di Massimo Introvigne
A funerali avvenuti, come desiderava, è stata data notizia della morte,
avvenuta il 7 dicembre 2012, di Gilbert Durand (1921-2012), uno dei più
grandi antropologi del secolo XX. Se mi è concesso partire da un ricordo
personale, la pubblicazione in italiano nel 1972 della sua opera principale,
«Le strutture antropologiche dell’immaginario» (Dedalo, Bari) – mentre
l’edizione francese risaliva al 1960 – fu per me una vera rivelazione, e per
certi versi perfino una liberazione. Un grande accademico, in un certo senso,
«sdoganava» tutto il discorso sui miti e sui simboli, mostrando che si trattava
di oggetti assolutamente legittimi dello studio e del sapere universitario, e
che le scienze umane – cui cominciavo ad accostarmi, terminando il liceo – non
dovevano limitarsi a considerare l’uomo nella sua dimensione di lavoratore,
produttore e consumatore ma potevano e dovevano studiare anche le sue
dimensioni simboliche, religiose, mistiche.
Si capisce difficilmente Durand – lo
affermava volentieri lui stesso – se si trascurano le sue origini savoiarde,
l’amore per la regione di origine, la montagna, la neve – che, nella sua
valenza simbolica, è oggetto dei suoi primi studi –, il legame con la capitale
della Savoia, Chambéry, dove inizia la sua carriera come professore di liceo
dopo avere studiato filosofia e avere partecipato attivamente alla resistenza
anti-nazista. Dopo la guerra decide di completare gli studi a Parigi, dove ha
l’incontro decisivo con il filosofo Gaston Bachelard (1884-1962), il primo che
– in una Sorbona ancora molto sospettosa – comincia a studiare l’immaginario e
i simboli, articolati intorno ai quattro elementi classici terra, aria, acqua e
fuoco, sebbene con un accostamento ancora ampiamente condizionato dal
positivismo e dalla psicanalisi freudiana che il suo allievo Durand tenterà più
tardi di superare.
Con l’università Durand ha sempre avuto
un rapporto ambivalente. Con molta riluttanza nel 1956 lascia il liceo di
Chambéry – di cui affermerà sempre di avere i migliori ricordi – per accettare
– pur essendo laureato in filosofia – una cattedra di sociologia all’Università
di Grenoble II. Studia coscienziosamente i sociologi del XIX e del XX secolo,
ma si rende conto rapidamente che nel mondo della sociologia accademica
francese non c’è spazio per quanto comincia soprattutto a interessarlo, lo
studio dei simboli e dei miti, appreso da Bachelard e approfondito anche al di
là dell’Occidente e dell’Europa dopo avere incontrato a Parigi Roger Bastide
(1898-1974), uno dei contro-relatori della sua tesi di dottorato, un grande
studioso delle religioni afro-brasiliane che per primo gli fa conoscere il
metodo antropologico. All’insegnamento della sociologia Durand affianca così,
sempre a Grenoble, quello dell’antropologia, ed è come antropologo che pubblica
nel 1960 «Le strutture antropologiche dell’immaginario», un’opera che gli
assicura una fama mondiale, e fonda nel 1966 il Centro di ricerche
sull’immaginario, nucleo della cosiddetta «scuola di Grenoble».
Durand ha sempre presentato come
fondamentale per il suo pensiero l’incontro con lo studioso dell’islam Henri
Corbin (1903-1978), che a sua volta lo presenta allo storico delle religioni
Mircea Eliade (1907-1986) e lo introduce nel Circolo di Eranos, un cenacolo di
studio delle mitologie di tutti i tempi e Paesi che si riunisce ad Ascona e
dove ha avuto un ruolo centrale lo psicanalista Carl Gustav Jung (1875-1961),
che peraltro nel momento in cui Durand entra nel circolo è già morto. Lo stesso
incontro con Corbin avviene due anni dopo la pubblicazione de «Le strutture
antropologiche dell’immaginario», un libro rispetto al quale le opere
successive di Durand mostrano maggiori aperture verso forme simboliche non
occidentali, specie dopo il matrimonio con l’allieva cinese Chaoying Sun, che
lo spinge a studiare il ricchissimo patrimonio di miti e simboli della Cina.
La sociologia e l’antropologia
accademiche accettano Durand con molte difficoltà, ed egli mantiene sempre un
suo ambito di lavoro indipendente che prescinde dall’università. Con molta
prudenza, com’è d’obbligo per l’antropologia del suo tempo, Durand ha cura di
partire sempre da un dato biologico, la struttura del cervello umano, ed è anzi
fra i pochi ad approfondire le ricerche della scuola di riflessologia di
Leningrado fondata dallo psichiatra Vladimir Michajlovi? Bechterev (1857-1927),
scomparso in circostanze misteriose dopo avere diagnosticato una sindrome
paranoica al suo illustre paziente Iosif Stalin (1879-1953) e studioso di
rilievo internazionale, anche se è passato alla storia soprattutto per
l’affermazione iperbolica secondo cui «solo in due conoscono il mistero della
struttura ed organizzazione del cervello: Dio e Bechterev».
Ma, benché parta dall’anatomia, Durand
si rifiuta assolutamente di ridurre l’antropologia allo studio anatomico, così
come – pur avendo studiato e insegnato la sociologia – non accetta di ridurre
lo studio dell’uomo a quello dei fattori sociali che lo condizionano. Lo
studioso savoiardo mantiene per molti anni un rapporto di amicizia e stima
reciproca con l’antropologo Claude Lévi-Strauss (1908-2009), il padre dello
strutturalismo. Tuttavia, l’antropologia di Durand – come egli stesso scriverà
– è, da un certo punto di vista, il contrario di quella di Lévi-Strauss: per
quest’ultimo le strutture pre-esistono all’uomo e lo determinano, mentre per
Durand le strutture sono «antropologiche», nel senso che nascono dall’uomo.
Il nucleo centrale della teoria di
Durand – in questo senso davvero innovativa rispetto all’antropologia
materialista dominante quando pubblica la sua opera fondamentale – è che l’uomo
si differenzia radicalmente dagli animali anzitutto per la sua capacità di
produrre simboli e di esprimersi tramite simboli. Certamente il linguaggio e la
socialità sono caratteristiche fondamentali dell’uomo, e Durand riprende dalla
scuola francese di sociologia l’idea secondo cui la società è necessaria perché
il piccolo d’uomo, a differenza di quello degli animali, per molti anni non è
in grado di sopravvivere da solo. Ma socialità e linguaggio, per Durand, sono
resi possibili solo dai simboli.
A partire dallo studio della più
piccola unità che costituisce i simboli e i miti – che, riprendendo
un’espressione di Lévi-Strauss, chiama «mitema» – Durand propone un’ambiziosa
cartografia dei principali simboli che hanno caratterizzato le culture umane,
distinguendo le strutture dell’immaginario in diurne, notturne e sintetiche. Le
strutture diurne fanno riferimento alla conquista del tempo, alla vittoria
sulla morte, al trionfo della luce sulle tenebre. I miti che fanno da sfondo –
sovente non riconosciuto – alla cultura scientifica moderna sono esclusivamente
di natura diurna e, in quanto tali, rischiano di perdere contatto con le altre
strutture e di conferire alla scienza un accostamento unilaterale. Le strutture
notturne sono invece di natura mistica e drammatica, danno valore al cuore più
che alla ragione, permettono di vedere il mondo in tutti i suoi colori e non
solo in bianco e nero. La prevalenza delle sole strutture notturne – di cui
Durand vede il trionfo nei racconti del ciclo del Graal e anche nell’arte del
pittore olandese Vincent van Gogh (1853-1890) – si ritrova in molte forme del
pensiero religioso ma può provocare fenomeni che l’antropologo chiama di
«gulliverizzazione» – con riferimento al personaggio Gulliver del romanzo
satirico dello scrittore irlandese Jonathan Swift (1667-1745), che si ritrova
in un’isola abitata da uomini di piccolissima statura –, cioè di attenzione
maniacale al piccolo dettaglio che portano a perdere di vista il quadro
generale.
Infine le strutture sintetiche
dell’immaginario, insieme diurne e notturne e tipicamente europee e
occidentali, danno rilievo alla dialettica di luce e tenebre che costituisce
propriamente la storia, generano miti orientati al futuro e, non integrate con
le altre strutture, rischiano di portare a una visione della storia considerata
esclusivamente come necessario progresso verso il bene, che Durand ritrova nel
monaco calabrese Gioacchino da Fiore (ca. 1130-1202) e nella sua posterità
diretta e indiretta – studiata in seguito dal cardinale Henri de Lubac
(1896-1991) – che arriva fino al fondatore del positivismo Auguste Comte
(1798-1857) e a Karl Marx (1818-1883).
Per Durand tutti e tre i tipi di
strutture e di miti sono necessari a un’esistenza umana integrata e aperta
all’altro, alla compassione e alla moralità. Pensatore spirituale ma non
religioso – nel senso di non aderente ad alcuna religione organizzata –, Durand
ritrova l’eredità di questo «politeismo» dei simboli nel cattolicesimo, che
cerca nella sua liturgia, mistica e arte d’integrare tutti i simboli senza
trascurarne nessuno. In questa chiave, critica anche alcuni testi del Concilio
Ecumenico Vaticano II e la riforma liturgica post-conciliare che, a suo avviso,
avrebbero privato la Chiesa di una parte della sua grande ricchezza simbolica.
In una chiave analoga, Durand critica
anche la massoneria moderna, che sarebbe diventata un’organizzazione politica e
razionalista perdendo il ruolo di contenitore di miti e di leggende che avrebbe
avuto in alcune sue incarnazioni settecentesche. Si spiega così il suo
tentativo, nel 1973, di rifondare – insieme all’etnologo Jean Servier
(1918-2000) – una loggia massonica di tipo «arcaico», Les Trois Mortiers di
Chambéry, che era stata nel Settecento un’istituzione tipica della Savoia e di
cui aveva fatto parte in un certo periodo della sua vita Joseph de Maistre
(1753-1821), di cui lo stesso Durand ricostruirà con passione la carriera nella
massoneria. I diversi scritti sulla massoneria di Durand hanno tutti un tono arcaizzante:
e forse l’antropologo coltivava qualche illusione – come de Maistre, che finì
però poi per disilludersi, nella prima parte della sua vita – sulla possibilità
di contrapporre alle logge laiche e razionaliste organizzazioni massoniche
«tradizionali» dedite principalmente allo studio e alla meditazione di alcuni
complessi di miti antichi.
Durand stesso ha presentato come suoi
principali contribuiti all’antropologia tre nozioni. La prima è il «tragitto
antropologico», cioè l’interazione fra la soggettività della persona e
l’ambiente circostante, da cui nascono i simboli e i miti. La seconda è il
«bacino semantico», cioè il clima che caratterizza un’epoca in cui
l’immaginario si declina in simboli e miti particolari che, dapprima «attivi»,
diventano in seguito «passivi» e infine perdono il loro vigore, sostituiti da
altri. La terza è lo «scambio interattivo fra attività e passività», per cui i
simboli possono costantemente trasformarsi da attivi in passivi e
viceversa. Queste nozioni mostrano la grande attenzione – spesso
trascurata dai critici – che Durand aveva nei confronti della storia, così
com’era attento alla letteratura e all’arte, dal cui percorso spesso si
comprende quali simboli si stanno affermando in una determinata cultura.
E l’arte, secondo Durand, è anche densa
di contenuti etici. Si può ricordare in particolare la sua appassionata difesa,
contro le accuse di chi tentava di metterlo al bando come presunto precursore
del nazional-socialismo, della musica di Richard Wagner (1813-1883), che aveva
in comune con l’antropologo francese la passione per il mito del Graal e dalle
cui opere secondo Durand si ricava una nozione di «comprensione profonda»
attraverso il cuore, che porta alla compassione ed è precisamente agli antipodi
del nazismo.
Uomo del suo tempo e – nonostante le
riserve e i distinguo – figlio dell’università francese del secolo XX, Durand
non ci appare oggi come totalmente libero dai condizionamenti relativisti
tipici del suo ambiente culturale di origine, da cui deriva anche un certo
gergo psicanalitico o derivato da una psichiatria riduzionista oggi forse – e
fortunatamente – meno di moda nelle scienze umane in genere. Il suo sforzo di
riabilitare i simboli come elementi fondamentali dell’esperienza umana resta
però un contributo fondamentale e positivo a uno studio della persona umana che
non la riduca soltanto alla sua dimensione biologica ovvero a quella
dell’economia e del lavoro, e tenga conto del mito, della mistica e della
religione.