Pasquale Arciprete, Apocalittica, terrorismo e rivoluzione. Radici religiose della violenza politica, Citta Nuova, Roma, 2009, pp. 720, euro 36.
di Paolo Garuti
Lo storico delle forme di pensiero a base religiosa che abitualmente – ed un po’ arbitrariamente – si declinano nei tre monoteismi dell’antico mondo mediterraneo (ebraismo, cristianesimo, islamismo) conosce la distinzione fra correnti profetiche, apocalittiche e gnostiche. Anche volendosi limitare al solo orizzonte biblico o a letterature ad esso prossime, il lettore s’accorge che, assai diversificate nel loro proporsi storico e difficilmente riconducibili ad una sola matrice (molti sono, infatti, gli influssi “esterni”: dalla teo-cosmogonia egizia alla mantica babilonese, dal dualismo mazdaico al medio-platonismo d’epoca imperiale romana), queste tre tensioni possono però schematicamente accostarsi ai tre generi di retorica canonizzati da Aristotele. Ci troviamo, infatti, in un universo scribale di cui s’intuisce, tuttavia, la scaturigine nella predicazione diretta e quindi nell’oralità finalizzata al convincimento, sovente accompagnata da gesti ed atteggiamenti parte integrante dell’ethos che il locutore vuole attribuirsi. Ma vi è un altro motivo: profezia e apocalittica hanno a che fare col tempo e coi tempi; ora, i generi di oratoria si suddividono per Aristotele non solo stabilendo il ruolo dell’oratore, lo stile che la situazione gli impone, il tipo d’uditorio e la materia del suo dire, ma anche (o soprattutto) considerando come si rapporta al tempo.
Da questo punto di vista, la predicazione dei profeti maggiori della Bibbia ebraica e di quanti, in differenti modalità, ne imitarono il comportamento, richiama il genere detto deliberativo. Il profeta è, sostanzialmente, un oratore politico, il quadro temporale sul quale ritiene d’agire è il futuro immanente. Chi lo ascolta, sia il sovrano o il popolo in assemblea, deve prendere una decisione, lo stile dell’oratoria politica e veemente e colorito, la sua logica binaria condizionale: se si attueranno le correzioni proposte dal profeta, gli avvenimenti prenderanno una direzione favorevole, se chi deve decidere non seguirà al suo consiglio, sarà la catastrofe. Il profeta parla dall’interno del sistema di potere, è un sacerdote, un consigliere, un capo-popolo entrato nelle cerchie decisionali. L’oracolo, la previsione condizionata all’agire del suo interlocutore, sono la sua arma principale. Per questa nostra breve nota, quel che maggiormente interessa è il rapporto che il profeta vive col mondo che lo circonda: poiché l’orizzonte storico è il solo in cui egli intravvede la possibilità d’una soluzione dei problemi di cui si occupa, questo è per definizione il migliore possibile. La sua azione è, pertanto, volta a correggere le storture presenti concepite come deviazioni dal piano divino. Tutta la responsabilità ricade sulle scelte del suo uditorio, spesso accusato di tali deviazioni. Nei grandi profeti biblici possiamo identificare due linee di definizione dell’orizzonte storico dal quale non e lecito uscire o nel quale si deve rientrare con moto di conversione (ritorno, inversione di marcia). La prime linea, esemplarmente rappresentata da profeti come Isaia o Amos, è schiettamente creazionista: l’azione del dio creatore definisce un codice cui deve adeguarsi ogni essere umano e ogni società, pena la caduta nel caos o l’annientamento. In nome di questa loro visione tali profeti emettono indifferentemente oracoli contro le nazioni o contro il loro stesso popolo: lo sbocco naturale della loro azione è un universalismo incentrato su Israele. La seconda linea, invece, è più legata al concetto d’alleanza, secondo un modello di fondazione delle tradizioni legali comune nell’antichità. Profeti come Osea o Geremia ne sono i rappresentanti più significativi. Le leggi di un determinato gruppo umano provengono da una scelta della divinità (scelta in fondo arbitraria) che giunge sino a condizionare la storia dell’intera regione e degli altri popoli al semplice ruolo di premio o castigo per l’osservanza o l’inosservanza del patto. In entrambi i casi, tuttavia, le cose stabilite per sempre da Dio sono buone e il gruppo umano può deviarne il corso in negativo come restaurarne l’originaria bontà tornando a compiere la volontà di Dio o adeguandosi al progetto politico avanzato dal profeta. In questo quadro, l’individuo vale solo in funzione del suo potere decisionale sul o nel gruppo cui appartiene: il suo destino particolare non ha che minimo rilievo. Nell’agire profetico, in fondo aristocratico, può aver luogo quello che definiamo terrorismo? Come strumento si. In tempi molto sospetti (poco dopo l’11/09/2001) scrivevamo:
«La Bibbia conosce, infatti, anche il terrorismo più freddo e calcolatore, e ne fa attore Dio stesso. Se il termine, al di la delle motivazioni, indica un’azione di guerriglia che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile per ottenere un risultato politico, mi e difficile definire altrimenti le celebri dieci piaghe d’Egitto. Il Faraone, la vera causa dell’oppressione, è coinvolto, e di striscio, solo al termine della serie: intanto dagli uomini sino al bestiame (cf. Es 11,5), gli egiziani sono travolti in un crescendo d’orrore. Non è una guerra santa; Mosè ed Aronne non rischiano molto di proprio: in fondo sono in corso delle trattative. E' piuttosto una meditazione sulla storia: le cose “devono” procedere in questo modo. E' Dio che indurisce il cuore del Faraone (Es 7,3) e ad ogni piaga fa sì che non si lasci convincere del tutto. E' lui, il Dio degli eserciti, che innesca una strategia sin troppo logica: essenziale è non fermarsi, far seguire, a terrore, terrore; non bisogna permettere al potente Faraone di credere e far credere che si tratti di episodi. Ci vogliono tempi sufficientemente lunghi perché il suo cuore si pieghi del tutto, la dura cervice si spezzi, e gli egiziani arrivino a concedere, oltre che la libertà, le loro ricchezze. Altrettanto ce ne vuole perché gli ebrei liberati non cedano più alla tentazione di tornare là dove regnarono le tenebre e lo spavento». Modello del profeta giudaico, oltre a Mosè, fu Elia, capace di invocare e revocare la siccità, come di uccidere quattrocento sacerdoti di Baal in un solo giorno.
Al genere retorico giudiziario, che invece s’interessa dei fatti passati e da essi fa scaturire una sentenza d’assoluzione o pena, s’accosta per molti aspetti la mentalità e l’espressione apocalittica. A differenza della profezia, e in quanto espressione letteraria di gruppi emarginati o comunque incapaci d’apparire sulla scena politica per le vie normali ai tempi loro, l’apocalittica non sa disegnare alle sue speranze un orizzonte altrettanto positivo: l’azione corrosiva del peccato ha ormai condannato il kosmos (tutto ciò che sta oltre la pelle dello scrivente o della comunità cui appartiene, entità sovrannaturali comprese) alla necessità d’una rifondazione radicale. Nuovi cieli e nuova terra è il motto dell’apocalittico. A tale rifondazione si giunge per via di conflitto o di cataclisma: i combattimenti fra angeli e demoni, gli sconvolgimenti astrali, come i terremoti, sono complessi simbolici letterari destinati a proclamare la non-ineluttabilità del quadro presente, di solito dominato da una civiltà melting pot, per ciò stesso totalizzante e pervasiva, come quella imperiale romana. L’individuo e il gruppo, come in un tribunale, non sono chiamati a modificare dal suo interno la situazione storica, ma a giudicarla nel quadro d’un curioso processo in cui si gioca, nella condanna generale dell’umanità, il destino dell’accusatore. Tale apparente paralogismo e la molla che può fare del lettore o dell’autore apocalittico uno zelota o un sicario: “giustiziando” un nemico, nel corso di una più o meno disperata azione bellica, scrive il proprio nome nel libro della vita, si guadagna un titolo di giustizia. Il rapporto col passato, tipico della retorica di genere giudiziario, provoca due fenomeni letterari in molte opere apocalittiche. Il primo è detto dagli esperti pseudoepigrafia: consiste nell’attribuire ad un eroe del più remoto passato il racconto di avvenimenti a tutti noti e posteriori alla di lui morte (ma non alla redazione del testo) per accreditare l’esattezza delle sue eventuali previsioni. Il meccanismo funziona ancor meglio se combinato con una periodizzazione artificiale della storia umana: suddividere le epoche in settimane di anni e settimane di settimane di anni dà la certezza che tutto è concepito dal creatore come racchiuso in un periodo e che i periodi avranno un fine. Per questo, il termine “escatologia” s’addice più all’apocalittica che alla profezia, per la quale si dovrebbe parlare piuttosto di restaurazione. Il secondo fenomeno fa dell’apocalittica un esercizio eminentemente scribale e prevalentemente ermeneutico. Lo stile deliberativo è parecchio metaforico quando non iperbolico: per convincere l’uditorio (soprattutto se si tratta d’una massa: le masse hanno dura cervice, è rivelato) si debbono caricare le tinte. E il genus grande di cui parlava Cicerone: volendo far desiderare o temere quanto promettono o minacciano, poiché non possono descrivere il futuro in termini realistici, i politici (e i profeti) debbono parlare di decisioni storiche, di imminenti ed inauditi pericoli, di felicità durature, anche se stanno solo chiedendo d’appaltare la segnaletica stradale a un amico. Lo stile giudiziario, invece, richiede un linguaggio piano, il genus humile, cui ad ogni parola corrisponde una realtà ben determinata: un abigeato è un abigeato, come un furto è un furto. Non sono consentite metafore. Parrà strano, ma il rutilante stile dell’apocalittica, con animali compositi e mostruosi, lune che s’arrossano e soli che si spengono, si vuole descrittivo come un rapporto di polizia. Le metafore dei profeti (l’apocalittica non crea, interpreta un deposito tradizionale) vengono, in altri termini, prese sul serio. E' quella che chiamiamo catacresi, o lessicalizzazione delle metafore. Certe immagini, a forza di essere utilizzate, perdono il loro rapporto con il simboleggiato, non stanno più al posto di un’altra cosa, ma finiscono per entrare nel linguaggio comune di un gruppo umano. Si crea un codice: se “zampa” sta sistematicamente per “forza” dire «aveva zampe d’orso» e esattamente come dire «aveva la forza di un orso». Ciò permette un fenomeno tipico in apocalittica: la cosiddetta combinazione simbolica, che può avvenire con modalità continua o modalità discontinua. La modalità continua crea, ad esempio, il plesso allegorico che combina coerentemente la città imperiale, Roma, con l’immagine profetica dell’antica città devastatrice e sanguinaria, Babilonia, è l’identificazione di tali città con una prostituta avida, quale ancora i profeti vedevano in Gerusalemme. La struttura discontinua si ha quando i simboli non compongono un quadro coerente, ma accumulano attorno ad un fulcro i concetti simbolizzati che, al contrario, formano un insieme logico. E il caso degli animali compositi. Questi meccanismi sono resi possibili dalla presunzione che le metafore degli antichi profeti, lungi dall’esprimere in termini iperbolici realtà quotidiane e intrastoriche, avessero contenuto proprio e realistico. Tuttavia, l’ipertrofia e l’irrealizzabilità delle speranze apocalittiche possono essere una formidabile molla all’azione politica, anche violenta. Se non si riesce ad affermare la propria visione del mondo o, più semplicemente, il proprio diritto, si può negare la società oppressiva attuando assieme omicidio e suicidio, in una anticipazione individuale dello sconvolgimento sognato per la fine dei giorni.
Il terzo genere aristotelico di retorica e detto epidittico. E il genere dei discorsi d’apparato, dei panegirici o degli elogi funebri. Per estensione (epidittico significa dimostrativo) e anche il genere proprio della didattica. L’oratore, il maestro, non deve vincere i pregiudizi di un giudice o l’avversità d’una assemblea, deve solamente lottare contro la noia di chi ascolta ciò che in parte crede di sapere già. L’epidittica vive nell’eterno presente della scienza e dello spettacolo, il tempo è suo nemico, i simboli sono enigmi curiosi, cifre oscure d’una realtà caricata di sensi secondi. All’epidittica assomiglia la gnosi. Per lo gnostico i profeti parlano un linguaggio violento perché sperano che la materia di cui è impastato il mondo in cui vivono possa prendere forme migliori di quelle che ha o possa tornare all’idillio delle creazione. Gli apocalittici, dal canto loro, hanno ben visto che questa creazione è sbagliata, che deve sparire nel fuoco per dare luogo al mondo del sogno, ma non hanno capito che ogni creazione, poiché richiede una materia è un demiurgo che la plasmi a sua immagine, sarà perciò stesso un pasticcio penoso. Il maestro non deve convincere, deve mostrare, condurre alla conoscenza (gnosis); deve aiutare quell’atomo di luce divina racchiuso nell’opacità del corpo e della mente d’ognuno a liberarsi dai vincoli della speranza e dell’ignoranza per risalire all’empireo. Chi ascolta il maestro è uno spettatore avvinto dalla logica elegante d’una cosmologia abitata da terrori e potenze, da infinite caricature del vero: sarà buon discepolo se rifiuterà tutto ciò che vedono o vedranno i suoi occhi finché saranno impastati d’oscura materia. Inutile dire che lo gnostico non agisce nel politico né come consigliere, né come zelota: la sua è un’aristocrazia del pensiero che si raduna in scuole il cui linguaggio tutto afferma e tutto nega, poiché tutto rimanda all’altrove. Le uniche forme di disordine politico che possano dirsi veramente gnostiche sono l’agennesia, il rifiuto di generare materia-prigione, e il libertinaggio che ne costituisce sovente un corrispettivo logico (anche se gli eresiologi che combatterono la gnosi in nome dell’ortodossia non sono sempre testimoni oggettivi al riguardo). Solo apocalittica e gnosi sono, in grado diverso, utopiche, poiché non c’è luogo terreno (ou topos) in cui possano realizzarsi le loro speranze.
Ogni corrente ha il suo Messia. Il profeta invoca un dinaste che compia i destini della casa regnante e del popolo eletto: deve sorgere dalla storia e lottare nella storia, anche se i suoi giorni prendono sempre più, col passare del tempo e il cadere delle illusioni, l’aspetto d’una età dell’oro al termine dell’umana vicenda. Gli scritti apocalittici lo scorgono giungere dai confini del nostro universo, da fuori della storia. Il Risorto, per l’apocalittica cristiana, è precisamente colui che attraversa il confine della finitudine ed inaugura i nuovi cieli e la nuova terra. Per lo gnostico, almeno nella lucida visione di Pistis Sophia, se mai venne un messia in questo mondo di tenebre, egli venne in castigo. Una fiammella dell’eterna luce cadde per cupidigia nella materia e dovette attraversarne tutti gli strati, assumendo immagine d’uomo per sfuggire agli arconti che li governano, e scendere all’infimo, al nostro, per poi risalire, con pena, la scala dell’essere. Nel suo passaggio fra noi, ha rivelato agli umani un destino oltre la morte.
Gesù è stato rappresentato, nei vangeli canonici, come profeta e come apocalittico. E' profeta (il modello è sempre Elia) quando proclama le beatitudini o compie miracoli: si tratta di interventi rivelativi o taumaturgici d’origine sovrannaturale, ma tesi a ristabilire l’ordine naturale delle cose. Per il cieco di Gerico, in quanto essere umano, la condizione naturale è poter vedere. Gesu è apocalittico invece quando invita, raccontando la parabola della zizzania o altre simili, ad attendere l’ineluttabile e spaventoso castigo degli empi, opera degli angeli di Dio alla fine dei tempi, senza cercare d’anticiparlo con azioni umane violente. Le lettere deutero-paoline, Colossesi ed Efesini, testimoniano dell’attribuzione al messia Gesù di caratteri cosmici quali saranno poi sviluppati dalla gnosi cristiana: l’incarnazione inizia a sembrare una dolorosa battaglia condotta in campo avverso contro gli arconti del creato.
Abbiamo voluto riprendere per sommi capi (e in parte ridurre a caricatura) queste correnti del pensiero biblico o peri-biblico dell’antichità, per introdurre con alcune delucidazioni storico terminologiche le riflessioni del prof. Pasquale Arciprete, laureato in Scienze politiche presso l’Università degli Studi di Napoli e dottore in Scienze sociali presso la Pontificia Università San Tommaso in Roma. Il suo volume Apocalittica, terrorismo e rivoluzione, consta di settecentoventi pagine, ma non è che la pubblicazione della prima parte della dissertazione ad lauream: l’autore promette di stampare il rimanente in altri due volumi (cfr. p. 11). A tale parzialità dobbiamo, probabilmente, anche la curiosa sistemazione della bibliografia (pp. 685-696): molte opere citate nelle note non vi appaiono e quelle richiamate sono elencate, nelle diverse sezioni, per anno di edizione e non in ordine alfabetico. Manca una lista delle abbreviazioni e delle opere antiche, bibliche o extrabibliche, richiamate nel testo.
Iniziamo la nostra analisi dal capitolo secondo (L’apocalittica giudaica e la sua storia: pp. 128-217), poiché è quello più vicino alle nostre competenze. Incastonato fra una serie d’annotazioni sostanzialmente esatte e di informazioni senz’altro utili al lettore (che si suppone non biblista, ma politologo), affiora alle pp. 139-140 il taglio ermeneutico cui l’autore sceglie di aderire. Riportiamo il brano con i corsivi originali: «sostengo che l’apocalittica sia una spiritualità nata all’interno del ceppo religioso ebraico a ragione del contributo teologico fornito da più gruppi settari; questi, ritrovandosi ad un certo punto della loro storia emarginati dalle correnti teologiche dominanti, cominciarono a modificare secondo sviluppi autonomi posizioni religiose fino a quel momento unitarie, fino a dar luce a una peculiare visione generale del mondo e dell’esistenza, meglio capace di esprimere e rappresentare la propria condizione settaria, la propria aspettativa salvifica e il sistema di rapporti interpersonali che essi auspicavano con gli altri uomini. Proprio a motivo di questa sua origine settaria, l’apocalittica acquisterà quel suo caratteristico tono avvelenato e rivendicativo che la renderà capace di proporsi come ideologia ad hoc per le istanze di salvezza di ogni gruppo marginale e di causare riflessi imponenti sul sistema dei rapporti di potere dati». L’utopia eresia perenne era il titolo d’un libro di Thomas Molnar, tradotto in italiano nel ‘68. La definizione, che si vorrebbe più esatta delle precedenti, o meglio, piu capace di mettere in luce un aspetto particolare (il carattere settario), non convince del tutto sul piano storico letterario. I primi testi che definiamo solitamente apocalittici sono alcuni capitoli di Isaia (24-27; 65-66) e il Libro di Ezechiele: si tratta di opere prodotte da cerchie sacerdotali, difficilmente definibili come settarie, anche se gli autori si esprimono in tempi di crisi e in condizioni di oggettiva esautorazione. Non e quindi la separazione che crea la spiritualità apocalittica, ma un diverso rapporto con le speranze profetiche, di cui lentamente si perde di vista la realizzabilità intrastorica. Quanto a gran parte della letteratura apocalittica d’epoca ellenistico-romana, essa rispecchia senza dubbio l’ideologia e il linguaggio di comunità marginali e chiuse, ma non necessariamente settarie. Forse gioca, in questo giudizio restrittivo, l’effetto Qumran: gli esseni separatisti (secondo l’ipotesi di Florentino Garcia Martinez) di cui s’è ritrovata la biblioteca presso il Mar Morto possono effettivamente esser considerati frutto d’un duplice rifiuto dell’ebraismo templare dell’epoca e di un essenismo non radicale, ma ne creano il genere apocalittico, ne si sono distinti per particolare aggressività politica. Sempre sul piano storico, l’apocalittica, in quanto messaggio consolatorio, non risulta essere stata la molla delle rivolte giudaiche. Almeno a sentire Flavio Giuseppe, l’atteggiamento dei suoi correligionari assediati in Gerusalemme avrebbe dovuto essere modellato su quello che adottò Abramo quando il Faraone insidiò sua moglie: «Che fece allora suo marito Abramo? Si vendicò egli forse dell’offesa con le armi, pur avendo trecentodiciotto capitani, ciascuno con un grandissimo numero di soldati? Oppure stimò che costoro non erano niente senza l’aiuto di Dio e, protendendo le mani monde da impurità verso il luogo che ora voi avete profanato, si assicurò il sostegno dell’invincibile?» (Bell. V,9,380, trad. G. Vitucci). Giuseppe rimprovera ai rivoltosi l’empieta dei loro propositi di resistenza in nome d’un atteggiamento squisitamente apocalittico: la vittoria può essere data solo dall’intervento divino.
Il terzo capitolo del libro in esame (pp. 218-402: Riflessi storici dell’apocalittica (I): continuità ideologiche e comportamentali con le correnti rivoluzionarie contemporanee) identifica in sei elementi l’eredità apocalittica nel pensiero di alcuni gruppi antagonisti del nostro tempo. Il rapporto settario, disumano ed assolutizzato, coi sacri testi apre la serie. Il riferimento al fondamentalismo (o a una sua caricatura) pilota questa sezione. Il rapporto coi testi legislativi ed oracolari è storia lunga nei popoli antichi. E' vero che una legge scritta da Mosè su pietre poi celate in un armadio chiuso in una stanza buia dove poteva entrare solo suo fratello e gli oracoli gelosamente custoditi dalle scuole profetiche, come le cronache di palazzo, avevano finito secoli dopo e per moto di “laicizzazione” del diritto col comporre una biblioteca di pubblico dominio (biblia e un plurale) tradotta e riletta in greco ed aramaico e quindi consultabile da chiunque (ammesso che non si tratti che di una volgarizzazione dei testi custoditi dai sacerdoti). Questa maggior fruibilità dei testi legali e profetici scateno l’interpretazione, ma come i farisei presero lentamente il ruolo dei sacerdoti nella lettura dei dispositivi legali, alcuni circoli apocalittici s’interessarono all’ermeneutica dei profeti e della storia. In ciò non furono ne più ne meno abusivi dei farisei o dei sadducei (o dei cabalisti che vennero poi): si chiesero come avrebbe potuto realizzarsi il piano di Dio in mutate condizioni storiche, lo abbiamo visto. Le altre caratteristiche sono: un credo sovversivo e/o catastrofico, un agente divino che non risponde ad alcuna morale, il messianismo carismatico, il fare del gruppo settario la vera societa (vero popolo di Dio, vera Chiesa, ecc.), il congiungere in un’unica prospettiva ideale l’inizio e la fine della storia (escatologia protologica).
Nel secondo paragrafo del quarto capitolo (pp. 435-455 Giano bifronte: i due volti storici del movimento apocalittico parte del capitolo: Riflessi storici dell’apocalittica (II): modalità e dinamiche dell’intervento storico degli attori apocalittici, pp. 403-683) viene sviluppata l’idea di un «credo sovversivo e/o catastrofico»: i gruppi apocalittici moderni si differenziano per comportamenti quietisti o aggressivi. Questa duplicità, a dir il vero, scaturisce solo dalla definizione di apocalittica adottata dall’autore. Una definizione al contempo ampia, poiché sussume sotto la categoria d’apocalittica le caratteristiche tipiche della gnosi e della profezia, e ristretta, dato che ne fa il sostegno ideale di realtà sociologicamente marginali o emarginatesi. Gnosi e apocalittica sono forme di teologia essenzialmente consolatorie: portano pertanto al quietismo o ingenerano, al massimo, agennesia o terrorismo suicida per negazione dell’esistente. Questa fusione abusiva degli orizzonti ideali domina il quarto capitolo. Cosi la speranza della terra (squisitamente profetica ed immanente) deve, per Arciprete, aver dimensioni salvifiche e i movimenti operanti in Palestina ai tempi di Gesù (amalgamati nel calderone della guerra contro Roma, profeti compresi) divengono prototipi delle rivolte odierne.
Spesso lo storico racconta il suo vissuto più di quanto non renda ragione dei fatti lontani di cui vuole interessarsi. Pensiamo di poter ascrivere Arciprete, che di formazione è politologo, a questa categoria. La commistione terminologica di cui risente il suo libro gli deriva in realtà dal linguaggio odierno, frutto di sedimentazioni secolari e di mutazioni d’orizzonte: in quanto studioso dei fenomeni contemporanei, adotta ed usa i concetti nel loro presentarsi all’odierna coscienza. Buon rapporto circa le ultime evoluzioni non solo lessicali è, infatti, il primo capitolo del libro (pp. 7-127: Apocalittica e violenza terroristico-rivoluzionaria: il lungo filo rosso). Facendosi parte del difficile dialogo fra politici, filosofi e giornalisti, l’autore rende conto del vero Armaggedon lessicografico prodottosi nella pubblicistica corrente. Per fare un esempio e con esso chiudere queste note, il termine «millenarismo» è solitamente usato per indicare la certezza d’un travalicare prossimo dall’era dell’incompiutezza e dell’empietà al tempo della pienezza. Il tal senso, Osama bin Laden è detto millenarista dagli autori citati. Nell’Apocalisse di Giovanni (20,2-7), invece, il veggente, quando annuncia il millennio, compie opera di mediazione quasi dorotea. Da buon apocalittico vuole cieli nuovi e terra nuova, ma sa che i profeti (e gli ebrei che seguono la Bibbia) nutrono la speranza tutta terrena d’un regno dei giusti in questo mondo. Cosi fa incatenare Satana perché questo regno possa realizzarsi per mille anni prima dell’ultimo giudizio. Tanto, per lui, il numero dieci e i suoi multipli cento e mille indicano finitudine perché il dieci è la base del calcolo e ciò che si può contare non realizza la pienezza di Dio.
Pasquale Arciprete mantiene ed argomenta con chiarezza la sua tesi di fondo: «l’apocalittica e una funzione marginale e settaria del giudeo-cristianesimo, poi passata all’Islam, che da struttura ideologica assoluta alle derive violente della lotta politica dei gruppi antagonisti contemporanei». Ci auguriamo che i prossimi volumi trasmettano una descrizione critica e non aprioristica del nostro presente cosi mutevole e difficile da leggersi per noi che non abbiamo parte alla distanza teologale dell’apocalittico che tutto vede dall’alto e parla in simboli per esprimere le costanti storiche che nessun esempio del suo presente può manifestare appieno.
http://www.oikonomia.it/oikonomia/pages/2009/2009_ottobre/recensione_3.htm
(N.B. Le sottolineature e le messe in evidenza di alcuni concetti sono a cura del Corriere metapolitico)