di Romano Guatta Caldini
Sono innumerevoli gli autori relegati nel limbo dell’editoria, un po’ perché le loro tesi sono considerate politicamente scorrette, dalla massa degli utili idioti che popolano il mondo della critica letteraria, un po’ perché questi scrittori vengono sempre etichettati come impresentabili, a causa dei loro percorsi esistenziali che non corrispondono al cliché dell’intellettuale “democratico”. Fra i dannati della letteratura, un posto di primo piano lo occupa sicuramente Vintila Horia, il déraciné per eccellenza.
Il tema dell’esilio – in Horia – è una costante. Lui, scrittore autenticamente di destra, è il simbolo di quella generazione di intellettuali che, dopo il tramonto dei fascismi e l’instaurarsi delle dittature comuniste nell’est Europa, passarono tutta la vita lontani dalla madre patria. Sebbene, durante la giovinezza, Horia non abbia mai contemplato l’ipotesi di tornare in Romania – il Paese d’origine che lo condannò ai lavori forzati con l’accusa di propaganda fascista – il richiamo della “terra dei padri” influì notevolmente sulla sua produzione letteraria. “Incominciò allora - scrive Horia - il mio vero esilio come un processo di anacoretismo, cioè come un processo di separazione da tutto quello che io ero stato”. Fra i suoi scritti ricordiamo: “Dio è nato in esilio”, “Gli impossibili”, “La rivolta degli scrittori sovietici”, “Il cavaliere della rassegnazione”, “La settima lettera” ed “Una donna per l’Apocalisse”.
Per un esiliato la vita è fatta di incessanti peregrinazioni, alla ricerca - forse inconsapevole - di un’Itaca perduta per sempre. Italia, Austria, Francia, Spagna: furono molte le mete toccate da Horia nel suo percorso di viandante, nell’Europa martoriata dal secondo conflitto mondiale prima e dalla guerra fredda poi. E sono proprio le persone incontrate sulla via i personaggi dei suoi romanzi, come Clara, la bella esule polacca co-protagonista – con Horia “Io narrante” - de “Gli impossibili”. Entrambi in fuga dal comunismo e dai fantasmi del passato, Vintila e Clara si incontrano a Losanna, città che ha dato da sempre rifugio ai perseguitati politici. “Due esiliati - scrive il curatore de Gli Impossibili, per le edizioni Il Borghese - due creature strappate dalla violenza della guerra e dalle aberrazioni della politica al loro Paese; ciascuno spera di ritrovare, nell’amore, la patria, cioè, la fine della solitudine”.
Clara entra nella vita di Horia come una cometa, come un bagliore sfuggente che illumina – per un brevissimo lasso di tempo, l’esistenza dello scrittore rumeno. Nella solitudine interiore di lei, Horia trova ristoro, nella sofferenza provocatale da un passato popolato di fantasmi, l’autore trova le proprie radici, un contatto, seppur effimero, con la lontana Romania. Ed è così, attraverso un viaggio a ritroso nel tempo che Horia ripercorre le tappe che lo hanno portato a Losanna. Un percorso angosciante che partendo dalla casa paterna - ormai spazzata via dal regime comunista – arriva fino all’avvenimento che segnò la svolta negli orientamenti politici dell’autore: l’assassinio, in mezzo alla folla, di tre legionari della Guardia di Ferro.
Come per i suoi connazionali, Emil Cioran e Mircea Eliade, anche per Horia il successo arriverà durante il suo soggiorno forzato all’estero. Nel “60, con la pubblicazione del suo capolavoro, “Dio è nato in esilio”, ad Horia venne assegnato il Premio Gouncourt, il più noto riconoscimento letterario di Francia. Eppure, anche questa volta, i fantasmi del passato tornarono a riscuotere il proprio tributo. Dopo la vittoria del Gouncort, Horia venne invitato a farsi fotografare con il funzionario, dell’ambasciata rumena a Parigi, addetto alle relazioni. Un tentativo, da parte del regime comunista, di riavvicinare lo scrittore. Horia, però, rifiutò l’esortazione e, a quel punto, dalle pagine de L’Humanité scattò una campagna stampa tendente a screditarlo. Il quotidiano marxista, imbeccato dall’inteligencja rumena, mise in atto un violento attacco che, ricordando i trascorsi fascisti dello scrittore, ebbe come risultato la restituzione del premio. “Se il libro di Vintila Horia meritava il Premio Goncourt - si legge nel retro di copertina della pubblicazione italiana del libro “Dio è nato in esilio” - perché i giudici, dopo averlo assegnato secondo tutte le regole, non seppero difendere la loro decisione? E se il libro non meritava il premio, perché gli fu assegnato? La Romania comunista ha cercato fino all’ultimo momento di recuperare Vintila Horia, che vive in esilio per non vivere in una Romania comunista. (…) Si ripeté per Vintila Horia la discriminazione già usata coi militari e gli intellettuali tedeschi: quelli che hanno aderito al comunismo sono illibati e stimabili, chi si rifiuta di farlo è reprobo”.
Aspetto poco
conosciuto, dell’autore rumeno, è il suo stretto legame con l’Italia. Nel ‘39,
infatti, appena ventiquattrenne ed in seguito alla laurea in giurisprudenza
conseguita a Bucarest, Horia venne inviato a Roma, in qualità di addetto stampa
della Legazione del Regno di Romania a Roma. Qui conoscerà Papini con cui, nel
tempo, instaurerà un prolifico rapporto lavorativo, culturale e naturalmente,
di amicizia. A Perugia lo scrittore avrà l’occasione di seguire i corsi di
Letteratura e filosofia, almeno fino al suo trasferimento all’ambasciata di
Vienna. Da qui, dopo la caduta del regime pro-Asse del Maresciallo Ion
Antonescu e il conseguente instaurarsi - in Romania - di un governo
filo-sovietico, venne rinchiuso in un campo di concentramento, per diplomatici
del Terzo Reich, a Maria Pfarr, in Austria.
Liberato dagli inglesi, nel ‘45, Horia tornò in Italia, a Bologna. Ed è nel capoluogo emiliano che lo scrittore prese la decisione emotivamente più devastante della sua vita: non fare mai più ritorno in una Romania trasfigurata dal comunismo. Durante il periodo nel “bel paese”, lo scrittore collaborò a diverse riviste, come “L’Ultima” ed il “Perseo”, e ad alcuni quotidiani, tra cui “il Tempo” e “Roma”. Da menzionare sono i saggi - di Horia - sui pensatori anticonformisti italiani: l’amico Giovani Papini ed il Barone Julius Evola.
Moderno Ulisse, lo scrittore rumeno non smise mai di viaggiare, tenendo conferenze nelle università di Buenos Aires, Madrid, Parigi e Santiago del Chile. Come molti uomini legati ai fasti, dell’epopea rivoluzionaria nazionale dei regimi fascisti europei, anche Horia si trasferì in Argentina, più precisamente a Buenos Aires dove, grazie all’aiuto di Papini, poté trovare un’occupazione presso un’università locale. La morte lo colse in Spagna, dove aveva trovato rifugio, grazie al governo franchista.
Vintila Horia non tornò mai in Romania e, forse, fu proprio per la sua condizione di apolide che nel tempo sviluppò una sorta d’inter-nazionalismo di stampo europeista. Infatti, durante un’intervista rilasciata a Gianfranco De Turris, Horia dichiarò: “Mi considero uno scrittore europeo. Credo che la mia vera patria, e la patria di noi tutti, italiani, romeni, spagnoli o francesi, sia – in fondo – l’Europa”.
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