di Aldo La Fata
Innanzitutto,
a nome del “Corriere metapolitico”, ci
preme ringraziare pubblicamente, Giuseppe
Gorlani per i contributi scritti proposti e anche per i commenti che
sicuramente hanno arricchito di validi e importanti contenuti questa nostra
pagina web. La buona fede, la sincerità e l’onestà intellettuale di Gorlani
sono fuori discussione e sono le qualità che vorremmo sempre incontrare nei
nostri interlocutori quali che siano di volta in volta le posizioni assunte. La
verità della Persona infatti ci preme sempre di più della giustezza delle idee e
della loro cogenza logica. E tuttavia, la battaglia delle idee non va
sottovalutata giacché, come ci ricorda il titolo di un classico
politico-giornalistico del pensiero controrivoluzionario, sono proprio le idee
a muovere il mondo. Non possiamo dunque trascurare il fatto che un “punto di
vista” (in questo caso quello di Gorlani coincidente con le prospettive
vertiginose della metafisica orientale e qui da leggersi soprattutto in chiave
di personale “autobiografia intellettuale e spirituale”) ancorché libero da
condizionamenti ideologici e fondato su presupposti di saggezza spirituale sia,
nel suo farsi discorso, anche espressione di una particolare idea di realtà e
di verità e in quanto tale soggetto a valutazione critica e a proposta
alternativa. Pertanto, anche la sua “formale”
validità metafisica (il “filo aureo”), per excessus mentis, può venir
meno e addirittura impedire quella liberazione o “realizzazione” che si era
proposto nelle sue intenzioni.
Ciò
premesso e fuori da ogni sterile intenzione polemica, entriamo nel merito della
disamina di Gorlani apparsa su questo blog il 18 maggio u.s. con il titolo “Considerazioni
sulla recensione a Il Filo Aureo”.
Gorlani
nelle sue “considerazioni” riassume abbastanza fedelmente il punto di vista di
Silvano Panunzio sulla “metafisica cristiana”, anche se, come lui stesso
riconosce, il testo di riferimento è esclusivamente il capitolo “Mistero
Supremo” tratto da “Contemplazione e Simbolo”
del 1976. Su questo soggetto infatti, Panunzio ebbe a ritornare costantemente e
l’insieme di questi scritti si trova ora raccolto nel volume “La metafisica del Vangelo Eterno” (2007). Per
quanto riguarda invece un bilancio conclusivo del suo pensiero, il rimando al libro-testamento “La coralità celeste
superdivina” del 2010 ci sembra imprescindibile. Comunque sia, ad un certo punto della sua
attenta e scrupolosa analisi del testo, Gorlani afferma che per quanto
“ispirante e stimolante”, la tesi di Panunzio sul Mistero Supremo “non è priva
di limiti o di nodi insolubili”. Ci chiediamo: non sarebbe stato più prudente e
più saggio riconoscere il diverso angolo prospettico di Panunzio rispetto alle
proprie tesi? Non è un mistero che Panunzio abbia sempre riconosciuto il
carattere limitante della parola e del linguaggio e anche l’incapacità della
ragione di pervenire alla Verità Suprema (su questo l’accordo con Gorlani è
completo). Semmai, ma per un discorso di coerenza e di fedeltà al magistero
cattolico, il Nostro si è sempre attenuto agli insegnamenti delle Sacre
Scritture (alla Bibbia in primis) e
alla sapienza universale soprattutto, ma non solo, di matrice cristiana. Non
avendo questo discorso nulla a che vedere col rigore epistemologico di cui è il
caso solo per la scienza profana, perché parlare di “limiti” e di “nodi insolubili”?
Sui
due punti suppostamente critici individuati da Gorlani nel testo di Panunzio ci
permettiamo di osservare quanto segue. Circa
il discorso sulla “preferenza” del Padre per chi sceglie allo “stare nell’Uno”
“la terribile esperienza dei molti”, andrebbe precisato che Panunzio quest’idea
l’ha derivata dal concetto teologico di Kénosis secondo il quale Dio entra nello spazio e nel tempo per “farsi”
uomo, spogliandosi dei propri attributi divini. Tale idea si ritrova del tutto analoga nello Tzimtzum o tzim tzum ebraico che rimanda letteralmente alla
“ritrazione” o “contrazione” di Dio interpretata dai cabalisti medievali nel
senso di una “autolimitazione di Dio” il quale si “ritrae” nell'atto della
creazione del mondo. Mutatis mutandis,
Panunzio ritrova questa medesima idea nell’ideale sacrificale ed eroico del Bodhisattva. Calarsi nella dimensione
del Molteplice, significa, cristianamente, “Amare”. Gorlani, preferendo un linguaggio più astratto ed
extra-soggettivo, sceglie di porre la questione non nei termini
dell’accettazione o del rifiuto del Molteplice (poiché, “volenti o nolenti,
siamo immersi nella molteplicità”), bensì nella necessità di orientare la
propria esistenza verso l’Alto, “armonizzandone le contrapposizioni ed offrendo
noi stessi al Sublime”. Due modi diversi di dire la medesima cosa? E senz’altro
possibile, ma è altrettanto possibile
che l’affermazione dell’una possa comportare l’azzeramento concettuale
dell’altra e viceversa. E’ questo un
problema che occorre porsi per lo meno in sede di dibattito o di confronto
intellettuale. La diversità di linguaggio può infatti anche comportare
l’incomunicabilità tra le parti, a meno che non si adatti costantemente il linguaggio
alla statura intellettuale e morale del proprio interlocutore. E’ esattamente
quello che fa Gesù nei Vangeli, ma nel suo caso il dato costante non sembra
essere la forma del suo linguaggio (quasi sempre analogico, simbolico e
metaforico), ma il suo carattere di verità immediata certa ed evidente per sé,
cioè la sua indiscutibile autorità (exousia). In questo senso il linguaggio
dei mistici, ancorché caratterizzato da espressioni “affettive”, è superiore al
linguaggio dei “metafisici formali” la cui lettera proprio perché non sempre vivificata
dalla forza dello Spirito può arrivare ad “uccidere”. E infatti, non si può
escludere nel caso dei “metafisici formali” una deriva nichilistica (qui
tralasciamo per ragioni di spazio il caso “esistenziale” dei cosiddetti
“nichilisti attivi” alla Evola, alla Jünger o alla Freda).
Quanto
all’immagine usata da Panunzio dell’uomo come “specchio di Dio” e di Dio come “specchio
dell’uomo”, che Gorlani ritiene poco calzante mentre per lui lo sarebbe molto
di più quella gnostica e plotiniana della “scintilla”, giacché essa “se pur
infinitesima rispetto al Fuoco assoluto, partecipa della sua stessa natura”,
avremmo da eccepire che mentre l’una rimanda a un simbolo tradizionale per sua
natura extra-discorsivo, la seconda è più una metafora e cioè una figura
retorica discorsiva. Il simbolismo dello “specchio” ha inoltre nell’ambito
tradizionale a cui anche Gorlani dice costantemente di ispirarsi, un consenso
sicuramente più unanime e trasversale di quello della “scintilla”. Se ne trova
la presenza, solo per fare dei riferimenti autorevoli, in San Paolo, Ibn
‘Arabî, Maestro Eckhart, Angelo Silesio, Dante Alighieri e in Oriente nella
tradizione vedica e nel buddhismo tibetano.
Ad
ogni modo, sul piano del discorso Gorlani obietta che “se fossimo specchi, la
nostra alterità col Padre sarebbe irrimediabile”. Bene, questo ci sembra
davvero un punto dirimente, perché di fatto tanto il cristianesimo come pure la
religione ebraica e l’islamica hanno sempre concordemente insistito su una
differenza ontologica tra Dio e l’uomo (il Corano dice letteralmente che esiste
“la distanza di un arco tra Dio e
l’uomo”). Qui però facciamo notare che proprio il cristianesimo –che, ci preme
sottolinearlo, non è un monoteismo puro (fermo restando che l’espressione
monoteismo è sorta solo in funzione polemica e nel confronto con il cosiddetto
politeismo)- conosce un’importante eccezione all’idea di distanza irriducibile
tra l’uomo e Dio, ed è precisamente quella di Gesù Cristo, ovvero dell’Uomo-Dio.
In tutti gli altri casi -e vorremmo dire pour
cause- il cristianesimo lascia sussistere
una differenza, uno scarto ontologico irriducibile e apparentemente irrimediabile.
Qui, infatti, si tratta di far prevalere un dato esistenziale certo (l’abissale
distanza tra l’uomo e Dio) su un dato metafisico imponderabile (la presunta
identità sostanziale). E’ un “realismo” necessario che dinamizza creativamente
il rapporto Uomo-Dio non risolvendone mai del tutto la tensione unitaria. E’
questo un conoscere per partecipazione e non per identità ed è la massima
esperienza possibile di Dio o dell’Assoluto per un vivente. Immaginare una conoscenza di Dio per identità
è senz’altro suggestivo e in astratto possibile, ma non conosciamo nessun caso documentabile
di questo tipo. La cosiddetta intuizione superconscia o l’esperienza evocata da
Gorlani dell’andare al di là di dualità e non dualità (esperienza di espansione
coscienziale, di Illuminazione, di Risveglio), per stare nella “formale”
coerenza metafisica, dovrebbe avere come conseguenza la totale estinzione del
corpo (e qui non basterebbe neppure una “temporanea” trasfigurazione:
quest’ultima associata ai ben noti fotismi o esperienza della Luce attestate
con certezza nelle tradizioni mistiche cristiana e mussulmana) e l’immediata e
istantanea “assunzione in Cielo”. Lo stato del cosiddetto “liberato in vita”
non corrisponde e non può corrispondere allo stato di “Identità Suprema” per la
medesima ragione. Paradossalmente non si conosce in India nessuna figura
storica che abbia realizzato questo stato (lo stesso Budda, secondo vuole la
Tradizione scritta, sarebbe morto –se in modo volontario o accidentale poco
importa- come un essere umano), mentre il caso di Gesù sembra il caso perfetto.
Quindi, un vero metafisico dovrebbe avere come “modello” supremo e maestro
perfetto proprio l’uomo-Dio Gesù, il quale non è semplicemente il “fondatore”
di una religione a cui non si è congeniali. Il cristianesimo non può infatti
essere considerato come una faccenda relativa a un gruppo umano (una tribù) di
cui si può non tener conto, tanto più se si appartiene per nascita, per
eredità e per cultura al suo milieu. Non lo diciamo per partito preso
o per fanatismo confessionale, ma a noi obiettivamente il Gesù proposto dai
Vangeli e annunciato dal cristianesimo sembra la manifestazione più alta del
divino in terra che si conosca. Qui però non si tratta di consentire al
linguaggio cristiano di diventare il linguaggio universale (sarebbe questa senza
dubbio una intollerabile prevaricazione), ma di considerare la possibilità che
il “mistero cristiano” sia intimo a tutte le vere tradizioni che però lo riconosceranno
con altri nomi e lo esprimeranno con altri linguaggi (quest’ultima idea fu
caldeggiata da Raimundo Panikkar).
Aggiungiamo
che per un “metafisico cristiano” non è accettabile che la domanda fondamentale
sia un molto filosofico “chi sono io?”, ma, volendo usare le parole attribuite
dalla Tradizione all’arcangelo Michele, un più religioso “Chi come Dio?”.
Diciamo questo perché l’amico Gorlani astrae la domanda dal contesto metafisico
hindù e la presenta come la domanda per eccellenza che ogni essere vivente si
pone (e deve porsi se vuole venir fuori da se stesso). Facciamo poi notare sempre
di passata a Gorlani che il Dio della Bibbia (quello per intenderci che sul
Sinai si manifesta a Mosè nella forma del “roveto ardente”) non era un filosofo
greco e che il senso dell’“Io sono colui che sono” non può risolversi in una
semplice “filosofia dell’essere”. Su questa questione c’è da riconoscere che
anche il nostro Doctor Angelicus, alias
San Tommaso d’Aquino, ha filosofeggiato in senso aristotelico un po’ troppo e
che parlare di una “metafisica dell’Esodo” come ha fatto il Gilson è un vero e
proprio azzardo ermeneutico.
In
sintesi: la metafisica cristiana non può coincidere mai con una generica
“metafisica o filosofia dell’Essere” e non può neppure accettare di essere
subordinata ad una altrettanto generica e decontestualizzata “metafisica pura o
integrale” che di fatto e di diritto non è altro che un punto di vista
filosofico sulla Verità. La presunta universalità di questo sapere per quanto
ammirabile e saggio non può essere mai posto al di sopra della Tradizione
vivente che deve rimanere il Centro simbolico e reale del proprio orientamento
spirituale, pena il vivere di illusioni mentali (salvo l’intervento della
Grazia o della Divina Misericordia). Gorlani sa bene che il metafisico e
vedantino René Guénon la cui statura e lucidità intellettuale appare anche oggi
difficilmente eguagliabile, ha incardinato la propria esistenza in un contesto
tradizionale vivo e che si è spento “religiosamente” invocando il nome di Allah
(dunque il teorico della metafisica pura e dell’Identità Suprema in articulo mortis avrebbe ignorato i
principi metafisici da lui stesso enunciati?).
L’amico
Gorlani non può neanche ignorare il fatto che ogni religione debba essere in sé
un assoluto e che nessuna religione possa accettare formalmente e
dialetticamente di essere considerata o ridotta ad un relativo, per quanto lo
si voglia ammantare di assoluto. In questo senso -e soprattutto in questo
senso- arriviamo a dire che l’esclusivismo delle religioni ha un valore provvidenziale
e intrinseco in sé (anche qui, tolto il fatto che tale esclusivismo possa
degenerare fatalmente in ideologismo fanatico o in ottuso fondamentalismo), come,
analogamente, ha valore intrinseco in sé la singolarità della persona umana,
che va sempre considerata unica e irripetibile (non siamo né animali sociali in
senso illuministico, né insetti collettivi in senso scientifico), che non può
mai essere scambiata con un'altra né ridotta alla somma di altre. In questo
senso, dare valore relativo a una persona o ad un essere vivente o considerarlo
in modo strumentale significa di fatto offenderne la dignità e minarne
l’integrità (su questa scala si può scendere fino all’ammissione e alla
giustificazione dell’omicidio e dello sterminio di massa). Ugualmente parlare
della religione, dei mezzi devozionali e delle pratiche di pietà religiosa come
“strumenti” o come “mezzi” di cui ci si deve servire per andare oltre è a tal
punto sminuente che nessun uomo veramente religioso potrebbe mai accettare un
simile punto di vista. Senza contare che con simili riduzioni si finisce involontariamente
con l’invalidare “logicamente” teologicamente
e metafisicamente il senso stesso della religione. Ogni religione infatti, è un
tutto, e in questo senso effettivamente detiene “in esclusiva” le chiavi della
Verità ultima. Una verità per tutti, sussistendo le diversità culturali ed
esistenziali delle moltitudini che popolano la terra, sarebbe di fatto una verità
per nessuno e quindi una falsa verità, una non-verità (come quella che la
Scienza sostituendosi alla Religione va imponendo al genere umano. La famosa “unica
proposta di vendita” di goebbelsiana memoria). Riconoscere “l’esistenza di più lignaggi
spirituali” non significa automaticamente relativizzare la propria religione
che, ripetiamolo, richiede di essere un assoluto. Si tratta solo di una
concessione puramente intellettuale o al più filosofica, come si riconosce il
caso della diversità di opinioni e di idee per gli esseri umani. Ma intimamente
non si può e non si deve mai relativizzare la propria religione o pensare di parificarla
alle altre. Una simile operazione infatti, non spetta all’uomo ma solo a Dio.
Altro punto critico: la prospettiva metafisica si presenta formalmente come “il punto di vista di Dio”, ma la verità è che non esiste alcun uomo per quanto qualificato capace di poterlo assumere veramente (o meglio, per il cristianesimo, come abbiamo già detto, quest’uomo c’è ed è Gesù il Cristo). Quindi il discorso religioso non è mai veramente esaurito “preliminarmente”, ma è sempre in essere, sempre attuale, sempre vivo.
Quanto alla possibilità per gli uomini di questa epoca di scoprire un irresistibile richiamo verso altre tradizioni diverse da quelle di appartenenza, questa sembra essere effettivamente una possibilità che è difficile e imprudente escludere in maniera assoluta, ma rimane pur sempre il dubbio che si possa trattare di un misanderstending, di un errore di valutazione o peggio di un cedimento al proprio ego e alle sue aspettative e richiami illusori. Anche Panunzio a un certo punto della sua esistenza si sentì attratto da un'altra forma tradizionale (era il buddismo lamaico tibetano), ma vi seppe rinunciare in nome di un più alto “sacrificio intellettuale” (l’evangelico “rinnega te stesso” evocato per un diverso caso dallo stesso Gorlani). In questa circostanza si può parlare effettivamente di “innalzamento verticale” ma in senso “religioso”.
Quanto all’innalzamento verticale “sovrareligioso” o transreligioso non sapremmo dire con esattezza dove esso stia veramente di casa (forse nella pura ascesi come sostiene Gorlani), ma dove sarebbero in quest’epoca di devastazione totale (estetica, culturale, psicologica, intellettuale, morale e spirituale) gli uomini capaci di tanto?
Altro punto critico: la prospettiva metafisica si presenta formalmente come “il punto di vista di Dio”, ma la verità è che non esiste alcun uomo per quanto qualificato capace di poterlo assumere veramente (o meglio, per il cristianesimo, come abbiamo già detto, quest’uomo c’è ed è Gesù il Cristo). Quindi il discorso religioso non è mai veramente esaurito “preliminarmente”, ma è sempre in essere, sempre attuale, sempre vivo.
Quanto alla possibilità per gli uomini di questa epoca di scoprire un irresistibile richiamo verso altre tradizioni diverse da quelle di appartenenza, questa sembra essere effettivamente una possibilità che è difficile e imprudente escludere in maniera assoluta, ma rimane pur sempre il dubbio che si possa trattare di un misanderstending, di un errore di valutazione o peggio di un cedimento al proprio ego e alle sue aspettative e richiami illusori. Anche Panunzio a un certo punto della sua esistenza si sentì attratto da un'altra forma tradizionale (era il buddismo lamaico tibetano), ma vi seppe rinunciare in nome di un più alto “sacrificio intellettuale” (l’evangelico “rinnega te stesso” evocato per un diverso caso dallo stesso Gorlani). In questa circostanza si può parlare effettivamente di “innalzamento verticale” ma in senso “religioso”.
Quanto all’innalzamento verticale “sovrareligioso” o transreligioso non sapremmo dire con esattezza dove esso stia veramente di casa (forse nella pura ascesi come sostiene Gorlani), ma dove sarebbero in quest’epoca di devastazione totale (estetica, culturale, psicologica, intellettuale, morale e spirituale) gli uomini capaci di tanto?