noi non possiamo che far parlare gli ideali, i progetti e le
intuizioni di una classe dirigente sindacalrivoluzionaria che procedette
diritto lungo un unico crinale: concezione organicistica della società,
precedenza del fattore comunitario su quello individualistico e settario,
sindacato come aggregazione più politica che economica, messa in valore della
lotta e persino della guerra esterna come essenziali momenti di potenziamento
del popolo, in quanto blocco unitario di volontà e più precisamente di volontà
politica. E, non da ultimo, netta presa di coscienza che il rivoluzionamento
degli assetti sociali liberali e conservatori lo si poteva ottenere non con
rivendicazioni settorialistiche vetero-sindacali, ma con drammaturgie popolari
ad alta intensità coinvolgente. In altre parole, con una cultura politica
fortemente mobilitante, alla maniera del “mito” soreliano. Ciò che ai
sindacalisti rivoluzionari fece riconoscere la Prima guerra mondiale per quello
che era: l’occasione storica per abbattere l’oligarchia liberale e per dare
avvìo alla coscienza popolare di massa, attivata attraverso la tragica
compartecipazione al dramma collettivo di una crescita “spengleriana”, per così
dire. Ottenuta cioè per mutazioni traumatiche, per scatti rivoluzionari: la
guerra nazionale come azione rivoluzionaria di massa, appunto. Qualcosa di
molto diverso dai blandi riformismi, che in regime liberale sono facilmente gestibili,
al solito, dalle caste borghesi paternaliste.
Una concezione del mondo fondata sul riconoscimento
del trauma epocale come punto di rottura e apertura degli spazi del
rovesciamento: questa la virtù rivoluzionaria dei sindacalisti rivoluzionari, che
nel riconoscere la Nazione in altro modo rispetto al patriottismo conservatore
borghese, in modo popolare e sociale, riconobbero il valore politico del
Novecento, cioè la comunità di popolo mobilitata attorno a simboli e traguardi
di valore sociale, politico e metapolitico, non occasionali ma macrostorici.
La macrostoria è difatti lo scenario del
Sindacalismo Rivoluzionario, più di quanto la rivendicazione salariale
contrattata coi potentati industriali non fosse invece l’umile terreno del
sindacalismo socialista, microstorico a dispetto dei suoi sogni palingenetici,
e incapace, al momento buono, di interpretare i segni del cambiamento epocale.
Come accadde puntualmente nel 1914, quando i gestori socialisti del
“risentimento di classe” proletario consegnarono alla sconfitta storica proprio
quelle masse operaie che avrebbero inteso condurre al riscatto, contrattando
scaglie di paternalismo con il padronato, anziché verificare la possibilità di
liquidare la casta al potere costruendo un’avanguardia aristocratica aperta non
al popolo, ma a tutto il popolo.
Sia Georges Sorel che Arturo Labriola Labriola
ebbero modo di notare che il sindacalismo socialista aveva una scarsa
propensione alla lotta e che quasi quasi la borghesia, o per lo meno certi suoi
settori, dimostravano negli anni precedenti la Prima guerra mondiale una
capacità dinamica maggiore, un decisionismo più libero. La storia del
sindacalismo socialista prima e socialcomunista poi è una storia di
sottomissione al padronato capitalistico e di rassegnazione alla subalternità,
di assenza di strategia e di semplice tattica di retroguardia. In questo
ambito, il Sindacalismo Rivoluzionario presentava una ben maggiore capacità di
verificare le possibilità della storia. E sua fu l’unica volontà massimalista
davvero all’opera allora in Italia. Quando poi si attuò la saldatura tra
coscienza di popolo e coscienza di nazione, l’Italia si trovò all’avanguardia europea
di tutte le rivendicazioni: politiche, sociali e storiche. Fu in questo modo
dimostrato che la vera politica sociale era quella della nazione e non quella
della classe.
Come hanno dimostrato gli storici, c’erano settori
dominanti del Sindacalismo Rivoluzionario in cui il nazionalismo non solo era
distinto dal patriottismo di classe del borghesismo, ma era giudicato come lo
strumento migliore per creare, con i vincoli di un’appartenenza ribadita come
identità di rilievo mondiale, le condizioni per scuotere le oligarchie
plutocratiche e per ottenere il risveglio delle masse: non secondo principi
universali astratti, ma secondo principi territoriali realistici. Un popolo e
il suo territorio, un popolo e i suoi diritti alla vita, un popolo e la sua
determinazione a imporsi nella lotta mondiale: questa la scena della maggiore
rivendicazione possibile. In uno scritto apparso sul foglio “L’internazionale”
del luglio 1911, in occasione della polemica circa la guerra di Libia, ad
esempio, troviamo sanciti in maniera straordinariamente chiara i contorni di
una maturazione politica che allora e ancor più in seguito mancò del tutto sia
al socialismo sia al socialcomunismo: il valore-nazione come strumento di
liberazione dalla prigione della classe. Il parere di un operaio
intellettualizzato, Agostino Gregori, era il seguente: il nazionalismo è il
“fatto nuovo”, destinato a segnare una fase storica nel movimento politico ed
economico del nostro paese. Potrebbe anche darsi che il proletariato debba a
questo movimento lo scatto violento di tutte le sue energie che lo porterebbero
alla conquista della propria emancipazione, alla rivendicazione di tutti i suoi
diritti prima ancora di quanto noi pensiamo e speriamo.
Si faccia attenzione a come qui si parli di “tutti i
diritti” del popolo lavoratore, e non solo di quelli sindacali o retributivi.
“Tutti i diritti” significa che tramite il nazionalismo il proletariato accede
anche alla “cultura borghese”, alla nazione, alla patria e alla guerra di
classe internazionale: l’imperialismo. Affermazioni come questa sono tipiche di
un sostrato rivoluzionario antimarxista e veramente popolare, cioè nazionale,
ben vivo nel sottotraccia politico dell’epoca che incubò il Fascismo, e bene in
grado di comprendere che una politica popolare di vertice era possibile
svolgerla unicamente impossessandosi dei diritti del popolo usurpati dalla
borghesia. Togliere dalle mani della borghesia la nazione e lo stesso
imperialismo - come ad esempio faceva Corradini - significava sostituire alle
oligarchie del denaro le aristocrazie di comando della politica, attinte
dall’intero bacino del popolo. E queste, a differenza di quelle, provenivano da
tutto il popolo, erano tutto il popolo, e non soltanto la sua minoranza
capitalista o la sua minoranza operaista: l’una e l’altra, se prese
isolatamente, ugualmente dedite all’esclusivo calcolo utilitario di classe.
Questo è il lontano antefatto di accadimenti di
solito trascurati dalla storiografia, ma che sono centrali in un’analisi del
valore storico dell’idea italiana di democrazia di popolo. Questo è il lontano
antecedente, per fare un esempio, del fatto che durante la Repubblica Sociale
si poté avere un ministro direttamente espresso non dalla cultura sindacalista,
non dall’intellettualità borghese di nominale militanza filo-proletaria, non
dalla nomenclatura di questo o quel partito, ma dalla fabbrica e dalla
militanza di base: l’operaio Giuseppe Spinelli, ultimo Ministro del Lavoro
della RSI.
Il passaggio dal Sindacalismo Rivoluzionario al
sindacalismo nazionale non fu che la sintesi storica di un procedimento
naturale e spontaneo. Una volta che si era riconosciuta la contiguità tra lotta
di popolo e guerra rivoluzionaria, si erano anche stabilite le coordinate
dell’organicismo. Se pensiamo ad esempio al comunalismo di un Alceste De
Ambris, incentrato sulle identità ancestrali della territorialità locale, sulla
tradizione e sulla consuetudine della comunità di villaggio, noi vediamo che è
su questo punto che avverranno le più larghe convergenze proprio tra il Fascismo
e questa ideologia della tradizione rivoluzionaria. Fu infatti proprio il
Fascismo, per altri versi accentratore e “prefettizio”, il Fascismo
“liberticida”, totalitario e politicamente “assolutista” che favorì, senza
alcuna contraddizione nel far convivere l’assoluto del Centro con il relativo
della periferia, quella straordinaria operazione di recupero della cultura
popolare in epoca moderna che fu la rinascita fascista delle piccole patrie.
Regioni, borghi, feste e associazionismi paesani, ataviche memorie condivise e
realtà locali di antico prestigio sociale ebbero sanzione di sovrana autorità
identitaria, convivendo entro la cornice della Nazione, che tutto questo
comprendeva armonicamente. Questa singolare inquadratura di eguale sincronismo
tra arcaismo e modernità seppe conferire alle identità locali quel respiro di
integrazione nel più ampio quadro dell’identità nazionale, che non è mai
esistito né nel comunismo - che è stato sempre violentemente ostile al
tradizionalismo rurale e urbano - né nel liberalismo, per natura nemico dei
radicamenti e favorevole agli universalismi.
Il Sindacalismo Rivoluzionario italiano, oltre che
terreno di lotta sociale e politica nel nome del popolo emarginato, da
ricondurre entro l’alveo nazionale con nuovi titoli di nobiltà sociale, è stato
infatti anche e soprattutto strumento rivoluzionario-conservatore
dell’identità. In esso, la modernità della società sviluppata e massificata
veniva coniugata al riconoscimento che il nesso radicale tra uomo e suolo, tra
lavoratore e identità geo-storica, tra ceppo ancestrale e luogo fisico della
convivenza, è ineliminabile, è anzi da rafforzare contro ogni cosmopolitismo.
La
risoluzione di riconoscere prima nella guerra coloniale del 1911-12 e poi in
quella nazionale del 1915-18 una rivoluzionaria guerra di popolo di portata
politica, sociale e identitaria decisiva, mostra che il Sindacalismo
Rivoluzionario, affiancando il Nazionalismo nella lotta interventista, non ebbe
nulla a che spartire con le logiche classiste liberali e marxiste, ma ne
costituì l’esatto contraltare.
Quando, nel 1935, Arturo Labriola riconobbe nella
guerra d’Africa davvero l’attesa pagina di riscatto popolare attraverso
l’imperialismo contadino di un’intera nazione, mise un chiaro sigillo
ideologico sull’intero movimento del sindacalismo politico. Questa sua finale
ammissione dei titoli storici del Fascismo a interpretare i diritti del lavoro,
fu una ben più centrata analisi che non quella operata dal “famoso”
sindacalismo rivoluzionario parmense che, pur interventista nel 1914, volle nel
1922 sbagliare la sua diagnosi storica: volle vedere nello squadrismo non
l’insurrezione armata del popolo, ma il braccio dell’Agraria, indotto in questo
errore da coincidenze locali, da propagande reazionarie, da miopie di piccoli
capi, mancando di coglierne il più vasto significato storico: che per la prima
volta, in Italia, il popolo della campagna, quello del bracciantato, quello del
sobborgo, quello dell’artigianato impoverito, quello minuto degli antichi
centri storici urbani - insomma, proprio il popolo deambrisiano del comunalismo
- prendeva le armi contro un’autorità massonica, oligarchica e reazionaria e
portava al potere un suo capo. Prevalse dunque in quel caso un malconcepito
afflato “libertarista” che non fu mai patrimonio del vero Sindacalismo
Rivoluzionario, ma cascame anarco-repubblicano, “azionista” ante-litteram. Ma
quella di Parma sindacalista che fece le barricate contro l’insurrezione
squadristica - modesto episodio ostentato dalla storiografia di parte come
l’unico trofeo antifascista del Sindacalismo Rivoluzionario, e che invece fu un
chiaro attestato della retroguardia in cui si dibatteva tanta “sinistra”
italiana dell’epoca - fu scheggia a sé, in nulla rappresentativa dell’intero
movimento. Basti dire che il Sindacalismo Rivoluzionario fornì al Fascismo
l’ossatura storica del suo sindacalismo e del suo corporativismo: Michele
Bianchi, Edmondo Rossoni, Cesare Rossi, Massimo Rocca, Umberto Pasella, Ottavio
Dinale, Paolo Orano, Agostino Lanzillo…e può bastare così. E che inoltre fornì,
attraverso l’elaborazione del socialismo giuridico, la pietra d’angolo del
regime sociale di massa gerarchico e popolare.
Ma il senso storico centrale del Sindacalismo
Rivoluzionario è ancora un altro. E’ l’idea propriamente corporativa che
l’associazionismo di popolo è la trama sociale su cui una nazione si regge, è
il basamento su cui viene eretto un sistema aperto all’accesso dei migliori al
potere, è l’organo vivo le cui cellule dinamiche sono attivate dalla
partecipazione, dalla mobilità verso l’alto, dal decisionismo politico e da un
solidarismo doppiamente efficace: quello di ordine sociale e quello di identità
nazionale. Senza il Sindacalismo Rivoluzionario, il pensiero politico italiano
non avrebbe conosciuto, ad esempio, il fenomeno del sindacalismo nazionale. Che
può essere ben espresso da quanto Sergio Panunzio affermava circa l’organicismo
sindacalista, anima di una “socializzazione dell’uomo” che avrebbe
definitivamente desertificato il terreno su cui vigoreggiano i liberismi del
profitto privato.
Il sindacato operaio può essere la risposta al
solidarismo borghese solo in regime di spaccature liberali. Il sindacalismo
operaio, in uno Stato organicista, svolge invece, come qualunque altro rango
sociale o Stand - intellettuale, di mestiere, di professione, di servizio -, il
ruolo di elemento politico di selezione dei migliori, attingendo da una base
popolare che né il liberalismo né lo stesso bolscevismo considerarono mai come
effettivo bacino dell’élite di comando: l’intera popolazione nazionale. Lo
Stato sindacale non è, in questo senso, che il bastione di una conservazione
rivoluzionaria, all’interno della quale la raccolta del lavoratore in
associazione non solo economica, ma soprattutto politica, ha lo stesso arcaico
sapore delle antiche corporazioni, delle antiche compagnie dei mestieri, delle
fraglie artigiane, dei sodalizi di artieri. Storicamente, tutti questi momenti
dell’ordinamento per ranghi di onore sociale sono luoghi in cui il solidarismo
non è propaganda umanitaria e mondialista, né organismo di protezione economica
di settori più o meno privilegiati, ma vita vissuta quotidianamente accanto a
chi condivide il proprio spazio geo-storico e lotta per un medesimo destino.
di Luca Leonello Rimbotti –