di Aldo La Fata
Pietro Chessa (Sassari, 1983), si è laureato nel 2005 in filosofia della Religioni presso l’università degli studi di Pisa, con una tesi triennale dal titolo “Mircea Eliade e il mito dell’eterno ritorno”. Questa tesi viene ora pubblicata dall’editore Il Prato di Padova con una prestigiosa e dotta presentazione del professor Giuseppe Girgenti il quale, lo ricordiamo, oltre ad essere uno dei massimi conoscitori e studiosi del pensiero di Porfirio, è stato allievo e assistente di Giovanni Reale, insegna alla Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano ed è segretario delle collane di filosofia "Il Pensiero occidentale" e "Testi a fronte" dell’editore Bompiani di Milano, nonché membro del comitato scientifico della collana "Studi Bompiani. Filosofia" del medesimo editore.
Chessa, da par suo non si è fermato alla “laurea breve” ma ha conseguito nel 2007, presso lo stesso ateneo di Pisa, la laurea magistrale in “Filosofia e forme del Sapere” con una tesi dal titolo “S. Agostino e il De quantitate animae”. Attualmente il nostro è impegnato nello studio dei rapporti tra Filosofia e Cristianesimo in età tardo antica e medievale, con particolare riferimento alle tematiche dei Semina Verbi e della Philosophia perennis.
La ragione per cui salutiamo con favore e piacere questo suo libriccino di novanta dense pagine riccamente annotate è per lo meno triplice. Innanzitutto per l’amicizia che ci lega all’autore; poi per la qualità e la correttezza dell’analisi ermeneutica svolta sul complesso tema del mito dell’eterno ritorno; e infine per il fatto di vedervi ampiamente citati autori e opere sulle quali anche chi scrive si è lungamente formato e intrattenuto.
Ma procediamo con ordine.
Diciamo subito che leggere il libro di un amico, quale che sia il contenuto, di solito è un’esperienza estremamente piacevole e gratificante. Capita infatti che si riesca più facilmente a immedesimarsi con l’autore e a comprenderne il pensiero e persino il retropensiero. Questo in positivo. In negativo, c’è la difficoltà di esercitare sull’opera il proprio abituale senso critico. Ma tant’è. Eccoci qua ad assolvere il compito con la dovuta pacatezza, senso della distanza e persino con una piccola punta critica di cui l’amico ci vorrà benevolmente scusare. Naturalmente, riconosciamo a lui il diritto di replica qualora lo ritenesse necessario e utile.
Veniamo ora ai contenuti dell’opera cominciando, per l’appunto, con un’osservazione critica.
Abbiamo detto che il tema del libro è quello, in verità più arduo e complesso di quanto solitamente non si creda, del mito dell’Eterno Ritorno, preso in esame non in sé, ma nell’opera dello storico delle religioni romeno Mircea Eliade (1907-1986) e in quella del filosofo tedesco Federico Nietzsche (1844-1900).
Di Mircea Eliade e di Federico Nietzsche ci è capitato più di una volta di scrivere e invariabilmente abbiamo espresso nei loro confronti giudizi per lo più positivi (giacché, come tutti sanno, è molto difficile non essere indulgenti verso chi si ama…). Ma, a prescindere dalla nostra personale opinione, c’è da osservare che i due personaggi hanno ben poco in comune. Quindi, accostarli seppure solo per confrontarne le idee, suscita un minimo di perplessità. Riteniamo infatti, data anche la distanza temporale che li divide (non enorme, ma in ogni caso tutt’altro che irrilevante), che un confronto alla pari sia da ritenersi praticamente impossibile. Nel caso che ci occupa, sul tema specifico del mito dell’Eterno Ritorno, diciamo che Nietzsche semplicemente non disponeva delle informazioni di cui invece Mircea Eliade era in possesso. Inoltre, Nietzsche non era uno “storico delle religioni” e i suoi ragionamenti o le sue intuizioni, mai ebbero pretesa di “scientificità” o di rigore epistemologico. Senza contare che egli aborriva il culto della ragione teoretica. Pur essendo stato su molte cose un antesignano e un anticipatore, cionondimeno rimane un figlio del suo tempo dalle cui temperie culturali assimilò, volente o nolente, idee e orientamenti di pensiero. Quindi e per finirla, dobbiamo chiederci se il confronto tentato in questo studio sia accettabile. Tale la nostra riserva critica sul libro in esame. Tuttavia, ragionandoci, crediamo di essere arrivati a una conclusione che assolve Chessa quasi del tutto.
Per prima cosa dobbiamo riconoscere che era praticamente impossibile non tirare in ballo Nietzsche sul tema dell’Eterno Ritorno, essendo questo un motivo centrale del suo pensiero e uno dei capisaldi della sua “filosofia”. E poi c’è il fatto di essersi imposti come obiettivo primario la ricerca della verità. Non della Verità tout court intendiamoci, che appartiene di fatto e di diritto solo a Dio, ma di quella verità filosofica che in senso “classico” è conformità del discorso con la realtà. Ecco, Chessa si è preoccupato soprattutto di valutare in quale misura i punti di vista di Nietzsche e di Eliade sul mito dell’Eterno Ritorno fossero corretti rispetto all’idea originaria, arrivando alla conclusione che il primo l’abbia deformata presentandone una versione distorta e fuorviante, mentre il secondo, facendo lo sforzo sincero di restituirla al suo vero senso e significato, l’abbia presentata in modo se non proprio del tutto conforme, per lo meno più adeguato. E qui il discorso di Chessa si fa veramente interessante giacché non si limita a mettere in luce le posizioni dell’uno e dell’altro, ma prende lo spunto per far emergere ben più importanti verità che chiamano in causa il tema della “vita dell’anima” e del destino individuale e collettivo che ci attende. Inoltre, riesce anche a collegare, a nostro giudizio in modo corretto, il mito dell’Eterno Ritorno con la “dottrina dei cicli cosmici” hindù e con il profetismo e l’escatologia cristiana. Per lui, infatti, diventa sempre più urgente attualizzare questi “temi” e rammemorarne, soprattutto ai cristiani, centralità e importanza. Qui entra in gioco la fede cristiana e cattolica di Chessa che viene testimoniata con evidente coraggio e senza infingimenti. Un coraggio che, dato il contesto “scientifico” e accademico del suo studio, gli fa onore e, da parte nostra, gli fa meritare ammirazione e plauso.
Per chiudere il cerchio di questa nostra modesta noterella, crediamo sia utile spendere qualche parola sulle “fonti” dell’autore che offrono ai lettori più di qualche piacevole sorpresa.
Oltre all’opera omnia di Eliade e di Nietzsche (quest’ultima nella ormai classica edizione critica Colli-Montinari), Chessa ha attinto non pochi elementi di riflessione, di analisi e di giudizio anche dai libri del metafisico francese René Guénon. Ora, si da il caso che Guénon continui a non godere di buona stampa, nonostante sembri caduto nei sui riguardi l’odioso, persecutorio e anche un po’ paranoico “pregiudizio accademico”. La ragione di questo ostracismo sta, a nostro avviso, soprattutto nel fatto che la sua opera, con tutti i limiti che andranno sempre denunciati e riconosciuti, costituisce ad oggi la più forte e cogente sfida al pensiero razionalista e alla cosiddetta ortodossia scientifica. Neanche un pur degnissimo Emanuele Severino con tutta l’erudizione e l’eccezionale potenza dialettica e speculativa dispiegata ad ampie mani nella sua opera, può reggere il confronto.
Tra l’altro, si commette un imperdonabile errore quando si colloca Guénon nell’alveo semi serio e sovente ingenuo e incolto della tradizione occultista del secolo scorso, e non invece, come si dovrebbe, in quello culturalmente ricchissimo e spiritualmente alto di quella “tradizione iniziatica” che ha origini molto più antiche e importanti. Non solo. Come è stato ampiamente dimostrato da studiosi del calibro di Mark Sedgwick e di Xavier Accart, il cosiddetto “pensiero tradizionale” inaugurato dal metafisico di Blois sul finire degli anni trenta, ha attraversato come un fiume carsico la storia e la cultura del Novecento influenzandone, molto più di quanto non si possa credere, letteratura e pensiero, politica e religione. Altro che occultismo di bassa lega! Lo stesso Mircea Eliade, che in assoluto ha fornito ai nostri tempi il più importante e significativo contributo ermeneutico alla comprensione delle religioni, dovette moltissimo all’opera di Guénon come ormai ampiamente dimostrato.
Ma non è tutto. Si dà il caso che tra gli autori più notevoli del filone “tradizionalista” inaugurato proprio dal Guénon, ce ne siano stati e ce ne siano di appartenenti anche alla cultura e alla fede cristiana e cattolica. Forse non tutti sanno, ad esempio, che anche importanti teologi cattolici del Novecento ne recepirono, pur se criticamente, l’opera. Ci riferiamo ai padri Danielou, von Balthasar e de Lubac, tanto per non citare che i più importanti. E si badi bene: si tratta di padri conciliari! Pietro Chessa fa invece altri nomi, per lo più laici. Il francese Jean Borella, l’austriaco Matthias Vereno, l’indo-catalano Raimundo Panikkar, gli italiani Attilio Mordini e Silvano Panunzio e infine il religioso dell'Ordine dei Servi di Maria P. Giovanni Vannucci. Sarebbe assai lungo soffermarsi su ciascuno di questi autori dei quali viventi rimangono solo i primi due, che in modi diversi, ma convergenti, hanno saputo integrare l’ermeneutica tradizionalista à la Guénon all’ermeneutica cristiana e cattolica, con esiti spesso straordinariamente brillanti e spunti di riflessione inediti e profondi che rappresentano un guadagno non solo per l’apologetica cristiana, ma soprattutto per l’intelligenza della fede. Ecco perché riteniamo che la Chiesa cattolica anziché tenerli in un limbo facendo finta di ignorarli, dovrebbe non solo riconoscerne maggiormente i meriti, ma anche fornire un qualche contributo per diffonderne di più l’opera. Ecco, diciamo che in questo senso il libro di Chessa ci pare di buon auspico. Infatti, se un Giuseppe Girgenti lo ha positivamente prefato, potrebbe voler dire che in certi importanti ambienti della cultura cattolica che conta il “voto di silenzio” stia per cessare. Noi naturalmente, pur non facendoci troppe illusioni, lo speriamo.
Per l’intanto auguriamo al libro di Chessa, che si legge d’un fiato e da cui c’è molto da imparare, ogni miglior fortuna, mentre lo ringraziamo a nome di tutti gli estimatori del pensiero e dell’opera di Silvano Panunzio per aver reso a quest’ultimo con parole alte e piene di gratitudine il giusto e doveroso riconoscimento.
Per ordinare o acquistare l’opera (prezzo: 12 euro)
Ed. Il Prato
35020 SAONARA (PADOVA) - Via Lombardia 41/43
Tel. 049/640105 - Fax 049/8797938 www.ilprato.com
http://ierosofia.blogspot.com/2010_10_01_archive.html
Lo ho ordinato. Poi non si dica che noi eretici siamo settari...Gioco.
RispondiEliminaEliade, grandissimo storico delle religioni, dopo l'esperienza della Guardia di Ferro di Codreanu, cercò l'oblio sul suo ingombrante passato. L'accademia, la fama, non potevano essere compromesse da certi scheletri nell'armadio. Non lo sto giudicando, è un fatto. Il passato certe volte ti paralizza e allora bisogna guardare avanti. Dove voglio andare a parare? Semplice. Certe esperienze, certe condivisioni avvenute durante quel periodo storico così tragico, estremo, sono sgorgate da un humus politico e culturale forte, sebbene drammatico. Nazismo e fascismo erano le categorie politiche estremizzanti, ma altro ferveva, altre energie. Junger, Heidegger, Eliade, Evola, Guenon, forse rappresentano - equazioni personali e dottrine diverse a parte - quanto di meglio il genio europeo produsse.
Grazie caro Angelo per aver seguito il mio consiglio di lettura. Quel secolo di cui tu parli così tragico e drammaticamente intenso (Veneziani lo ha definito giustamente “il secolo sterminato”), produsse molte cose buone, ma anche creò le premesse per altrettante cose cattive (mi si perdoni il linguaggio moraleggiante). Ma a prescindere dal giudizio storico, non c’è dubbio che quegli anni difficili, proprio perché tali, agevolarono il fiorire di intelligenze che oggi ci sogniamo. Benessere e assenza di guerra - senza con ciò voler condannare l’uno o giustificare l’altra- hanno impoverito di molto il nostro quoziente intellettivo e fatto quasi estinguere il genio (cito a memoria dalla Queste du San Graal: nel periodo in cui le guerre cessarono e a Camelot “regnavano ordine e giustizia, pace e benessere, amor cortese e onore cavalleresco”, Lancillotto faceva osservare ad Artù: “non siamo più gli stessi senza il duro impegno della battaglia”. Voleva dire che erano più o meno tutti, cavalieri dame e re compreso, peggiorati…). Questo credo sia un fatto. Sui nomi che fai, sottoscrivo, anche se avrei da aggiungerne molti altri…
RispondiEliminaUn abbraccio.
Da Pietro Chessa.
RispondiEliminaSalve a tutti,
ringrazio sentitamente il dr. Aldo La Fata per la sua recensione: puntuale e critica al punto da non tradire le premesse ermeneutiche di questo lavoro, ma anzi atta ad evidenziare pertinenti pesi e contrappesi d'ordine metodologico ed epistemologico. Il dr. La Fata, ad esempio, coglie perfettamente nel segno quando scrive in merito al confronto Eliade-Nietzsce, abbozzato non per comparare autori di per sé inconciliabili, come io stesso affermo nell'introduzione al testo, bensì per il fatto che ridurre un genio come Nietzche a sommarie e periferiche note a margine, avrebbe paventato il rischio di trasformare l'intero lavoro in una sterile collezione di mere citazioni bibliografiche. Del resto, il libriccino poteva essere oltremodo ampliato ed ancor più finemente guarnito; tuttavia sono persuaso del fatto che, oggi, lo studio debba perseguire un fine sintetico-contemplativo, atto a mettere in comunicazione chi legge con il proprio vissuto interiore e la sua cerca spirituale, alla riscoperta di quello che S.Panunzio definiva il "mistico vangelo dell'Anima". Ho trovato di grande impatto la proposizione espressa dal sig. Ciccarella: "Il passato certe volte ti paralizza e allora bisogna guardare avanti". Una verità che, nell'invisibile gioco dei rimandi, pone in evidenza proprio uno dei concetti chiave del mio libro: il rapporto tra la Storia del singolo e la Storia sacra dell'Umanità. Sarebbe lecito addurre alcune sfumature di contorno, ma ritengo opportuno fermarmi qui. Resto a disposizione degli utenti per ogni eventuale chiarimento.
In Fede
Pietro Chessa
Ringrazio l’amico Pietro Chessa per il commento di qualità e la risposta pienamente soddisfacente alla mia piccola riserva critica al suo libro.
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